Gli anni passati, in questo periodo dell’anno, mettevo a punto le ultime strategie – tra allenamenti e diari di bordo – per prepararmi al viaggio dell’estate. Vista a colpo freddo c’era più scaramanzia che lungimiranza, però era bellissimo illudersi che una pianificazione scrupolosa avrebbe tenuto a distanza di sicurezza gli effetti indesiderati di una vacanza non proprio ordinaria.
Credo che i viaggi siano una cartina di tornasole della nostra indole.
Non conosco persone interessanti che non viaggiano per scelta. Chi sceglie di rinunciare deliberatamente al godimento di una esplorazione del mondo (che sia un paesino a pochi chilometri da casa o la cima di una montagna dove ha perso le scarpe il Signore, poco importa) è solitamente una persona che pecca di curiosità: magari mangia poco o male, magari si rifugia sempre nel dispendioso 5 stelle extralusso a tiro di schioppo (per cui spende in una settimana l’equivalente di un mese in giro per due continenti), magari non trova il tempo per leggere manco un libro all’anno, magari non ha problemi di soldi ma pensa che è sempre meglio non spenderli in qualcosa che in fondo è solo uno spostamento da un luogo all’altro.
Ecco, il viaggio come mero spostamento, come transumanza di affetti, come status simbol (figuriamoci!), come sfogo obbligato a una pigrizia che è innanzitutto mentale dovrebbe essere riportato in un documento: “Viaggia solo se costretto”, allo stesso modo di “non ha votato”. Una scelta legittima che dà però l’opportunità agli altri di avere un’opinione legittima.
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