Non cogito ergo sum

La bufala dell’ “anch’io sto disattivando” riferita a Facebook è una preziosa occasione per fare il punto sul livello allarmante (e, diciamolo, indecente di credulità a buon mercato) e su quella che un gruppo di psicologi inglesi ha chiamato sugrophobia, ovvero il timore ossessivo di essere raggirati.

Ci sono argomenti a buon mercato per ridere di chi crede ancora a queste scemenze  – e ci sono purtroppo fior di professionisti, di persone non incolte, di miei amici tra loro – il più realistico e grave è quello legato al “tanto non mi costa niente” oppure al “per sicurezza condivido”. Che è la certificazione di una caduta degli anticorpi contro l’illogico. Come se le cazzate fossero vento innocuo e noi tutti fossimo bandiere che garriscono al primo soffio o, a seconda dei casi, al primo peto. No, noi non siamo vele, drappi esposti passivamente alle correnti, noi siamo quelli che le governano, le correnti. Siamo noi che scegliamo se veleggiare o opporci, se accodarci o deviare. Neanche il copia-incolla proposto con umiliante semplicità (“tieni il dito ovunque in questo post…”) suscita in queste anime candide quel minimo di risveglio intellettuale che dovrebbe fare di noi creature senzienti.
Perché? Perché non leggiamo, non leggiamo nulla. La maggior parte di questi spanditori di spam non legge nemmeno ciò che condivide: ed è un dramma dato che si tratta, ripeto, in gran parte di gente che non sta ai margini del mondo e che ogni giorno col suo lavoro e la sua opera contribuisce alla costruzione di ciò che ci circonda, alimenta, rende migliori.
Ciò mi allarma moltissimo. Mi allarma soprattutto l’orgoglio con cui ci sono persone che potrebbero scegliere di essere consapevoli e non lo fanno. Persone che scelgono la distrazione, la superficialità, la grettezza (non tutte insieme magari) e non se ne pentono.
Io me ne vergognerei, ma ho vergogna ad averlo scritto quindi fate conto che non lo avete letto.

L’altro tema è quello della sugrophobia di cui, immagino, queste persone poco o nulla sanno. E si capisce benissimo poiché esse sono la dimostrazione di un’inversione di trend che scompagina i piani degli psicologi. Dai negazionismi al Trumpismo, dai no vax agli inseguitori del chip sottopelle, c’è sempre stata la domanda strisciante alla base di ogni dubbio senza dubbi: “Non mi farò mica fregare, io?”.
L’illusione di essere più furbi degli altri e la certezza che anche dinanzi alla prova più schiacciante “a me non la si fa”, oggi con l’“anch’io sto disattivando” franano senza timore nella valle del qualunquismo orgoglioso.
Non ho un’idea e per giunta ne vado fiero. Mi dà noia impegnarmi a vagliare un’informazione anche se è alla portata di tutti. Nel dubbio abbocco. E, quel che è peggio, non me ne frega niente se faccio la figura del coglione. È il trionfo di un pericoloso sentimento, il checazzomenefreghismo.
Non cogito ergo sum.      

Perché scriviamo cazzate

Cercando di ragionare a colpo freddo sulla débâcle dell’informazione in occasione della bomba d’acqua su Palermo, con due o addirittura quattro morti inventati, bisogna innanzitutto mettere in chiaro un punto: questo non è un processo ai giornalisti, ma una riflessione che deve tener conto di cosa è oggi il mondo dei giornali e di cosa era prima. E va scacciata ogni forma di nostalgia che possa inquinare il giudizio di fronte a scenari non certo tranquillizzanti.

La domanda di partenza è: com’è possibile che si possa scrivere di due o quattro morti per un’alluvione, annegati in piena città, senza controllare la veridicità della notizia? E ancora: basta una testimonianza non verificata, generica e senza un solo appiglio (un nome proprio, una denuncia di scomparsa, un indizio corposo) per lanciarsi con tale tragica certezza nel racconto di un evento di cronaca così importante?

