Elogio della distanza

Il mio incubo non è invecchiare, o peggio morire. Ma indurirmi, perdere sensibilità verso la parte più bella della vita che, notoriamente, è quella che comporta più fatica. Come un panorama unico per il quale abbiamo scarpinato, viaggiato, speso un sacco di soldi, sofferto a causa delle zanzare o del freddo o della diarrea, il bello che rischiamo di perderci (passo al plurale maiestatis per diluire un po’ di responsabilità) è qualcosa che ci è costato più di qualcosa. Indurirsi significa aver sprecato fatica, tempo, soldi, e la nostra moneta più preziosa: il sentimento (che, badate bene, non è solo l’amore ma tutta una congerie di corto-circuiti belli e divertenti). 

La condanna ad essere social a tempo pieno, la perdita di un valore come la distanza – perché se si è tutti vicini non ci sarà mai la mancanza che è uno dei fondamenti dell’arte e della ricerca – ci rendono tutti più duri, meno sensibili alle variazioni. E senza variazioni il panorama è piatto: ci può piacere un giorno, due. Poi è una palla mortale. 

Ecco perché dovremmo ricominciare a farci domande senza hashtag, a darci appuntamenti parlandoci e a vederci guardandoci. 

Una vera rivoluzione, secondo me, può cominciare da qui.