Perché scriviamo cazzate

Cercando di ragionare a colpo freddo sulla débâcle dell’informazione in occasione della bomba d’acqua su Palermo, con due o addirittura quattro morti inventati, bisogna innanzitutto mettere in chiaro un punto: questo non è un processo ai giornalisti, ma una riflessione che deve tener conto di cosa è oggi il mondo dei giornali e di cosa era prima. E va scacciata ogni forma di nostalgia che possa inquinare il giudizio di fronte a scenari non certo tranquillizzanti.

La domanda di partenza è: com’è possibile che si possa scrivere di due o quattro morti per un’alluvione, annegati in piena città, senza controllare la veridicità della notizia? E ancora: basta una testimonianza non verificata, generica e senza un solo appiglio (un nome proprio, una denuncia di scomparsa, un indizio corposo) per lanciarsi con tale tragica certezza nel racconto di un evento di cronaca così importante?

Purtroppo sì, oggi sì. Perché i giornali sono diventati, per colpa di editori dissennati e di una categoria di giornalisti che ha consentito tutto ciò, qualcosa di difficilissimo da gestire. La desertificazione delle redazioni, a parte l’ovvio vantaggio economico per l’azienda, porta un danno al lettore perché un prodotto fatto al risparmio non può essere spacciato per un’altra cosa.

Quello che una volta facevano quattro professionisti, oggi lo fa una persona sola: scrivere, correggere, scegliere una foto, impaginare, titolare, eccetera. E poi il tempo, fattore fondamentale per un mestiere che è ontologicamente fatto di fretta. Prima i giornali chiudevano a notte fonda, si mandava una prima edizione verso le 23 e poi si ribatteva (cioè si aggiornava, si correggeva, si raffinava). Ora alle 21 non c’è quasi più nessuno e non certo per pigrizia dei cronisti: i quotidiani sono manufatti sempre più freddi, preconfezionati per ottimizzare i ritmi di una produttività ragionieristica e, ai fini del valore dell’informazione, dissennata.

È chiaro che un giornalista oberato da mille cose che, come abbiamo visto, spesso non riguardano solo la notizia di cui si sta occupando, è più vulnerabile all’errore. Così come lo è un giornale che ha meno controlli di qualità perché svuotato di figure come archivisti, fotografi (sì, i fotografi ormai sono merce rara dato che esistono i telefonini, come se fare lo scatto giusto fosse un gioco da ragazzini), correttori di bozze, grafici, e che porta in edicola un prodotto chiuso alle 21,30-22, quindi irrimediabilmente vecchio in epoca di informazione liquida.

Ciliegina sulla torta, il peso dei social network che trasformano in cotto e mangiato qualunque “alimento” ancora crudo o addirittura non commestibile. La notizia-non-notizia sparata su Facebook dal primo smartphonista di passaggio ammorba un’opinione pubblica i cui freni inibitori sociali sono praticamente nulli, poiché non c’è peggior istinto di quello che azzera la capacità di critica. Dinanzi a una cazzata digitata su un social network, siamo nudi con la nostra formazione, con il nostro pedigree culturale, con la nostra dignità. E non sempre si riesce a tenere alta la guardia.

Ecco perché scriviamo cazzate. E dobbiamo interrogarci sempre su come rimediare e come resistere alla tentazione di mandare tutto e tutti a fare in culo cercando di toglierci di dosso responsabilità che invece sono antiche e drammaticamente attuali.

In morte di un meraviglioso signor nessuno

L’articolo pubblicato su Repubblica.

