Il gene “natura selvaggia”

Ho finito di leggere “Everest solo, orizzonti di ghiaccio”, il libro in cui Reinhold Messner racconta la sua ascensione in solitaria della montagna più alta della terra (l’impresa è del 1980 e il libro è datato, nonostante le molte ristampe e le edizioni aggiornate). Ho sempre subito il fascino dell’estremo, non lo nascondo, nonostante non sia mai stato un campione di coraggio. Sono uno che sogna più a occhi aperti che durante il sonno e credo che in molti di noi ci sia un gene “natura selvaggia”: una specie di interruttore che, d’improvviso, accende desideri e stila nuovi elenchi di priorità. Mi è accaduto, con avventure alla portata di molti, quando ho scelto di camminare per oltre 830 chilometri con uno zaino in spalla attraverso montagne e fiumi o quando ho inforcato una moto per raggiungere Capo Nord. Ma la stessa emozione l’ho provata, quando arrampicavo, scalando le vie della montagna di fronte casa mia o quando mi sono buttato giù da un fuoripista al limite del ribaltamento sulle Alpi francesi. Sono tutte cose che si possono fare in relativa sicurezza, se si accetta un concetto fondamentale della vita, quello della preparazione. Un concetto purtroppo desueto, e ce ne accorgiamo tutti i giorni scorrendo l’agenda politica, guardandoci intorno al lavoro o semplicemente leggendo un giornale.

Prepararsi per qualcosa significa innanzitutto prepararsi alla sconfitta e in tal modo cercare di schermarsi dalle ferite della delusione. Non sono un esperto di vittorie, però sono un fortunato perché ho conosciuto la paura, ho constatato il miracolo, ho subìto la sconfitta, ho gioito per la fatica e pianto per un traguardo tagliato. Da buon fatalista credo che ogni passo sia una scommessa, ma che prima del passo la gamba debba essere allenata.

Mi ha sempre irritato la presunzione dell’incoscienza perché la ritengo pericolosa per la sua forza di contagio. Avevo un amico, ultraottentenne, che aveva girato il mondo, scalando, pedalando, immergendosi. Usava la stessa prudenza nei fondali del mare del Sudan come sulla collina che stava accanto casa sua, perché sapeva che non è nella geografia che si annida il rischio, ma dentro di noi, nella nostra assuefazione al pericolo. Quando capì che il tempo a sua disposizione stava finendo, lui si ritirò in silenzio e da solo, come i vecchi capi indiani che vanno a morire da soli. Non accettava più di raccontare i suoi ricordi, le sue storie: pensava di essere guardato come una specie di fenomeno di baraccone. Aveva capito che la verità è semplice e senza alibi, come scrive Messner: “Più si arriva in alto, più noi stessi diventiamo un problema”.

Volare senza ali

I diari di viaggio sono una buona fonte di visite di questo blog: ogni giorno qualcuno arriva qui cercando informazioni su come andare a Capo Nord in moto, su vari itinerari americani o europei. Ho già scritto come la penso nei confronti di chi non coltiva la curiosità del viaggio, ma c’è un aspetto non secondario che questa estate post-pandemia (post?) pone alla nostra attenzione. Accanto all’industria del turismo c’è infatti una categoria molto colpita dal Covid-19, quella dei giornalisti che si occupano di viaggi. Leggevo su Internazionale che solitamente al New York Times “sono così tanti a scrivere nella sezione Travel che c’è uno che si occupa solo di viaggi economici”, poi ce n’è un altro scelto a rotazione che si sposta tutto l’anno senza interruzione. La redazione seleziona 52 posti in giro per il mondo e il prescelto li visita tutti nell’arco di 12 mesi. “Nel 2019 il giornalista selezionato era stato Sebastian Modak che in un anno ha preso 88 voli per un totali di 192.754 chilometri con 44 compagnie aeree e, ci ha tenuto a precisarlo, un solo volo perso. Ha anche percorso 10.974 chilometri in auto, fatto 48 viaggi in nave e 45 in treno. Viaggiando ha fatto amicizia con 92 esseri umani e 39 tra cani e gatti”. Ogni settimana ha raccontato senza mai saltare un appuntamento della rubrica.

Ora le cose sono cambiate e nel 2020 il New York Times non ha potuto deliziare i suoi lettori con simili reportage. Però si è inventata una rubrica che sta avendo molto successo: si chiama “Tripped up”, letteralmente inciampato, e dà la possibilità di raccontare esperienze di viaggio disastrose. Col passare dei mesi sulle pagine del quotidiano questo spazio è diventato anche più propositivo includendo consigli per vacanze alternative e per piccoli inconvenienti, dal volo annullato al ritardo della consegna di una camera d’hotel.

