Il futuro se ne fotte del bilancino

Non potremmo concludere la nostra riflessione sulla rivoluzione obbligata del futuro senza parlare dell’informazione e della politica. Due argomenti che, in piena epoca di qualunquismo destrutturato e di superficialità al potere, destano sbadigli se non accoppiati a improperi, maledizioni e slogan manettari. Ma proviamoci.

Il grande errore dell’informazione negli ultimi due decenni è stato quello di cercare di domare la realtà. Che detta così sembra una cosa che ha a che fare con il sacrosanto dovere di stare alle calcagna della cronaca. Invece è diverso. Le aziende editoriali italiane non si sono dimostrate capaci di offrire una proposta flessibile, non sono state in grado di declinare il prodotto nelle infinite versioni a disposizione. Prendete il rapporto tra carta e online. Ci sono giornali che per salvare il cartaceo hanno sacrificato il loro contributo sul web: una follia peraltro perpetrata da anni in redazioni in cui i siti sono stati affidati a service o a collaboratori di scarsa qualità, quasi come se si trattasse di materiale di risulta. È un tema sul quale in queste pagine si dibatte da troppo tempo, quindi la faccio breve.
Il futuro del giornalismo è tutto nel saper guardare oltre la cronaca: e questo va bene come slogan.
Nel cogliere la rarefazione degli attimi in un fatto e nell’analizzarla come si fa con un video al rallentatore: e siamo più dentro la questione, no?
Ma affondiamo la lama.
Il futuro del giornalismo è tutto nel sottrarre una quota di tempo alla cronaca, quindi nel non dimenticare ciò che è stato ieri e nel non sforzarsi in vaticini fatti a pelle magari sulla scia dell’ennesimo sondaggio (e i sondaggi sono quanto di più distante ci possa essere dal futuro). Nel togliersi dalla testa ogni velleità di controllo delle masse (il “controllo delle masse” ricorda più un film di Woody Allen che un programma politico-editoriale) e nello sposare con orgoglio una forma di narrazione: soggettiva, parziale, non equidistante.

Il futuro se ne fotte del bilancino, le rivoluzioni si fanno con gli squilibri, cazzo. E di squilibri culturali, di scontri di idee, di collisioni di proposte c’è bisogno in quest’era di finti dibattiti, in cui la scelta è prevalentemente tra una constatazione di ciò che è reale e un anelito negazionista, tra un’ovvietà (però reale) e una palese cazzata.

Infine siamo alla politica.
La politica è il terreno di coltura di tutto questo. È il punto di partenza e quello di arrivo, è il battesimo e giorno del giudizio. Anche qui il fattore tempo conta. In politica la nostalgia è sconsigliata dato che il passato ha sempre una brutta sorpresa per chi vuole scavare. Ma manco il futuro scherza. Le recenti cronache ci insegnano che nemmeno il trito “largo ai giovani” funziona più: in Italia abbiamo deputati e ministri imberbi che sono riusciti a fare più casini dei vecchi democristiani incatramati di convergenze parallele e di polvere massonica.
Perché? Perché conta la visione, anzi la visuale, anzi la vista a corto raggio. Perché la rivoluzione obbligata del futuro dà al futuro mandato pieno per giudicare: e per arrivare al futuro è vincolante dichiarare che il presente è un investimento che può avere costi altissimi.
È come costruire una metropolitana in una città dalla mentalità medioevale (ce ne sono, uh!): anni di scavi, sacrifici per i cittadini, disagi tremendi, polvere, clacson, soloni urbanisti, cialtroni urbanisti, cialtroni e soloni senza specializzazione. Si paga oggi per ciò che servirà domani. E la verità è che il politico che si impegna a prendersi i fischi e gli improperi per quei lavori si sta curando del futuro di quegli stessi cittadini che lo maledicono. Ma è complicato da spiegare se non esiste una mentalità che inquadra le cose nel loro divenire e le fotografa e basta.

È la politica che ci dice chi siamo, non viceversa. Il movimento più avveniristico che la sorte ci abbia elargito, proprio in questi giorni, si è arreso dinanzi alla più antica delle cause di separazione, i soldi. Ecco il Movimento 5 Stelle è l’esempio di come non si fa, quando si parla di futuro. Perché è un fenomeno costruito sulle peggiori (e pericolose) illusioni: che una cosa nuova sia ontologicamente migliore; che la tecnologia al servizio della democrazia sia una garanzia di qualità; che il sapere sia una palla al piede per volare verso il domani.
La rivoluzione obbligata del futuro parte dove finiscono le certezze, anche fondate, dietro le quali ci siamo messi al riparo sino a oggi.
Non è una scommessa, è una scelta consapevole. Soprattutto non si fa a piccoli passi, ma con falcate decise. Non serve coraggio, ma conoscenza. E consapevolezza che i soliti noti faranno le solite cose. Gli altri – inclusi quelli che sbaglieranno – faranno cose interessanti.

