C’è un antico problema del giornalismo, diventato modernissimo per via dei negazionisti dell’ultima ora, no vax o no brain che siano. E cioè quello legato al valore della testimonianza. Un giornalista gode di un privilegio sin dai tempi in cui il giornalismo è nato: lui c’è, racconta, commenta laddove gli altri non ci sono, quindi non possono raccontare con facilità e di conseguenza non possono commentare con dovizia di particolari. È il fattore del “secondo me”. Un fattore cruciale ai giorni nostri. Non vi sfuggirà infatti che il “secondo me” rappresenta un vantaggio e al tempo stesso un handicap.
Il “secondo me” che conosciamo sino al pre-pandemia, anzi – diciamolo chiaramente – sino a prima dell’avvento del Movimento 5 stelle di Grillo e Casaleggio, era un vantaggio perlopiù professionale, un po’ come il poliziotto che arriva per primo sulla scena del delitto o il regista che conosce tutte le scene tagliate e i retroscena proibiti del suo film. Poi c’è stata l’ecatombe della ragione e il “secondo me” è diventato il vessillo del famigerato “uno vale uno”, la bandiera della cultura da smartphone (un tempo c’erano i Bignamini – e magari li rimpiangiamo – oggi c’è l’indice di Telegram), l’altare su cui immolare ogni certezza scientifica o peggio su cui bruciare ogni residuo di realtà.
È tutto in questo uno-due, in questo capovolgimento che pare istantaneo e che invece parte da lontano (ne abbiamo parlato qui a proposito di un modello comunicativo deviato e purtroppo di successo) gran parte dello sfacelo dei nostri giorni. Perché sino a quando la ragione aveva una sua cittadinanza, una testimonianza serviva per farsi un’idea, non per costruirne una completamente falsa.
E la “falsa idea” è il cancro sociale dei nostri giorni.
Oggi la Terra rotonda (e persino quella piatta) è popolata da persone che credono di aver razionalizzato un evento, con le sue cause e le sue conseguenze, e che costruiscono su questa illusione un abbecedario per il futuro. Però il futuro ha un cazzo di problema, è aperto a ciò che non esiste ma chiusissimo allo spaccio di verità false. Perché il futuro sbugiarda sempre, spesso con crudeltà estrema. Il futuro non fa sconti. Il futuro stupra i sui stupratori, senza pietà. Solo che, ontologicamente, lo fa coi suoi tempi, decimando i testimoni: la vita è una malattia mortale (cit).
Recuperare il valore della testimonianza è una cosa molto complicata poiché è un atto bilaterale, e gli atti bilaterali rompono i coglioni: non basta un mea culpa o un ripassino fatto bene, devi sempre trovare uno che controfirmi il tuo ravvedimento. Insomma, un vero casino. È così che sono morti gran parte dei giornali, non hanno saputo trovare credito per la controfirma, per il tacito contratto tra due parti che in fondo sono una sola.
Però una cosa la dobbiamo tenere a mente. Che la testimonianza è il primo motore immobile del tempo. Senza, non c’è futuro e manco presente.
Senza testimonianze non avremmo contezza di ciò che accade fuori dal nostro raggio visivo. Non sapremmo niente delle meraviglie che ci aspettano. Non pregusteremmo l’arte, la tecnologia, l’amore.
Viviamo biologicamente secondo le regole di quel genio trasversale di Dante, similitudine e contrappasso. Sentiamo più freddo di quella volta, vogliamo essere accarezzati come quell’altra volta, non intendiamo stare male come quella volta, confidiamo di scamparla meglio di quell’altra volta.
Non so come recupereremo il valore della testimonianza, giornalisti e non. So solo che senza, non saremo migliori o peggiori, non saremo più o meno scaltri, non saremo in vantaggio o sconfitti. Semplicemente non saremo. Testimoni.