Ci sono situazioni che sembrano lontanissime eppure sono vicine, vicende che possono solo essere frutto di immaginazione e invece accadono. Ci sono tragedie che sono film, tanto è drammatica la teatralità che le avvolge, e invece sono reali, investono qualcuno che conosciamo o che abbiamo appena incrociato per strada. Giuseppe Liotta era un medico che curava i bambini e lo faceva con la passione di chi non confonde il lavoro con la routine. Infatti, sabato scorso, aveva deciso di andare in ospedale nonostante la natura gli avesse scatenato contro tutte le sue forze, quasi a voler mettere alla prova il suo eroismo. Ma Giuseppe Liotta non era un eroe. Era un medico, un medico che curava i bambini. E il suo ospedale non era a un tiro di schioppo, ma a Corleone. Così non ci ha pensato su manco mezza volta quando è salito sulla sua auto ed è partito verso ciò che per noi può essere solo frutto di immaginazione e invece accade. Hanno ritrovato il suo cadavere cinque giorni dopo a dieci chilometri dalla sua auto, sepolto dal fiume di fango che lo ha strappato alla sua straordinaria ordinarietà: la famiglia, il lavoro, il senso del dovere.
C’è qualcosa di medioevale nella congerie di acqua, terra, pietra e lamiere che punisce l’incolpevole, sacrificandolo per un merito e non per una colpa. Un imperscrutabile disegno divino per chi crede in un dio, un’atroce ingiustizia per tutti gli altri.
Giuseppe Liotta se ne va nel fiore degli anni come un fiore reciso ancor prima di sbocciare. E non è retorica, ma crudo realismo. Quanti altri Giuseppe Liotta ci sono nel nostro mondo di sopravvissuti? In un’Italia che ha abolito il lavoro chi è disposto a rischiare per fare semplicemente il proprio dovere? E chi è che lo fa senza sventolare bandiere o farsi bandiera egli stesso?
Giuseppe Liotta, il dottore Giuseppe Liotta, era il simbolo migliore di una forza silenziosa che dà il meglio di sé dietro le quinte, che olia gli ingranaggi di una solidarietà perduta, che aiuta per vocazione senza ricevuta di ritorno. Un signor nessuno che diventa ai nostri occhi un gigante quando improvvisamente non c’è più: perché eravamo distratti, perché ci occupiamo sempre delle stesse cose e delle stesse persone, spesso inutili se non perniciose, mentre trascuriamo il buono che non fa romanzo, il bello che non fa scena, l’utile che non fa audience.
Avvertire la mancanza di uno sconosciuto e soffrirne è il rimorso che ci meritiamo.

Un vaffanculo ci seppellirà

Beppe Grillo a Genova

Alluvione di Genova. Grillo va tra gli spalatori di fango e lo contestano perché ci va. Se non ci fosse andato lo avrebbero contestato perché non c’era. In ogni caso un politico, oggi, è contestabile qualunque cosa faccia e questo la dice lunga sul muro di qualunquismo che, come una grottesca barriera di autodifesa, circonda ogni capannello, ogni manipolo di lavoranti, ogni adunata organizzata di cittadini disorganizzati, ogni pulpito sociale, ogni punto di raccolta di menti attive. La contestazione fanculista, che è il cavallo di battaglia del Movimento 5 stelle, è in realtà l’arma brandita da qualsiasi non-politico insoddisfatto della politica che si è rifiutato di fare (e che quindi ha subito). Non esistono più le argomentazioni, i pallosissimi distinguo, le mozioni d’ordine, no. Esiste un vaffanculo generalizzato che non sente ragioni e che probabilmente non ne porterà una, una sola sulla soglia di un dialogo che sia (anche lontanamente) costruttivo.
Dopodiché alla democrazia malata non resterà che sperare nell’eutanasia.

Genova, si salvi chi può

Non mi sarei mai aspettato di leggere un titolo come quello che vedete sopra, che è l’equivalente di “si salvi chi può”. L’alluvione di Genova era stata, come tutte le altre, abbondantemente annunciata. Eppure la città è devastata e si contano le vittime.
Oltre al dolore c’è un senso di sbalordimento, di incredulità, nell’assistere a certe scene.
Ci sarà pure qualcosa che non funziona nella macchina della protezione civile, negli ingranaggi comunali, nella catena di decisioni che devono dare risultati, se una grande città del nord è devastata da un evento atmosferico previsto con una settimana d’anticipo.
Insomma se non riusciamo più a far fronte alle difficoltà che ci vengono telefonate con preavviso, di cui conosciamo tutto con giorni e giorni d’anticipo, dove pretendiamo di andare?