Il futuro è un delizioso mostro che si nutre di cose interessanti.        

3 – fine

Prima puntata.
Seconda puntata.

Chi ha ucciso i giornali

I giornali muoiono per due motivi. Perché sono troppo vecchi o perché vogliono essere troppo nuovi. Sulla prima causa di morte si è detto molto e da tempo. Aziende editoriali che non riescono a tenere il passo con i cambiamenti economici, sociali e politici generano prodotti che per selezione naturale devono finire fuori dal mercato, o al limite estinguersi coi loro ultimi lettori anagraficamente compatibili.
Molto più interessante e meno approfondita è l’altra causa di morte, quella – definiamola così – per eccesso di modernità.
Una metafora balzana ma seducente per tutti noi che scriviamo sui giornali col privilegio di poter dire “secondo me” è quella del club privato: nessuno aspira al pubblico da stadio, ma è ammaliante immaginare di avere un gruppo di lettori affezionati che, come in un consesso a metà tra il jazz club e la riunione carbonara, riflette sulle idee che faticosamente abbiamo cercato di diffondere attraverso il giornale. Per questo cerchiamo punti di vista non omologati, spesso stravaganti, sui fatti della vita: perché sappiamo che i lettori non sono tutti uguali e che se rompiamo le scatole a un potente o spettiniamo una versione di comodo o ancora suscitiamo una discussione urente (magari in famiglia, a cena, distogliendovi dall’ipnosi della tv), abbiamo realizzato il nostro engagement. Ma tutto questo cozza contro l’engagement ufficiale, quello misurato come in una sacra cerimonia, dal dio algoritmo (di cui abbiamo parlato più volte da queste parti, ma in particolare qui). Nei giornali che vogliono essere troppo nuovi le decisioni editoriali sono guidate da statistiche che, analizzando ciò che genera più traffico, decretano la morte dell’idea originale, del guizzo, della bracciata controcorrente. In un paradosso (di cui pagheremo prima o poi le conseguenze) gli algoritmi non riflettono solo le tendenze, ma addirittura le creano incrementando la popolarità di temi già popolari e determinando una polarizzazione dei lettori che non riflette gli equilibri reali. Per dirla con Russel Smith che in un articolo sulla rivista canadese The Walrus, ha raccontato come la sua attività di corsivista sui giornali canadesi è stata stroncata dopo vent’anni da questo meccanismo perverso, “se a nessuno viene mai spiegato che la musica elettronica o l’architettura postmoderna sono argomenti importanti, è molto difficile che qualcuno li tratti come tali”. La verità è una sola: il ruolo del giornale come arbitro si sta perdendo. Continua Smith: “Se i dati dicono che gli argomenti provinciali sono i più rilevanti, anche il giornale diventerà provinciale”. Insomma cercando di essere più grandi, si rischia di diventare più piccoli.
Il bello, o meglio il brutto, è che colpevolmente quasi nessuno nelle aziende editoriali italiane (e non) è mai stato colpito dall’idea che bisogna cambiare radicalmente il modo di lavorare, di scegliere le notizie, persino di reclutare giornalisti. Ma questo è un problema di conoscenza e di coraggio. E il coraggio viene dopo.  
Ne riparliamo presto, promesso.

Volare senza ali

I diari di viaggio sono una buona fonte di visite di questo blog: ogni giorno qualcuno arriva qui cercando informazioni su come andare a Capo Nord in moto, su vari itinerari americani o europei. Ho già scritto come la penso nei confronti di chi non coltiva la curiosità del viaggio, ma c’è un aspetto non secondario che questa estate post-pandemia (post?) pone alla nostra attenzione. Accanto all’industria del turismo c’è infatti una categoria molto colpita dal Covid-19, quella dei giornalisti che si occupano di viaggi. Leggevo su Internazionale che solitamente al New York Times “sono così tanti a scrivere nella sezione Travel che c’è uno che si occupa solo di viaggi economici”, poi ce n’è un altro scelto a rotazione che si sposta tutto l’anno senza interruzione. La redazione seleziona 52 posti in giro per il mondo e il prescelto li visita tutti nell’arco di 12 mesi. “Nel 2019 il giornalista selezionato era stato Sebastian Modak che in un anno ha preso 88 voli per un totali di 192.754 chilometri con 44 compagnie aeree e, ci ha tenuto a precisarlo, un solo volo perso. Ha anche percorso 10.974 chilometri in auto, fatto 48 viaggi in nave e 45 in treno. Viaggiando ha fatto amicizia con 92 esseri umani e 39 tra cani e gatti”. Ogni settimana ha raccontato senza mai saltare un appuntamento della rubrica.

