Avvistatori di verità cercansi (e Bradlee è morto)

ben bradlee

La morte di Benjamin Bradlee, mitico direttore del Washington Post ai tempi dello scoop del Watergate, offre uno spunto di riflessione molto attuale, al di là della monumentale professionalità del giornalista scomparso.
Il coraggio di inseguire la verità, anzi le verità (Bradlee le indicava giustamente al plurale per mettere in guardia dalla verità singolare, quella rivelata) non è garantito da nessun contratto di lavoro. Molti giornali italiani, non tutti ovviamente, sono stati guidati negli ultimi trent’anni da professionisti del compromesso, slalomisti delle responsabilità, maestri di sopravvivenza in una giungla di codardie. Nel mio minuscolo ne ho conosciuto qualcuno e anche per questo ho scelto di cambiare strada, non perché fossi più coraggioso, ma perché le piccolezze del cerchiobottismo mi annoiano. I migliori professionisti che ho incontrato in questo mestiere sono quelli che la libertà ancor prima di pretenderla, l’hanno data: solo chi è libero, infatti, può assumersi la responsabilità di raccontare. E di divertirsi di conseguenza. Il resto – mestieranti improvvisati, cloni tecnologici di scribacchini, reucci del signorsì o semplici ignoranti dalle parentele giuste – sono comparse in un film che non sarà mai proiettato.
Bradlee insegnò che si poteva essere amici dei potenti e combatterli comunque, poiché non è mai il ruolo politico che si giudica ma il modo di interpretarlo. In un’Italia in cui la lotta al potere è diventata senza quartiere e senza ragioni – il potere in sé non è pernicioso, come non lo è il denaro pulito – un giornalismo illuminato, attento alle responsabilità singole (anche di chi le recensisce) sarebbe fonte di speranza.
Invece vige la regola dell’ammasso: spalare, mettere in pagina e non domandare. Restano in auge direttori che non conoscono la differenza tra un computer e una linotype (perché non sanno nulla né del primo né della seconda), che pensano ancora di dover istruire il lettore, che tra la parola ascoltata e quella riferita scelgono quella più comoda, che dormono serenamente mentre il giornale non è ancora andato in stampa, che non conoscono il nome dei loro cronisti, che non sanno chiedere aiuto a chi ne sa più di loro.
E allora come si inseguono le verità se non si ha nemmeno la voglia di avvistarle?

Banane

banana Constant

Ora allo stadio si lanciano banane a giocatori che se sono spiritosi se le mangiano lì stesso, altrimenti si incazzano e chiamano l’arbitro a sbrigarsela lui. Il problema è che i giornali sono costretti a fare titoli tipo “Lanciate due banane a Constant” dimenticando che il sottinteso del messaggio giornalistico è talmente sottinteso che il rischio del ridicolo è stratosferico. Perché magari sarebbe meglio titolare: “Provocazione razzista contro Constant” o al limite, se se ne ha il coraggio, “ultrà coglione priva il suo orifizio di una banana e la getta in campo”. Quel che manca è la capacità del salto logico, l’astrazione professionale che racconta fuori dagli schemi qualcosa di odioso e di altrettanto contagioso. Lanciare una banana in campo è una scemenza che chiunque può fare senza particolare abilità. Basta essere meno intelligenti di altri, meno aperti di altri, meno interessati al mondo degli altri, meno esperti della vita. Basta essere meno, insomma.
Siccome, a dispetto di alcune dottrine democratiche, non è assolutamente vero che siamo tutti uguali – lo ripeto e ci metto pure il maiuscolo, NON E’ VERO CHE SIAMO TUTTI UGUALI – sarebbe opportuno che si usassero mezzi eccezionali contro scemi eccezionali. E non parlo di provvedimenti legislativi, ma di raggruppamenti verbali, di controffensive concettuali.
Chi lancia le banane è un coglione, una finta scimmia che scimmiotta (e pure malissimo) le vere scimmie. Non ci vuole la forza pubblica per isolare questi minus habens, bastano i compagni di curva, basta un Genny meno carogna e meno fetente (magari con una semplice maglietta “Fruit of the loom”) che anziché minacciare Amsik intimidisca i fruttivendoli complici.
Perché, diciamolo chiaramente, il rischio grottesco è che in un futuro molto vicino, la banana venga classificata come arma impropria. E che i giornali arrivino a titolare: “O la buccia o la vita”.