 

Le regole della natura e quelle della politica

Nonostante i distinguo che si appigliano in modo fallace a testimonianze di tecnici e scienziati, i danni degli eventi naturali possono essere previsti.
Molti amministratori e burocrati si stanno affrettando a precisare che precipitazioni come quelle di questi giorni in Sicilia sono difficili da arginare. Il loro ragionamento sottende un’idea di fatalismo: quando succede, succede.
Non dategli conto, non è così.
Qualunque geologo di buon senso, qualunque contadino di esperienza, qualunque montanaro genuino vi spiegherà – ognuno con ragioni convincenti – che la natura ha un sistema di vendetta che ha più a che fare con la matematica (se sottrai due tonnellate di terra devi aspettarti due tonnellate di ignoto) che con la casualità.
La tragedia del Messinese altro non ci insegna che devastare di abusivismo una zona ad alto rischio idrogeologico è un crimine grave come ignorare i pericolosi smottamenti che da anni in quell’area hanno messo a grave rischio la popolazione. Eppure ci sono enti, assessorati, funzionari, tecnici stipendiati perché il dramma non accadesse: mi piacerebbe conoscere i nomi dei responsabili e, possibilmente, gli anni di galera che dovranno scontare per la loro criminale negligenza.
Il sistema dell’equilibrio, dell’ultraprudente presunzione di colpevolezza, dell’arte di dividere il capello in otto a seconda della testa dal quale è stato strappato è roba vecchia, inadeguata a una realtà in cui il potere è completamente estraneo alle leggi, una realtà in cui l’unica responsabilità valida è quella di cui ci si spoglia.
La vergogna di Palermo, con tonnellate di immondizia che navigano nelle strade trasformate in fiumi, ha un contrappasso grottesco nei suoi amministratori comunali che, anziché chiedere scusa per il disastro ambientale, aumentano la tassa per il ritiro dei rifiuti.
Cerchiamo di capirci: questi signori non hanno la faccia di bronzo, non hanno proprio la faccia.
Il sindaco Diego Cammarata è uno di cui si parla solo per via delle indecenze di cui si è reso protagonista: la vicenda Ztl, il caso Amia, lo scandalo dello yacht, tanto per citare i più eclatanti. Se non fosse per le sue manchevolezze – “manchevolezze” è un termine frutto di un’autocensura ragionata – nessuno in Italia lo conoscerebbe. Nessuno saprebbe chi amministra da otto anni il quinto centro del Paese, nonostante l’infausto articolo di Panorama in cui nel luglio del 2006 si vaneggiava di Palermo come la città più cool d’Italia. Nessuno si chiederebbe, qui e altrove, chi sta nella stanza dei bottoni di un agglomerato urbano cruciale per il Mediterraneo, chi amministra quasi un milione di abitanti ignari di chi li amministra.
Dov’era ieri il sindaco di una città che affonda nel fango vero e metaforico (il primo pericoloso per la vita, l’altro per la dignità)? Si è sporcato le scarpe per andare nei luoghi della vergogna? Se sì, come ha deciso di rimediare? Ha revocato immediatamente l’aumento della tassa per l’immondizia che annega la città (il naufrago non paga per l’acqua del mare che lo uccide)? E se nulla di questo ha fatto, quando ritiene di andarsene e porre fine in modo dignitoso alla sua insopportabile presenza di amministratore assente?

Aggiornamento. Il Tar ha bocciato l’aumento della Tarsu deliberato nel 2006 dalla giunta comunale di Palermo. Insomma il nostro sindaco e i suoi accoliti si trovano in un pasticcio che potrebbe essere ancora peggio di quello delle Ztl.

Il video è di Giovanni Villino.