Ora le cose sono cambiate e nel 2020 il New York Times non ha potuto deliziare i suoi lettori con simili reportage. Però si è inventata una rubrica che sta avendo molto successo: si chiama “Tripped up”, letteralmente inciampato, e dà la possibilità di raccontare esperienze di viaggio disastrose. Col passare dei mesi sulle pagine del quotidiano questo spazio è diventato anche più propositivo includendo consigli per vacanze alternative e per piccoli inconvenienti, dal volo annullato al ritardo della consegna di una camera d’hotel.

Ecco a che servono i giornali, quelli veri, a raccontare contro ogni destino avverso, a incarnare trasformazioni, a tracciare linee laddove c’è il nulla e a scardinare menti. Il vincolo della notizia non basta più, servono spunti per volare anche quando le ali sono bruciate, servono invenzioni. Proprio così, invenzioni.
Quando il destino ci chiude dentro una stanza, impariamo a colorare le mura nell’attesa che si riesca a progettare una nuova fuga.
Ma di fughe, quelle serie, parleremo presto.          

Perché scriviamo cazzate

Cercando di ragionare a colpo freddo sulla débâcle dell’informazione in occasione della bomba d’acqua su Palermo, con due o addirittura quattro morti inventati, bisogna innanzitutto mettere in chiaro un punto: questo non è un processo ai giornalisti, ma una riflessione che deve tener conto di cosa è oggi il mondo dei giornali e di cosa era prima. E va scacciata ogni forma di nostalgia che possa inquinare il giudizio di fronte a scenari non certo tranquillizzanti.

La domanda di partenza è: com’è possibile che si possa scrivere di due o quattro morti per un’alluvione, annegati in piena città, senza controllare la veridicità della notizia? E ancora: basta una testimonianza non verificata, generica e senza un solo appiglio (un nome proprio, una denuncia di scomparsa, un indizio corposo) per lanciarsi con tale tragica certezza nel racconto di un evento di cronaca così importante?

Purtroppo sì, oggi sì. Perché i giornali sono diventati, per colpa di editori dissennati e di una categoria di giornalisti che ha consentito tutto ciò, qualcosa di difficilissimo da gestire. La desertificazione delle redazioni, a parte l’ovvio vantaggio economico per l’azienda, porta un danno al lettore perché un prodotto fatto al risparmio non può essere spacciato per un’altra cosa.

Quello che una volta facevano quattro professionisti, oggi lo fa una persona sola: scrivere, correggere, scegliere una foto, impaginare, titolare, eccetera. E poi il tempo, fattore fondamentale per un mestiere che è ontologicamente fatto di fretta. Prima i giornali chiudevano a notte fonda, si mandava una prima edizione verso le 23 e poi si ribatteva (cioè si aggiornava, si correggeva, si raffinava). Ora alle 21 non c’è quasi più nessuno e non certo per pigrizia dei cronisti: i quotidiani sono manufatti sempre più freddi, preconfezionati per ottimizzare i ritmi di una produttività ragionieristica e, ai fini del valore dell’informazione, dissennata.

È chiaro che un giornalista oberato da mille cose che, come abbiamo visto, spesso non riguardano solo la notizia di cui si sta occupando, è più vulnerabile all’errore. Così come lo è un giornale che ha meno controlli di qualità perché svuotato di figure come archivisti, fotografi (sì, i fotografi ormai sono merce rara dato che esistono i telefonini, come se fare lo scatto giusto fosse un gioco da ragazzini), correttori di bozze, grafici, e che porta in edicola un prodotto chiuso alle 21,30-22, quindi irrimediabilmente vecchio in epoca di informazione liquida.