Notizie come le prugne

corriereit

Da quando importanti testate, come il Corriere della Sera, hanno intuito che il web è una cosa diversa rispetto alla carta si verifica un imbarazzante accumulo di notiziole-scaccia-pensieri. Che sono quelle notizie non notizie confezionate a mo’ di notizie senza voler avere la pesantezza delle notizie: nella maggior parte dei casi fuffa, accattivante, ruffiana, spumeggiante fuffa.
Funziona così: una si fa un selfie in vasca da bagno, un’altra la emula e il povero redattore deve andare a caccia, su Instagram, di altre sceme esibizioniste da riunire in una gallery dal titolo “l’ultima moda del web, il sexy selfie”.
Come in natura nulla si crea e nulla si distrugge, nel web nulla tutto si rimpasta e si ricicla. Negli anni Settanta, i selfie spinti alimentavano rubriche ben note sui giornaletti porno, solo che allora si chiamava autoscatto e se qualcuno ti taggava, cioè ti dava pubblicamente un nome e cognome, non finivi su Corriere.it ma dritto alla Squadra buoncostume.
Oggi si gallerizza tutto nel nome del Dio Clic. Cadute, ascese, risate, pianti, peti, smorfie, nudi, incidenti, salvataggi, miracoli, fandonie. Tutto cambierà quando, chissà quando, qualcuno riuscirà a spiegare a questi poveri giornalisti accatastanti che le notiziole-scaccia-pensieri sono come le prugne. Una o due vanno bene. Alla terza qualcosa cambia.

Fermate le rotative

il piccolo

Grazie a Giuseppe Giglio.

Al cimitero non c’era anima viva

Ieri alcuni amici (e colleghi) mi interrogavano sulle bestialità che nella mia vita di giornalista mi è capitato di leggere. Nell’imbarazzo della scelta, ho comunque tirato dai cassetti della mia testa confusa cinque esempi che, a mio modesto parere, non possono rimanere patrimonio di pochi. Ve li propongo senza voler fare alcuna classifica, ma con l’unico obiettivo di consegnarli alla memoria collettiva.

 “Morti perché la pensavano alla stessa maniera”. Attacco di un pezzo su uno scontro frontale tra auto in provincia di Trapani.

 “Al cimitero mancano gli spazi vitali”. Invettiva di un corrispondente di Enna sul sovraffollamento del cimitero cittadino.

 “Al cimitero non c’era anima viva”. Variante dello stesso corrispondente sul medesimo argomento: una sua campagna personale.

 “Quando si dice gioventù bruciata”. Attacco di un pezzo su un incidente stradale in provincia di Agrigento in cui erano morti carbonizzati tre ragazzi.

 “Per fare un diamante ci vuole una salma”. Attacco di un pezzo su un tizio che ha usato le ceneri del cadavere del figlio per farsi un anello.

Se gli inquisiti gridano al complotto

Un estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.

“Rigore è quando arbitro fischia”. La frase più celebre di Vujadin Boškov è utile per capire l’ultima uscita del presidente dell’Ars Giovanni Ardizzone, che ha denunciato un drammatico accanimento mediatico contro il parlamento siciliano. Vi chiederete: che c’entra il calcio con l’Assemblea regionale? C’entra. Perché nell’agone politico come in uno stadio contano la visione di gioco, la correttezza, e il rapporto col pubblico. Ma procediamo per gradi. Continua a leggere Se gli inquisiti gridano al complotto

Se il potere si fa pubblicità a spese nostre

Un estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.

