Il “poliedrico riccionese noto sul territorio internazionale come studioso di Arte Liberty e artista alla 54° Biennale di Venezia” – la definizione è sua – che vedendo un ragazzo agonizzare dopo un incidente stradale anziché aiutarlo, chiamare i soccorsi, pregare, fuggire (purtroppo è previsto), ha messo su una diretta Facebook ci dice di questi nostri tempi molto di più di uno studio sociologico o di un editoriale di Selvaggia Lucarelli.
Oggi è facile seppellire questo signore di minacce, ingiurie e maledizioni perché l’esercizio della morale a posteriori è come quello della pedalata in discesa: chi non ha la struttura va in playback.
Ma nemmeno è urgente il bisogno di difenderlo, questo stupido prodotto del colon retto dei social.
In realtà quello che dovrebbe darci uno stimolo di dibattito, non soltanto a me che questi avvenimenti comunque li osservo per mestiere, deriva dalla rarefazione degli attimi cruciali dopo quel tragico incidente.
Il poliedrico assiste al dramma.
Resta sconvolto.
Prende il cellulare.
E qui imbocca la strada sbagliata nel bivio spazio-temporale che divide l’istinto tramandato (quello che tutto conosciamo come semplice “istinto”) e quello acquisito (un ibrido di bieca consuetudine e pigrizia mentale). Sceglie la consuetudine, che come tutti sanno è strettamente personale al contrario di un istinto puro diffuso e di specie.
Prende il cellulare e non telefona al 112, al 113, al 118, all’amico che ha quella stessa moto, alla mamma, alla fidanzata che magari lo ha appena lasciato. No. Accende una diretta Facebook e filma tutto a distanza con una codardia tecnologica che rischia di essere la cifra di una fetta di generazione.
A che cazzo serve la cibernetica (la chiamavamo così decenni fa) se non ci migliora la vita e anzi ce la rende detestabile?
Su questo dovremo interrogarci. Sull’istinto acquisito che ci spinge ad atti innaturali come la diretta Facebook della morte di un ragazzino. Pensate un po’: persino la fuga sarebbe un atto più umano.