Ciliegina sulla torta, il peso dei social network che trasformano in cotto e mangiato qualunque “alimento” ancora crudo o addirittura non commestibile. La notizia-non-notizia sparata su Facebook dal primo smartphonista di passaggio ammorba un’opinione pubblica i cui freni inibitori sociali sono praticamente nulli, poiché non c’è peggior istinto di quello che azzera la capacità di critica. Dinanzi a una cazzata digitata su un social network, siamo nudi con la nostra formazione, con il nostro pedigree culturale, con la nostra dignità. E non sempre si riesce a tenere alta la guardia.

Ecco perché scriviamo cazzate. E dobbiamo interrogarci sempre su come rimediare e come resistere alla tentazione di mandare tutto e tutti a fare in culo cercando di toglierci di dosso responsabilità che invece sono antiche e drammaticamente attuali.

Caro lettore hai ragione

Il ritaglio di giornale è saltato fuori dal nulla, quasi che chiedesse un po’ di considerazione dopo 25 anni di oblio. Mi ha fatto tornare in mente una vecchia storia.
È il 15 settembre del 1992, è notte. Fumo l’ennesima sigaretta di una giornata di lavoro. Sono caposervizio delle Cronache Sicilia al Giornale di Sicilia. Di fronte a me è seduto Fabrizio Carrera, l’uomo delle interviste impossibili come lo chiamiamo tra amici e colleghi (che in quel periodo sono la stessa cosa), uno di cui un giorno vi racconterò alcune storie incredibili.
Come sempre, quando la redazione si svuota, cazzeggiamo pregustando l’ulteriore cazzeggio di una cena notturna e ci prendiamo il tempo per spigolare sulle cose della giornata. Abbiamo meno di trent’anni e come si dice facciamo il lavoro più bello del mondo. Viene fuori la prima pagina del Manifesto che brilla per un buco. Non c’è la notizia del giorno. Fabrizio sa come farmi partire l’embolo dell’indignazione: “Ma lo capisci? Questi non hanno l’agguato a Germanà in prima”.
Il commissario Rino Germanà, collaboratore di Borsellino, due giorni prima era sfuggito a un agguato di mafia a Mazara. Seppur ferito aveva risposto al fuoco e aveva messo in fuga i killer di Cosa nostra tra i quali c’era Leoluca Bagarella. Una storia con risvolti romanzeschi in un ambito di non secondaria importanza: si svolgeva in una Sicilia che aveva appena perso Falcone e Borsellino.
Ci incazziamo. Rimandiamo la cena di un’altra ora e scriviamo una lettera “da lettori”  al Manifesto. Diciamo che quella scelta non ci è piaciuta e che ci ha lasciato l’amara sensazione che solo la morte, nelle nostre lande, meriti la prima pagina. Insomma Rino Germanà è stato relegato a quattro colonne in cronaca solo perché è sopravvissuto.
Passano due settimane, il 30 settembre la svolta. Il manifesto pubblica a tutta pagina la nostra lettera. Il titolo è “Caro lettore hai ragione”. Di seguito una replica del vicedirettore Pierluigi Sullo ammette la colpa, ma poi si imbarca in un’argomentazione a dir poco fragile: “Il fatto che per riflesso condizionato il commissario reagisce da Rambo non ci è simpatico (sentimento ignobile, in questo caso, ma da confessare così, almeno, ci si capisce)”. Apriti cielo. Proteste dei sindacati di polizia, interrogazioni parlamentari e l’indomani paginate di giornali, come quella del Corriere della Sera che vedete sopra.
Questo, e altro di prezioso che però poco conta per voi, mi ha ricordato questo ritaglio. Con una morale che reputo sempiterna: il miglior modo di fare il giornalista è mettersi ogni giorno nei panni del lettore.

P.S.

Per scrivere un pezzo sul nostro giornale su tutta questa storia abbiamo dovuto implorare e attendere tre giorni.

Un paio di cose sul Giornale di Sicilia

giornale_di_siciliaDue, tre cose sul Giornale di Sicilia e sullo sciopero che da giorni sta tenendo lontano il quotidiano di Palermo dalle edicole.