Ecco a che servono i giornali, quelli veri, a raccontare contro ogni destino avverso, a incarnare trasformazioni, a tracciare linee laddove c’è il nulla e a scardinare menti. Il vincolo della notizia non basta più, servono spunti per volare anche quando le ali sono bruciate, servono invenzioni. Proprio così, invenzioni.
Quando il destino ci chiude dentro una stanza, impariamo a colorare le mura nell’attesa che si riesca a progettare una nuova fuga.
Ma di fughe, quelle serie, parleremo presto.          

Chi non viaggia…

Gli anni passati, in questo periodo dell’anno, mettevo a punto le ultime strategie – tra allenamenti e diari di bordo – per prepararmi al viaggio dell’estate. Vista a colpo freddo c’era più scaramanzia che lungimiranza, però era bellissimo illudersi che una pianificazione scrupolosa avrebbe tenuto a distanza di sicurezza gli effetti indesiderati di una vacanza non proprio ordinaria.

Credo che i viaggi siano una cartina di tornasole della nostra indole.

Non conosco persone interessanti che non viaggiano per scelta. Chi sceglie di rinunciare deliberatamente al godimento di una esplorazione del mondo (che sia un paesino a pochi chilometri da casa o la cima di una montagna dove ha perso le scarpe il Signore, poco importa) è solitamente una persona che pecca di curiosità: magari mangia poco o male, magari si rifugia sempre nel dispendioso 5 stelle extralusso a tiro di schioppo (per cui spende in una settimana l’equivalente di un mese in giro per due continenti), magari non trova il tempo per leggere manco un libro all’anno, magari non ha problemi di soldi ma pensa che è sempre meglio non spenderli in qualcosa che in fondo è solo uno spostamento da un luogo all’altro.

Ecco, il viaggio come mero spostamento, come transumanza di affetti, come status simbol (figuriamoci!), come sfogo obbligato a una pigrizia che è innanzitutto mentale dovrebbe essere riportato in un documento: “Viaggia solo se costretto”, allo stesso modo di “non ha votato”. Una scelta legittima che dà però l’opportunità agli altri di avere un’opinione legittima.

Fottitene, adesso guido io

L’ho già scritto: ci sono viaggi che non si progettano, ma ti chiamano. Sono idee che vengono fuori nel bel mezzo di un inutile pomeriggio invernale, o che esplodono ascoltando i racconti di qualcuno che conosci appena, o ancora che germogliano, senza fretta, lungo i viali di un’esistenza.

A un viaggio chiediamo sempre qualcosa: uno schiaffo, una coccola, un sussurro, un lieto fine, una sorpresa. Chiediamo di farci spegnere il cervello o di accendere i sensi. Ci sono molti modi di ritrovarsi senza essersi mai persi: viaggiare è quello più entusiasmante e per certi versi anche il più pericoloso.

Quest’estate farò il Cammino del Nord, 835 chilometri a piedi con lo zaino in spalla da Irùn a Compostela, ma non lo farò sposando l’ortodossia religiosa che anima molti pellegrini. Lo farò con me stesso, immagino serenamente, scommettendo un euro sul mio senso del limite e sperando di non perdere la monetina. Potrei dirvi dell’allenamento che, nonostante quel che sta scritto su molte guide, è fondamentale per saper usare insieme gambe e testa (accoppiata complicatissima). O di uno zaino dove devi stipare al massimo otto chili di vita per i 35 giorni che seguiranno. O ancora dell’ago e filo che devi avere il coraggio di usare per eliminare le vesciche sotto i piedi.    

E invece vi dico cosa può passare per la testa di uno che cammina sotto il sole, magari in salita, per cinque, sei, sette ore al giorno.

Ci sono due tipi di persone, quelli che amano raccontarsi una storia e quelli che si raccontano storie. I primi differiscono dai secondi per un dettaglio che riguarda l’autostima: godono di quello che fanno, anche quando nuotano controcorrente o quando non hanno il minimo consenso garantito. I primi viaggiano liberi, i secondi non sono liberi neanche quando vanno al cesso. Se vi è mai capitato di ribellarvi a voi stessi, capite di cosa sto parlando. Nel mio piccolo ho sempre mantenuto la democraticissima anarchia di alzarmi una mattina, dire “questo non sono io” e agire di conseguenza. Senza bizantinismi, ma col buon senso dello scriteriato consapevole. Risultati non garantiti, of course.

Un viaggio, estremo o meno (ho una pericolosa propensione…), è un modo delicato di afferrare la nostra narrazione per i capelli e dirle in un orecchio: fottitene del mondo, adesso guido io. Per poi buttarsi a capofitto nella prima trazzera che ti porti lontana dal ruolo che ti sei costruito, dall’immagine che hai difeso, dalle belve del circo di cui tu dovresti essere domatore.

