Tiro fuori dal tritacarne dei social uno spunto di riflessione – a dire il vero non nuovo, ma sempre interessante – sul rapporto tra cronaca cruda e cultura, sulla Palermo ferita dall’immondizia e sulla città che invece sta cercando di rinascere con manifestazioni e spettacoli di prim’ordine.
L’altro giorno è morto un clochard e su Facebook si è scatenata una polemica sul fatto che se un uomo muore per strada, solo e disperato, quella della Capitale della cultura è solo una favola o una frottola, dipende dal grado di fantasia del polemista di turno. Mi sono ribellato a questa raffigurazione che ritengo ingiusta e piagnona. E l’ho fatto con l’esempio più banale che mi è venuto: il 23 dicembre scorso una clochard è morta a Pistoia, la capitale della Cultura 2017, e non risulta che alcun pistoiese si sia sognato di mettere in dubbio il prestigio della città. L’acredine con la quale la mia argomentazione è stata respinta mi ha fatto riflettere. Quindi ne scrivo qui, a casa mia, per cristallizzare alcuni concetti, a futura memoria insomma.
Se si muore, e si muore, non è detto che si debba vivere tristemente. Se la cronaca ci ricorda che siamo una città con molte, troppe ferite, perché mettere in dubbio quel che di buono si è fatto? Solo negli ultimi mesi. I pianoforti in giro per la città, Google che sceglie un teatro d’opera per raccontare il futuro, i maxischermi con le persone che ballano il valzer in piazza, Figaro gratis nelle periferie (ah, le periferie!) non sono la panacea per i mali di Palermo, è vero. Ma sono qualcosa che se vista a Parigi o a Vienna è una figata “perché vedi come si fanno le cose…”, se invece è vista a Palermo diventa lo spunto per fortificare la tristezza dell’essere “perché prima ci sono molte cose più importanti da fare…”.
È questo il nodo della questione. La felicità di una comunità non è un valore assoluto che si raggiunge solo quando tutti i problemi sono risolti. Si può gioire per parametri, per settori, si possono identificare momenti perfetti, e goderne, senza necessariamente inquinare con eccessi di ottimismo o, peggio, di pessimismo la restante quota di vita sociale.
Al netto della cialtroneria con cui si cerca di sminuire un fenomeno attaccando le persone, fa paura il concetto secondo il quale un clochard non può morire in una città Capitale della cultura. Perché il dolore umanissimo e lacerante per la perdita di una vita non potrà mai trovare un equivalente su un fronte che non confina ontologicamente con quel sentimento. È come togliere lo scudetto alla Juve se un disoccupato si dà fuoco a Torino.
Il dramma del clochard è tale dovunque si verifichi. Non c’è grande città che si salvi (basta dare un’occhiata alle cronache) ed è giusto interrogarsi sulle cause e trovare rimedi. Ma è inaudito brandirlo accanto ai vessilli del populismo. L’èra della rabbia nella quale viviamo non ha generato solo fake news e troll che, grazie a soldi e sfrontatezza, sono diventati capi di stato, ma ha partorito anche una finta solidarietà del piagnonismo. Che livella verso il basso ogni spunto creativo, che siccome ci sono gli ultimi odia persino i penultimi. Che sogna un mondo felice coltivando l’infelicità.