Il Giornale di Sicilia come lo conosciamo adesso è figlio, anzi nipote di una serie di errori riconducibili in gran parte, ma non nella sua totalità, alle scelte della direzione: sempre la stessa da quasi trentacinque anni. A seconda dei punti di vista la longevità professionale del condirettore Giovanni Pepi può essere vista come elemento di stabilità o come tarlo di inadeguatezza: se da un lato non si può escludere che un uomo solo al comando per così tanto tempo conosca bene la macchina, dall’altro i risultati ci dicono che la sua guida non è stata sicura. E più di una volta la macchina è finita fuori strada.
Le scelte aziendali al Giornale di Sicilia sono sempre state ottriate, mai lontanamente concordate. Effetto di una direzione forte e, innegabilmente, di una redazione che poche volte ha conosciuto l’unità. Una redazione di gran livello professionale, ma di scarsa, scarsissima lungimiranza.
Prendete il web. Quando intorno al Duemila i vertici di via Lincoln si accorsero che esisteva una cosa chiamata internet, io e Daniele Billitteri eravamo gli unici a bazzicare in quel mondo già da tempo: ovviamente ci prendevano per perdigiorno (per non dire altro). Convinsi la direzione a darci una connessione e ci volle poco per vincere la diffidenza collettiva alimentata da un dirigente dell’epoca che in una riunione disse, testualmente: “Propongo di non scrivere la parola internet sui giornali perché è una cosa che nel giro di pochi mesi finisce”.
Finì come finì e spinsi l’editore non solo ad aprire un sito web, disegnato artigianalmente da Daniele, ma mi inventai anche un inserto settimanale dedicato a quel mondo misterioso.

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Buona musica, Maurilio caro

Maurilio PrestiaSe ti accorgi che stai scrivendo più di morti che di vivi ci sono due cose da fare. Congratularti con te stesso perché ancora sei di questa terra e brindare alla salute di quelli di cui ancora non hai scritto. Ecco, questa è una tipica frase che avrebbe scritto Maurilio Prestia che tutti celebrano oggi come organizzatore di concerti, ma che io ricorderò sempre come giornalista, come critico musicale.
Negli anni Ottanta eravamo giovani e ci muovevamo sulla scia dei critici di maggiore esperienza, Gigi Razete, Fabio Caronna, il fiammeggiante Pippo Ardini. Io e Maurilio scherzavamo sempre sul fatto che non ci incontravamo mai di giorno, del resto era la notte il nostro orticello. Erano tempi di musica a go-go, soprattutto per il jazz e il rock. In certe sere recensivamo anche due concerti in contemporanea – lui per il L’Ora, io per il Giornale di Sicilia – organizzandoci per tempo: ne seguivamo uno l’uno e a notte fonda davanti a birra e sigarette ci scambiavamo gli appunti. Un paio di volte facemmo un gioco ancora più perverso: siccome i concerti erano in location abbastanza vicine tra loro, ne seguimmo un tempo l’uno per poi scambiarci il posto durante l’intervallo.
Era uno spasso Maurilio. Era uno spasso lavorare con lui, che in realtà doveva essere un mio concorrente, ed era uno spasso lavorare a quei tempi con interlocutori come Arturo Grassi e Totò Rizzo, i due pazzi che credettero in uno come me, capellone, vestito di mille colori, chitarrista fallito e fissato col giornalismo.
Me la ricordo, la prima sera in cui mi mandarono a seguire un concerto. Era al Brass e c’era Maurilio, che non scriveva ma ascoltava. Io partorii trenta righe lunghe una notte, l’indomani mattina consegnai il pezzo a Totò che, perfidamente non mi disse nulla. Anzi mi disse: “Aspettiamo Arturo”. Passeggiai sotto la sede del giornale per quattro-cinque ore. Poi tornai alla carica.
“Bravo, 7 e mezzo”, mi disse Totò. Ma non pubblicarono il pezzo: in realtà si trattava di una prova e quel concerto l’aveva seguito l’allora titolare, Fabio Caronna (che io non avevo mai visto, quella sera, perché troppo preso da vergare appunti su appunti, manco avessi dovuto scrivere la biografia di Miles Davis).
Fui felice lo stesso. Quella sera me ne uscii galleggiando sulla mia nuvoletta di orgoglio: presto sarei stato un critico musicale vero! Avrei firmato sul Giornale di Sicilia! E mi avrebbero persino pagato (pochissimo, ma chi se ne fregava…)!
Alla prima cabina telefonica chiamai Maurilio e ce ne andammo a Mondello a cazzeggiare e a parlare di musica. E a impastare birra e sigarette con l’incoscienza felice di chi ha appena addentato i vent’anni.
Quanta musica c’era. E che silenzio che c’è oggi.
Buona musica, Maurilio caro.

