Il “ricominciatore”

Sono un “ricominciatore”. Che è categoria di persona complicata da descrivere giacché non c’entra l’incostanza né l’irrequietudine e non si può tirare in ballo la pigrizia e il suo contrario o l’iperattività con le sue complicanze motorie.

Io non amo ricominciare, io sono costretto a ricominciare. Costretto da me stesso e da nessun altro. È difficile da raccontare perché, come sto cercando di spiegare da una manciata di (inutili) righe, è una condizione spiegabile più per quel che non c’è rispetto a ciò che c’è. 

Provo a essere esplicito. Anche se sono felice, se sono perfettamente realizzato, se il mio cielo sta sempre al suo posto, la centrale operativa della mia coscienza a un certo punto mi dà un segnale. Un piccolo segnale, mai fastidioso, appena percettibile dal Consiglio di amministrazione della mia mente: ricominciare, forza… un due, un due!
E lì le cose cambiano gran parte delle volte in modo non traumatico (occasionalmente, mooolto occasionalmente, ci si è mossi sullo scenario di un disaster movie hollywoodiano).

Ricominciare in questa accezione, infatti, è un’esigenza quasi biochimica: basta un grammo di cambiamento per condizionare tutta la reazione che seguirà. Si può ricominciare restando al proprio posto, mantenendo inalterati gli affetti, non buttando all’aria tutto il lavoro fatto, perdonando a denti stretti e lasciandosi ammaliare da un’idea appena abbozzata. Oppure si può ricominciare in modo più grossolano, smettendola coi pensieri malsani e bevendo una birra coi piedi nella sabbia invernale, o passando una notte a consumare appunti di carta su un letto sfatto.

L’elemento cruciale delle pulsioni più o meno insane del “ricominciatore” è uno solo: la curiosità. Appena il suo prodotto esterno lordo – esterno cioè del mondo relativo al soggetto in questione – cala al di sotto di un tot, scatta l’allarme.

Il “ricominciatore” teme come la kriptonite tutto ciò che è telefonato con anticipo imbarazzante, teme il potere che brilla di luce riflessa, teme il vecchio che finge di essere nuovo e il nuovo che si traveste con costumi troppo corti e azzimati per sembrare plausibili.

Il “ricominciatore”, in generale, odia i finali scontati, fossero anche quelli a lieto fine. Ci perdoniamo troppe colpe di sopportazione per una sola vita: basterebbe almeno un “non ci sto, e vaffanculo” per darci uno speed che al confronto un cocainomane è la reincarnazione hard di Madre Teresa di Calcutta. Invece lo scenario è quello di un appiattimento delle reazioni recensibili, quelle socialmente note quindi quelle meno vere, in cui un “like” non si nega a nessuno, neanche al collega, all’amico, al coniuge, al parente che hai pugnalato alle spalle un nanosecondo prima.

Quelli che non sanno ricominciare sono i “poltronisti” che confondono la luce riflessa con la luce propria, sono gli imbonitori che non hanno mai viaggiato manco in sogno, sono i cultori del gerundio da imbarazzo (una forma verbale sulla quale in mancanza di solidità interiore si tenta di rendere universale un concetto molto personale tipo “pensando al futuro” al posto di “ho pensato questo, così e così”).

L’unica certezza è che i “ricominciatori” hanno vita difficilissima. Niente cookies di consenso, niente copertura politica, niente stabilità familiare. Solo salite e notti insonni, strapiombi fisici e di metafora, Maalox e aria pura.

Si riconoscono tra loro dopo mezza frase, si fanno riconoscere dal resto del mondo dopo uno sguardo e generalmente si ritrovano soli con un perimetro di sgommate sull’asfalto.

Sono gli unici che ridono quando pèrdono e che restano perplessi quando tutto va bene. Perché quando è tutto ok alla domanda “come va?” rispondono “bene”, mentre in caso contrario possono finalmente argomentare.

Il “ricominciatore” è un sognatore che paga anni di vita per non svegliarsi mai. E nel frattempo invecchia con involontaria felicità.  

Elogio della distanza

Il mio incubo non è invecchiare, o peggio morire. Ma indurirmi, perdere sensibilità verso la parte più bella della vita che, notoriamente, è quella che comporta più fatica. Come un panorama unico per il quale abbiamo scarpinato, viaggiato, speso un sacco di soldi, sofferto a causa delle zanzare o del freddo o della diarrea, il bello che rischiamo di perderci (passo al plurale maiestatis per diluire un po’ di responsabilità) è qualcosa che ci è costato più di qualcosa. Indurirsi significa aver sprecato fatica, tempo, soldi, e la nostra moneta più preziosa: il sentimento (che, badate bene, non è solo l’amore ma tutta una congerie di corto-circuiti belli e divertenti). 

La condanna ad essere social a tempo pieno, la perdita di un valore come la distanza – perché se si è tutti vicini non ci sarà mai la mancanza che è uno dei fondamenti dell’arte e della ricerca – ci rendono tutti più duri, meno sensibili alle variazioni. E senza variazioni il panorama è piatto: ci può piacere un giorno, due. Poi è una palla mortale. 

Ecco perché dovremmo ricominciare a farci domande senza hashtag, a darci appuntamenti parlandoci e a vederci guardandoci. 

Una vera rivoluzione, secondo me, può cominciare da qui.