La vecchiaia e la teoria della frittata

Ha fatto scalpore la foto di Bill Clinton e Tony Blair che si sono incontrati la settimana scorsa per commemorare un trattato contro le violenze tra indipendentisti e unionisti nordirlandesi. Il motivo non è nella sostanza, cioè nella storia che sta dietro quell’accordo o nella biografia dei personaggi o ancora nei retroscena di quell’incontro o di altri del genere, ma nella forma più esteriore che ci possa essere: le loro facce, le loro facce in quella foto.
In molti, nella ribollita insipida dei social e non solo, si sono chiesti se quei volti fossero stati invecchiati artificialmente da un filtro o se addirittura l’immagine fosse frutto di un’intelligenza artificiale. Come se invecchiare fosse una controindicazione o il complicato risultato di un filtro ottico.
Da qui lo stupore dinanzi alla cruda realtà: no, quei due oggi sono realmente così.
Buuu!

Eppure il segno degli anni è antico come il loro inizio. Siamo nati con la promessa che saremmo finiti, finiti lentamente. E in questo percorso era tacito che ci saremmo rotti i coglioni – a chi fa piacere svegliarsi ogni giorno con una ruga e un acciacco in più? – ma non che ci saremmo meravigliati.
Il vero cambiamento si è verificato negli ultimi dieci anni, forse anche meno (la pandemia ci ha dato un colpetto niente male). Con lo sbocciare dei social network e con la conseguente impollinazione di filtri e illusioni tangibili, l’invecchiamento è diventato la goccia di saliva che sfugge in un’amabile discussione dinanzi a una tavola imbandita: qualcosa di cui vergognarsi e per la quale chiedere scusa.
Perché è impossibile che il tempo passi infischiandosene delle timelines, è inaccettabile che il/la  follower che ti tampina su Instagram non ti riconosca se ti becca in ascensore, è disdicevole non porgersi fisicamente come l’altro si aspetta che tu ti porga. È vitale stupire a senso unico, cioè contro la fisiologia, la biologia e altre scienze superate da FaceApp.
Chiarisco. Non sono tra gli estimatori della sciatteria, pur non avendo certo la puzza sotto il naso: insomma sono sempre uno che per almeno un mese all’anno vive tra sentieri e monti con uno zaino in spalla… Per dirla in modo più esplicito non sono un cultore di feticismi abbrutenti (peli, odori, segni di abbandono rimediabili, eccetera). Una persona curata mi attira infinitamente di più di una persona trasandata (con le ovvie eccezioni di modo e luogo). Ho una mia idea di come una donna di una certa età (mi piacciono le donne, ma voi traslate il concetto nel genere che meglio vi aggrada) possa essere sempre attraente senza dover ricorrere ad acrobazie o giochi di prestigio: la buona creanza e l’autostima sono i migliori copri-rughe al mondo. Né, d’altro canto, mi faccio incantare da quelli che esaltano le macerie del proprio corpo, orgogliosi dei canyon sulle guance e raggianti per un avambraccio cadente. No, la vecchiaia fa cagare tutti quelli che ci incappano e chi non è d’accordo è un bugiardo, nel migliore dei casi.

Il risultato è contro ogni pronostico dei nostri account, contro ogni conquista scientifica, contro ogni indagine sociologica. Nonostante l’aspettativa di vita sia cresciuta fantascientificamente (in Italia la media è intorno agli 84 anni, ed è ancora più alta per le donne), l’autostima per l’involucro di quella stessa vita è andato a farsi fottere. Perché ogni volta che usiamo un filtro per i nostri selfie dovremmo tenere conto della legge della frittata.
La nostra vita è come una frittata: per farla bene bisogna romperle, le uova. Altrimenti è solo una schifezza buona solo per gli onanisti del virtuale che, com’è noto, non invecchiano perché sono già morti prima ancora di godersela.        

Piedi, selfie e altra fuffa dei social

L’articolo pubblicato su Il Foglio.

C’è qualcosa di utile in ciò che è perfettamente inutile: e cioè che lo si può usare come cattivo esempio. Almeno nella vita reale, al di qua del moderno specchio delle nostre brame, ergo lo smartphone. Dall’altro lato, nell’universo virtuale, tutto cambia. L’utile e l’inutile si diluiscono in una marea oleosa nella quale persino il cattivo esempio annega anonimo e umiliato dal non essere più né cattivo né esempio. È il trionfo di una lanugine del pensiero che avvolge e non ripara, sovrasta e non copre, ingombra e non riempie: la fuffa dei social.