Il meno bello della diretta

Diretta facebook

Facebook pullula di dirette web. Neanche il tempo di aggiornare la timeline che ti spunta una diretta sul tramonto di Monte Pensatè, incardinata tra una diretta su come si cucina la pasta con le sarde e un’altra su quello che si leggerà domani sul giornale. In quest’abbuffata di immagini sgranate, in questo groviglio di auricolari, in quest’orgia di byte senza padrone, c’è tutto il paradosso dei social e del loro pubblico distratto. Facebook non è più lo strumento per comunicare, ma il regista della comunicazione stessa che impone nuove strategie. Strategie che pochi hanno studiato (e magari capito), ma che tutti sposano ciecamente. Perché si deve fare e non farlo significherebbe rinunciare a una possibilità.
Le conseguenze sono due.

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Informazione gratuita? Cazzate

informazione gratuita

Dico la mia, a futura memoria, sull’editoria digitale. Ne parlo e ne scrivo da tempo: il futuro da almeno vent’anni è digital first, non perché ci sia una moda dinanzi alla quale soccombere, ma perché le rivoluzioni, quando non possono essere contrastate (il che accade con cadenza secolare), vanno studiate e possibilmente capite.
Il modello italiano attuale è: informazione gratuita digitale, cartacea a pagamento finché dura, e dita incrociate.
Sbagliato.
Il modello su cui insistere invece è: informazione digitale di qualità e fidelizzata con micro-pagamenti (a partire da qualcosa come cinque euro al mese) ricca di contenuti premium (esclusive, aggiornamenti costanti, guide interattive per capire e tutto quello che un bravo direttore sa tirare fuori), informazione cartacea di approfondimento e di riflessione, come ontologicamente la carta impone data la sua persistenza fisica.
Non ci sono sostegni pubblicitari al web per giustificare altre strategie.
Il pubblico qualificato (ergo il lettore attivo, non quello che ha sempre scroccato pagine altrui, magari leggendo solo i titoli) non è il popolo bue che crede ancora nell’informazione libera quindi gratuita. Quelle sono cazzate: chi si fiderebbe di uno che fa il commercialista senza pretendere un euro, di uno che fa il poliziotto aggratis, di un qualunque professionista che elargisce prestazioni in cambio di una pacca sulla spalla? Nessuna persona di buona creanza può immaginare un mondo in cui i servizi sono gratuiti, solo la dilagante superficialità da social network condita da una spruzzata di ignorante qualunquismo può sostenere la tesi che la vera informazione è quella che non viene da professionisti, ma dalla ggente: come affidarsi ai santoni anziché ai medici per curarsi da una polmonite.
Ecco perché il micro-finanziamento è l’unica svolta per un’informazione moderna, professionale, corretta. Perché concilia due esigenze cruciali: esigere una corretta informazione e contribuire a sostenere una corretta informazione. Che come ogni prodotto di questa terra ha un costo.
Il resto ve lo svelo secondo una classica regola di mercato: a pagamento.

Di figlio in padre

imageUn paio di settimane fa, Francesco Foresta mi confidò di aver trovato il giornalista a cui affidare Live Sicilia. “Vediamo se indovini chi è”, mi sfidò col suo sguardo furbetto. Io che sino a quel momento non sapevo niente di tutta la vicenda, trovai improvvisamente una sola certezza. E dissi subito: “Peppino”. Lui sorrise quasi orgoglioso di me: “Giusto”, sussurrò.
Nel passaggio di consegne tra Francesco e Giuseppe Sottile ci sarebbe tutta una vita da raccontare, anzi due. Perché, come spiega Francesco nell’editoriale di oggi, le loro vicende professionali sono talmente intense da rappresentare importanti capitoli del giornalismo degli ultimi decenni. Perché il mestiere e l’indole, nel loro caso, si fondono per creare cronisti che vivono come scrivono, che pensano come raccontano, che amano e odiano allo stesso identico modo con la penna e col cuore.
Di figlio in padre, quest’eredità che sale controcorrente dà finalmente un lieto fine intermedio in una storia di sofferenza. La forza di Francesco, pur piegato dalla malattia, offre a Peppino un’occasione unica per un maestro: ritrovare l’allievo e aiutarlo incondizionatamente.
“Pensiamo un titolo”, disse Francesco riprendendo una consuetudine che per vent’anni ci aveva visti fianco a fianco a imbastire prime pagine, a inventare nuovi modi di raccontare la cronaca, a leggere e correggere, a scrivere e riscrivere.  Lui alla tastiera e io a passeggiargli intorno. Lui calmo e io frenetico. Sempre così.
Alla fine il migliore era il suo. Sempre così.

Buon anno, pupetto. Auguri Peppino.