Una scommessa.

Se la accetti corri il rischio di valorizzare la differenza tra chi si professa e chi è, tra chi vive e chi vivacchia, tra chi ammira la luna e chi si ferma al dito (che potrebbe utilizzare comunque meglio). Il mondo è pieno di pigri che, credendosi potenti o furbi, accettano di farsi scrivere la storia da altri, che a loro volta si sentono potenti o furbi. La storia scritta per procura.

Mettiamola così, il viaggio che ti chiama è un buon modo per allontanarsi dai ghostwriter delle emozioni e un pessimo modo di seminare consensi alla moda. Uscirne sano e salvo è un dettaglio.

Di ritorno da Berlino (e vi racconto…)

Di ritorno da Berlino – tre giorni di full immersion nella storia e nell’umido continentale – la sensazione che mi resta è quella di una serena austerità. Lo dico subito: Berlino è una città che va visitata, una grande capitale europea e soprattutto un fondamentale crocevia storico. Se volete indagare le ragioni di una follia ideologica, se volete lasciarvi incantare dalla sovrapposizione tra presente e passato, se cercate un modello di civiltà moderna, Berlino è la vostra meta. Qui, anzi lì, i tedeschi hanno esposto il più moderno e plausibile concetto di pentimento collettivo che consiste non nel simbolismo piagnone di cui noi italiani siamo campioni mondiali, non nella pur umanissima ricerca di scorciatoie, ma nel sistematico e ultra-preciso resoconto storico di ciò che è stato e non sarà più.

Per dire, hanno un museo della Stasi (che pare gestito in chiave lombrosiana da eredi di quell’organizzazione) in cui con pignoleria si ripropongono i nomi e le immagini dei delatori, i metodi di prevaricazione, le imbarazzanti disparità a cui venivano sottoposti i cittadini della DDR (da un lato gli allineati, dall’altro i disgraziati). Ve l’immaginate se noi imbastissimo un museo sulla mafia? Apriti cielo, ma a Berlino non hanno i professionisti dell’anti-antidemocrazia quindi è tutto meno complicato.
Anche il muro, il famoso muro, pur sbriciolato in milioni di gadget da posare sulla scrivania o attaccare al frigo, è uno spunto per riflettere sul senso del tempo di una nazione che non si sogna di cancellare il passato, ma che ha un impegno inderogabile col futuro. I segni di quel manufatto imbarazzante sono ostentati sulla linea manco tanto immaginaria che taglia la città – e dove non c’è il cemento originario (poco, ormai) c’è una traccia indelebile sull’asfalto – ma l’eleganza con cui questa cicatrice è esibita ha del sovrannaturale per noi italiani (che sulle cicatrici abbiamo costruito totem di vetustà). Questi berlinesi non nascondono nulla perché hanno scelto la via più pratica per un riscatto storico e sociale: il mondo continua a girare e il modo peggiore per chiedere scusa è fermarsi, meglio rimboccarsi le maniche e guardare avanti. Infatti sono avanti, eccome. Non è il sogno americano, non è il futuro futuribile giapponese, ma è l’inarrestabile corsa di una locomotiva che macina chilometri.
A Berlino si sta bene, come bene si può stare in una metropoli dove il grattacielo taglia un orizzonte di casermoni in stile sovietico, come bene si può stare in un turbine di correnti gelide, come bene si può stare in una landa che sognava l’olimpo e finì nella polvere (certe cicatrici – meritate – non le portano gli umani ma le culture).
Ecco perché Berlino va visitata. Per capire, per imparare, per sognare. Per poter scrivere “di ritorno da Berlino”.

Quando Dio si diverte

Non frequento le chiese, ancor meno le messe. Eppure ieri mi è capitato di assistere alla messa cantata nella cattedrale di Notre-Dame a Parigi. Le voci del coro e la potenza dell’organo a canne mi hanno regalato un’emozione nuova, quella che ha a che fare con l’arte e contemporaneamente con la fede. Poco dopo sono stato in visita alla chiesa di Saint Eustache, bellissima, dove all’interno c’era una grande tavola imbandita per i poveri: gente che mangiava, beveva, sorrideva, chiacchierava a due passi dall’altare.
Secondo me, in tutt’e due le occasioni, Dio si è molto divertito.

Tutto il mondo è paella

Per le strade di Nizza ho visto un gruppo di quattro ragazzi che ballava meravigliosamente la breakdance. Due di loro erano cinesi.
Poi ho cercato un ristorante francese, tra mille ristoranti italiani. Quando ho creduto di trovarne uno, mi sono seduto e ho chiesto il menù. Solo allora ho scoperto che il proprietario era greco.
Facevano un’ottima paella.