Si chiama pubblicità istituzionale ed è quella forma di pubblicità in cui l’istituzione parla di se stessa coi soldi degli altri. La Regione, nel disegno di legge sugli aiuti all’editoria che si discute in questi giorni a Sala d’Ercole, prevede per questo tipo di pubblicità un antipasto di duecentomila euro entro fine anno, nulla rispetto alla tavola imbandita con quindici milioni di fondi europei destinati, in vario modo e a vario titolo, a giornali, tv, periodici e testate online isolani per il 2014.
Certo, le cifre fanno impressione. Ma per una volta mettiamole da parte e concentriamoci su un aspetto considerato, spesso e a torto, secondario in quest’ambito. Non è infatti della liceità dell’aiutino alla testata amica o della furberia del requisito magico che fa scattare il rimborso a un giornale senza lettori, che vogliamo discutere. No, qui cerchiamo di capire perché un ente, tipo la Regione, deve pagare per farsi pubblicità. Continua a leggere Se il potere si fa pubblicità a spese nostre

Quanti miliardi?

miliardiGrazie a Giuseppe Giglio.

Da un miliardario all’altro

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Quella voce lì la conosco, è di un povero ragazzo frustrato che deve dire che ha sentito una cosa che non ha sentito per 10 euro a pezzo. È uno sfruttato, si tratta di apprendisti giornalisti.

L’attacco di Beppe Grillo al giornalista Vasco Pirri è la cartina al tornasole della difficoltà di un comico che si è fatto leader di un movimento politico.
Chi conosce Vasco e le sue scelte professionali difficili, nel segno di un’onestà che è intellettuale e oggettiva, sa che le parole di Grillo sono ingiuste. Chi non lo conosce non può che ritenere insensato l’attacco di un neo-leader di partito nei confronti di un professionista che per sbarcare il lunario deve macinare articoli su articoli, consumare suole delle scarpe, rompersi le palle dalla mattina alla sera con surrogati di notizie e veline insopportabili.
Ora quali sono i concetti che Grillo vuole introdurre in un’Italia sciagurata che ormai pende dalle sue labbra? Che se uno guadagna 10 euro a pezzo è un reietto mentre se ne guadagna 1.000 è un genio? Che se uno ha la sciagura di essere sfruttato (non è il caso di Vasco Pirri, naturalmente) diventa automaticamente un lavoratore di serie B? Che l’ordine dei giornalisti deve rivolgersi al M5S per far transitare i giornalisti dal girone di apprendisti a quello di professionisti? Che un precario non è attendibile per questioni genetiche? Che se uno non ha i milioni di Grillo non merita stima?
Un Paese che dipende dagli umori di uno come Beppe Grillo – al quale, lo ripeto e lo ripeterò sino allo sfinimento, ho dato fiducia alle elezioni – è un paese che deve imparare a fare autocritica, come il guru improvvisato al quale ha affidato il suo destino. Io provo a farla qui dicendo che non mi piace un movimento che non distingue i toni da campagna elettorale dalla razionalità delle esigenze istituzionali. Un movimento che non riesce a conciliare onestà e buona volontà con competenza e buon senso è la ruota sgonfia di un’automobile che voleva essere una Ferrari e che invece è un’utilitaria che non si stacca dal parcheggio. Quindi, fatta un’eccezione per i grillini di Sicilia che alla Regione hanno imboccato una via precisa senza i sofismi e gli svarioni dei colleghi che operano nella Capitale, è bene dar voce al timore maggiore: non vorrei che in Italia la follia dello strapotere passasse da un miliardario a un altro.

Ma quale male incurabile?

In questi giorni, leggendo gli articoli sulla morte di Pietro Mennea, ho trovato troppo spesso la frase “male incurabile”. Accade sempre così, da anni: per un inutile ritegno, si scrive una cosa falsa al posto di una cosa oggettiva. Perché non è vero che il cancro è un male incurabile, lo testimoniano nel mondo milioni di ex ammalati, schiere di medici, eserciti di volontari, squadre di ricercatori (ne abbiamo già parlato).
Per farla breve, scrivere “male incurabile” invece di scrivere cancro o tumore è sbagliato dal punto di vista logico ed è oltraggioso per chi da quel male è guarito. Ed è anche molto stupido. Ve lo dice il figlio di un oncologo.