La decisione del figlio di Salvatore Quasimodo di vendere il premio Nobel del padre per un’antica e irrimediabile offesa affettiva farà storcere il muso a molti. A me invece sembra un’incantevole e poetica vendetta, solidamente giustificata. La vicenda è semplice nel suo banale congegno: invitato alla cerimonia di consegna dei Nobel, Quasimodo non andò a Stoccolma con moglie e figlio ma con un’altra donna (che tra l’altro non fu ammessa in sala e alla cena di gala perché sconosciuta al cerimoniale).
Il figlio Alessandro ha quindi deciso di esercitare un suo diritto, quello del non perdono, che è una forma di affetto in quanto sentimento destinato a chi si è amato. E non è un caso se questa decisione urente viene partorita in un ambito artistico: solo l’arte ci salva dai buonismi dolciastri e dall’irritante retorica di altre guance da porgere sempre e comunque. La forza creativa viene dai pensieri trasversali, dalle logiche sghembe, dal desiderio di cattiverie che non siano gratuite ma in qualche modo meritate. E’ un tema che abbiamo già affrontato col diritto di odiare. In questo caso però siamo in una dimensione unica, in cui il particolare di una vicenda personale (quella di un figlio tradito dal padre) assume una connotazione universale. Il non perdono è un’ancora di salvezza quando i mostri del passato non si dissolvono. L’unico modo di annientare un brutto ricordo è cristallizzarlo, tenerlo sempre ben presente e combatterlo con le armi che il divenire ci porge. Se un padre è stato egoista – e l’egoismo di un padre nei confronti di un figlio è una forma esplicita di malvagità – e se il tempo non ha stemperato quell’amaro nella bocca di chi resta, è naturale ipotizzare una sorta di romantica legittima difesa che non sani, non lavi, ma che almeno illuda sulla sorte delle cicatrici dell’anima.
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