Tutto è iniziato quando abbiamo rivolto verso di noi l’obiettivo del cellulare e da cultori più o meno scafati di un voyeurismo innocente e casereccio che alimentava l’interesse per le immagini degli altri, siamo diventati indefessi produttori di immagini da far guardare agli altri. E in questa rivoluzione, che è tecnologica, di costume e di linguaggio, abbiamo sovvertito una serie di regole che originariamente tendevano a raffinare il prodotto, a centellinare i risultati.

Nel passaggio dall’autoscatto al selfie si modifica un fattore determinante come quello del tempo: oggi il risultato è subito visibile, non è più un investimento che potrà essere riscosso dopo sviluppo e stampa, bensì una astrazione di realtà ripetibile, duplicabile e modificabile all’infinito. Quel braccio teso nei selfie è un invito a oltrepassare la cornice del ritratto e a entrare in comunicazione. Ma con chi? Non certo con l’individuo che si è autoritratto poiché nulla è più insondabile di un’immagine ciclostilata a uso e consumo di milioni di occhi. Entriamo in comunicazione col coro degli “adoratori della fuffa”, di cui quell’immagine è parte infinitesimale, ci lasciamo accogliere nelle echo chambers dove ciascuno vede solo ciò in cui si riconosce e che si aspetta di trovare.

L’autoselezione, cioè il volontario intruppamento in una conventicola di followers, è un elemento determinante per il proliferare incolto della fuffa nei social network.

Il caso dei tramonti è prezioso per spiegarne le dinamiche.

Non c’è nulla di più falso della foto di un tramonto. Perché già nell’attimo stesso in cui lo smartphone la cattura, un sistema elettronico ha colorato e alterato l’immagine (che è un controluce per antonomasia) uniformandola a parametri che la renderanno simile a milioni di altre immagini scattate davanti a milioni di altri tramonti. Non è tema di esclusiva pertinenza tecnologica, basti pensare alle ripercussioni sulla filosofia che divide i fotografi tra “albisti” e “tramontisti”. Giacché un’alba si cerca e un tramonto si trova, con quel che ne consegue in termini di fatica, dedizione e competenza, una semplice opzione sulla app di qualsiasi telefonino è in grado di trasformare un sole caldo in un sole freddo e viceversa: risultato, la moltiplicazione infinita di immagini nate e morte false. Eppure l’oppio delle echo chambers produce la reazione opposta a quella che ci si dovrebbe aspettare. In un tripudio di cuori, pollici alzati, faccine sbalordite, sale il coro dei “bellissimo/a”, come se contasse davvero quella macchia di colore rossastra, come se Zanzibar e Ustica avessero davvero un sole diverso, come se quel bicchiere in primo piano (la foto dell’aperitivo al tramonto è una pratica che ha più a che fare con l’onanismo che con la socialità tecnologica) raccontasse davvero una situazione unica.

L’applauso all’emozione contumace premia la conventicola stessa, è più pacca sulla spalla agli amici del gruppo che complimento all’autore. Più effetto che affetto.

Sarà per questo che ormai non ci curiamo nemmeno di apparire al meglio della nostra forma, di metabolizzare raffiche di selfie che non ci soddisfano, che non cestiniamo il brutto per valorizzare almeno il passabile. Che addirittura ci ridicolizziamo con evidente orgoglio mediante stickers o adesivi virtuali, ci mettiamo orecchie da coniglio, nasi da topo, che ci deturpiamo gioiosamente i volti con effetti visivi da casa degli orrori, che accettiamo di metterci in mostra nel luna park del web come non siamo mai stati e come in fondo non vorremo mai essere.

Perché l’applauso non è per noi, e lo sappiamo pur senza essercelo mai confessato, ma è per il circo che ci gira intorno e che usa gli stessi codici per blandirci e rassicurarci: smorfiette, emoji, pollici, cuori.

La fuffa rassicura e scaccia ogni forma di ansia perché droga ogni forma di giudizio.  

Persino il metodo più naturale di narrazione, quello che inquadra il divenire nel suo tragitto inesorabile tra punto di partenza e punto di arrivo, viene stravolto senza che si ridesti in noi il sistema immunitario sociale del senso del ridicolo. È il caso dell’“effetto boomerang”, una applicazione che crea delle brevi gif, ossia scatta una serie di foto in sequenza e le mette insieme formando un video pochi secondi. Il risultato è una galleria nevrotica di smorfie in loop, piedi barcollanti, cucchiaini che affondano nel gelato senza ferirlo, di corpi che resuscitano dalle acque: un panorama tremolante e ossessivo che fa dell’effetto (manco troppo) speciale il mezzo per raccontare una storia troppo breve per essere storia e troppo lunga per essere tollerata senza un sorriso.  