Purtroppo sì, oggi sì. Perché i giornali sono diventati, per colpa di editori dissennati e di una categoria di giornalisti che ha consentito tutto ciò, qualcosa di difficilissimo da gestire. La desertificazione delle redazioni, a parte l’ovvio vantaggio economico per l’azienda, porta un danno al lettore perché un prodotto fatto al risparmio non può essere spacciato per un’altra cosa.

Quello che una volta facevano quattro professionisti, oggi lo fa una persona sola: scrivere, correggere, scegliere una foto, impaginare, titolare, eccetera. E poi il tempo, fattore fondamentale per un mestiere che è ontologicamente fatto di fretta. Prima i giornali chiudevano a notte fonda, si mandava una prima edizione verso le 23 e poi si ribatteva (cioè si aggiornava, si correggeva, si raffinava). Ora alle 21 non c’è quasi più nessuno e non certo per pigrizia dei cronisti: i quotidiani sono manufatti sempre più freddi, preconfezionati per ottimizzare i ritmi di una produttività ragionieristica e, ai fini del valore dell’informazione, dissennata.

È chiaro che un giornalista oberato da mille cose che, come abbiamo visto, spesso non riguardano solo la notizia di cui si sta occupando, è più vulnerabile all’errore. Così come lo è un giornale che ha meno controlli di qualità perché svuotato di figure come archivisti, fotografi (sì, i fotografi ormai sono merce rara dato che esistono i telefonini, come se fare lo scatto giusto fosse un gioco da ragazzini), correttori di bozze, grafici, e che porta in edicola un prodotto chiuso alle 21,30-22, quindi irrimediabilmente vecchio in epoca di informazione liquida.

Ciliegina sulla torta, il peso dei social network che trasformano in cotto e mangiato qualunque “alimento” ancora crudo o addirittura non commestibile. La notizia-non-notizia sparata su Facebook dal primo smartphonista di passaggio ammorba un’opinione pubblica i cui freni inibitori sociali sono praticamente nulli, poiché non c’è peggior istinto di quello che azzera la capacità di critica. Dinanzi a una cazzata digitata su un social network, siamo nudi con la nostra formazione, con il nostro pedigree culturale, con la nostra dignità. E non sempre si riesce a tenere alta la guardia.

Ecco perché scriviamo cazzate. E dobbiamo interrogarci sempre su come rimediare e come resistere alla tentazione di mandare tutto e tutti a fare in culo cercando di toglierci di dosso responsabilità che invece sono antiche e drammaticamente attuali.

Nella spirale delle minchiate

C’è un elemento di grande equivocità che annebbia il dibattito online, soprattutto in questi tempi di confusione organizzata. Tutto ruota intorno al concetto di libertà.
Libertà di dissenso, libertà di critica, libertà di espressione in generale.
Cerco di essere chiaro con due esempi.
Se io dico la mia su un tema, non riscuoto consensi e magari vengo sommerso dalle critiche, non devo incazzarmi, anche se la tentazione è forte. Il dibattito consiste nella stereofonia delle opinioni: canale destro, canale sinistro.
Se invece io affermo deliberatamente cose non vere, se mi inerpico su tesi oggettivamente improponibili, se affermo il falso è ovvio che la critica nei miei confronti sarà secca, feroce. Potrò incazzarmi sì, ma dovrò farmene una ragione.
Ecco che la linea di confine tra libertà di opinione e libertà di sparare minchiate appare netta. Il debunking come arma di disarmo può essere d’aiuto, ma ci sono due categorie nei confronti delle quali ogni antidoto è inutile: gli ignoranti orgogliosi di esserlo e gli imbroglioni. I primi posso essere schivati con relativa facilità, i secondi vanno disinnescati perché spesso hanno una carica di aggressività che deriva da una certa propensione per la violazione della legge.
Gran parte del tempo perduto su social e dintorni è colpa di costoro. Se provate a criticare uno che scrive che la terra è quadrata solo perché nel suo curriculum vitae ha la voce “responsabile vendite degli angoli, acerrimo nemico delle circonferenze”, non avrete mai possibilità di vittoria perché il suo mondo, angusto, è quello con gli spigoli. Non per nulla i grandi esperti mondiali di debunking stanno alzando bandiera bianca, perché nella debolezza della stoltezza c’è un tremendo punto di forza. La sordità alla voce della ragione.

