Facebook pullula di dirette web. Neanche il tempo di aggiornare la timeline che ti spunta una diretta sul tramonto di Monte Pensatè, incardinata tra una diretta su come si cucina la pasta con le sarde e un’altra su quello che si leggerà domani sul giornale. In quest’abbuffata di immagini sgranate, in questo groviglio di auricolari, in quest’orgia di byte senza padrone, c’è tutto il paradosso dei social e del loro pubblico distratto. Facebook non è più lo strumento per comunicare, ma il regista della comunicazione stessa che impone nuove strategie. Strategie che pochi hanno studiato (e magari capito), ma che tutti sposano ciecamente. Perché si deve fare e non farlo significherebbe rinunciare a una possibilità.
Le conseguenze sono due.
La prima. Con le dirette si è creata una nuova categoria professionale, quella dei reggitori di cellulare. Metà cameraman e metà giornalisti, sfornano un prodotto per il quale esiste solo un antidoto: la Xamamina. Un tempo esistevano i reggitori di microfono, usati prevalentemente coi politici. Oggi c’è quest’evoluzione antropologica: un mestiere legittimato non da una competenza acquisita, ma dal semplice possesso di uno smartphone.
Seconda conseguenza. La diretta, casalinga o organizzata, aziendale o solitaria, racconta spesso meno di quanto racconterebbe un suo più nobile surrogato, come una foto o come un articolo scritto con serenità, perché il mezzo straordinario – un telefono collegato a un filo collegato a un narratore spesso scollegato dal contesto – invade il contenuto.
Insomma, bisognerebbe essere tutti più coraggiosi, tutti noi che lavoriamo nel mondo dell’informazione: meno dirette e più messaggi diretti. Lo sappiamo che per raccontare non serve una bella penna o un super computer, ma ce lo siamo dimenticati. Lo sappiamo che ci vuole sana, artigianale curiosità. E non dobbiamo dimenticarlo.