Nel 2014 lo psicologo ed economista ambientale Dan Ariely definì sul Wall Street Journal le cinque ragioni psicologiche per spiegare il fenomeno dei selfie: “1) ci serve a fermare l’attimo; 2) ci permette di continuare a vivere il momento (se dovessimo fermarci a chiedere a un’altra persona di scattarci una foto, smetteremmo per un attimo di viverlo); 3) condividiamo l’esperienza del momento con altri; 4) non ci preoccupiamo troppo del nostro aspetto; 5) lo fanno tutti”.
Era stato fin troppo ottimista dal momento che non aveva aggiunto il punto 6: ci fa godere nell’apparire terribilmente ridicoli.

Ma liquidare la fuffa dei social come mero riempitivo di esistenze che si riverberano nelle timeline, sarebbe sbagliato. Basta fermarsi e guardare con più calma ciò che ogni giorno passa sullo schermo del nostro smartphone. Fondamentalmente un tripudio di gambe e piedi. Ma attenzione, nel messaggio tramandato da questi arti in bella mostra c’è una porta nascosta e la chiave che la apre va cercata nei dettagli.

Nello specifico è una questione di centimetri. Il selfie che svela un paio di gambe adagiate su un divano con il loro corredo di filtri, effetti, sfocature strategiche ci rivela un’intenzionale manomissione che stavolta non interessa la foto in sé, bensì l’effetto che essa vuole provocare. Insomma c’è un curioso meccanismo di doping dell’attenzione altrui su quelle cosce che si mostrano per quello che sono (un paio di cosce) ma che, grazie all’inquadratura ampia quanto basta, promettono un dettaglio inguinale che non c’è. In quell’immagine ci si mostra liberi e al contempo pentiti di tale libertà, come se improvvisamente un freno avesse bloccato, per miracolo, la mano che conduce il gioco dell’autoscatto (che non a caso, negli anni Settanta, era una rubrica di alcuni giornali porno), in un rigurgito di pudore. Anzi di semi-pudore, che è la cifra dominante dei maggiori produttori di fuffa social. Cioè di tutti quegli utenti che sussurrano all’orecchio di ciascuno dei propri followers “vorrei tanto, ma non posso” e intanto alimentano l’antica forma di “ferocia” del feticista visto da Marx, che inquadrava una relazione ossessiva con una parte del corpo come più significativa rispetto a una relazione misurata con l’intero. Si dice: misero è il feticista al quale è offerta una donna, quando ciò che vuole è una scarpa. Ecco, il semi-pudore è una declinazione di furbizia social che non offre in realtà nulla, ma riscuote come se fosse.

Nei suoi lavori su media ed etica, l’israeliano Hagi Kenaan sostiene che l’occhio ha ormai raggiunto uno “stato di morte clinica” a causa di ciò che definisce “estetica dell’appiattimento”. La sua tesi è che “passiamo la maggior parte delle nostre vite di fronte a schermi, di modo che la profondità, il tempo, gli errori, le crepe sono interamente eliminati. In quanto vedenti funzioniamo come drogati, allo stesso tempo bramanti e dissanguati da ciò che usiamo per prevenire il nostro impegno nel mondo”. Così come generalmente accade nella dipendenza, la responsabilità etica tende ad essere la prima vittima dell’appiattimento, afferma Kenaan: dal pudore al semi-pudore è solo un passaggio tecnico, nel rispetto del dio algoritmo che regola l’effetto sul web dei nostri pensieri, parole, opere e omissioni. 

Alla luce di questi cambiamenti climatici nel pianeta delle emozioni, l’antologia della fuffa ha eletto il suo organo di riferimento. Che, come si può supporre, non è più l’occhio, ma il dito. Non a caso l’universo nel quale galleggiamo, più incoscienti che incolpevoli, è quello digitale. E le dita toccano, regolano, scattano, modificano, pubblicano i contenuti che alimentano le echo chambers.  Il paradosso è che proprio il tatto, quel senso che dovrebbe essere penalizzato nel mondo virtuale, è il protagonista di questo nuovo fenomeno cognitivo.

La tecnologia non sta a guardare, non indugia e nel suo perverso tentativo di rendere l’uomo strumento del suo stesso strumento, piazza il suo colpo basso: l’ultimo iPhone 11 Pro ha tre telecamere per inquadrare una stessa scena con un grandangolo, un ultra-grandangolo e un teleobiettivo. Avremo la fuffa in 3D.