La verità prima di tutto

facceCi ho pensato su. Ero tentato di lasciar perdere, ma poi mi sono detto: perché buttare alle ortiche la mia (seppur modesta) esperienza di trent’anni e passa di professione? Quindi ho deciso: da oggi cercherò di difendere le notizie vere con ogni mezzo a mia disposizione, web, carta, radio. Ricorrerò al classico fact checking, vi chiederò di collaborare inviandomi le vostre segnalazioni via mail, e opererò sul campo dei social per identificare con nomi e cognomi i portatori di notizie false. Diciamo che è una sorta di campagna anti-contraffazione applicata alle notizie. Perché se uno vende una borsa Gucci falsa può essere denunciato e chi spaccia bufale per verità se la deve passare liscia? Anche perché, alla luce di quello che sta accadendo nel mondo (Brexit, Trump, situazione politica italiana) i danni delle scempiaggini propalate nel web sono maggiori di quelli causati da una cinta dal marchio falsificato.
Quindi non guarderò in faccia nessuno, non mi interessano le fazioni politiche: la verità è un caleidoscopio di informazioni ed è troppo preziosa perché qualcuno ci metta in mezzo una patacca. #laveritaprimaditutto

La foto impazza sul web

Bufale web

La foto impazza sul web. Quante volte avete letto questa frase? Molte. E quante volte invece avete pensato alla sua contraddittorietà? Dare una (pseudo) notizia della circolazione di una (pseudo) notizia sembra essere diventata la caratteristica fondamentale dell’informazione moderna. Il fatto poi, che “la foto che impazza sul web” sia generalmente una bufala, rende l’idea di quanto i consumi di notizie siano cambiati grazie alla rete. La sovrabbondanza di fatti, l’amplificazione dei media con conseguente perdita di controllo delle fonti, ci hanno reso pericolosamente onnivori di fronte alla cronaca. Consumiamo politica e gossip come se fossero la stessa cosa, divoriamo scoop e cazzate come se avessero lo stesso sapore, mescoliamo finzione e realtà come se il photoshop fosse la nostra bibbia.
Il vero problema dell’informazione del giorno d’oggi è che ha perso l’appiglio della verosimiglianza, scimmiottando il peggio di internet e dimenticando il pensiero cardine del giornalismo: una minchiata non può diventare notizia neanche sotto tortura.
Un tempo una foto malamente ritoccata e palesemente falsa finiva nel cestino, oggi “impazza sul web”. Probabilmente domani ci convinceranno che è bello nutrirsi di rifiuti.

Scherzi e notizie

Da tempo disquisiamo qui e altrove del peso e del ruolo di Twitter sulla gestione delle notizie. Ieri si è verificato il tipico cortocircuito tra verità e finzione, o peggio tra il sentito dire e il dire sentitamente. In breve, Vanity Fair ha scambiato lucciole per lanterne imbastendo un articolo su quello che in realtà era uno scherzo via Twitter di Gerry Scotti.
Il web, che è regno di superficialità ma anche di grandi approfondimenti, nulla perdona e nulla regala. Aggravante: sulla carta stampata le cazzate si dimenticano prima che su internet, perché è vero che scripta manet ma è anche vero che dipende dal supporto al quale sono affidati gli scritti. La carta, un tempo considerata il più sicuro custode delle memorie, cede il passo all’impalpabile testo online. Dove nulla si distrugge persino se poco si crea.
Dei giornali nulla rimarrà, ed è ormai questione di anni. Del web ci sara sempre una cache da rintracciare, copiare, diffondere.

Qualcuno mi avvisi

Quasi un anno fa mi avevano fatto morire in circostanze più equivoche che misteriose. Due giorni fa mi hanno arrestato per droga. Oggi mi hanno scarcerato.

Tutto questo senza che ne sapessi niente.