Vacche e voti

C’è un tema apparentemente laterale che è il terreno di coltura di gran parte del malaffare applicato alla politica. E ha a che fare con una frequentazione svantaggiosa e desueta, quella con la coerenza.

Il recente caso dei “voti sporchi” alla Regione Sicilia, con il coinvolgimento tra gli altri del vicegovernatore Luca Sammartino, non va guardato con la lente del recentismo, non va considerato come l’ennesima conferma che le cose vanno sempre peggio e che non ci sono più i politici di una volta. Perché dietro la vicenda di questo esponente della Lega – presunto colpevole, ricordiamolo – proveniente dalle lande del Pd c’è tutto il marasma della noncuranza dei partiti, sempiterna come le tentazioni storte e le convenienze umane.
Il cambio di casacca è un capitolo del Guinnes dei primati in continuo aggiornamento. Dalla siciliana Alice Anselmo che riuscì a cambiare sei partiti in due anni e mezzo (uno ogni cinque mesi) peraltro senza suscitare alcun sussulto, alle statistiche del Parlamento dove un terzo degli onorevoli cambia bandiera a giochi in corso (calpestando quindi il nobile mandato per cui sono stati messi lì) la mancanza di coerenza è sempre stata rinfacciata ai singoli candidati e raramente ai partiti che consentono questa pratica.
È vero che la responsabilità personale di chi, eletto per rappresentare qualcuno e qualcosa, sceglie di rappresentare qualcun altro e qualcosa altro dovrebbe bruciare sulle carni di chi si imbarca in certe scelte, ma è anche vero che se Caterina Chinnici, una che in politica ha sempre perso, passa con nonchalance dal Pd a Forza Italia qualche problema nel sistema dei partiti c’è.

Ci siamo impantanati da tempo, da troppo tempo, nella pesatura delle vacche ergo nel bagaglio di voti che un tale porta con sé. E abbiamo perso di vista la scrematura delle idee, il censimento di quelli che un tempo si chiamavano valori: tipo, io ti voto perché mi piace il tuo concetto di welfare o la tua attitudine per i diritti umani, non perché mi riempi uno stadio con due post sui social o mi consenti di mettere i tavolini del bar in strada.
La selezione operata dalla politica non si fa sui cammelli e sui soldi per comprarli (o venderli), ma sul deserto da superare. L’emergenza climatica è anche sul fronte morale.     

Rosso, sangue o vergogna?

C’è un problema che affrontiamo ogni giorno senza sapere di affrontare quel problema ogni giorno. E cioè: tutti abbiamo i cazzi nostri e tutti li abbiamo più o meno ogni giorno, solo che ci sono problemi che si esauriscono in quel giorno, problemi che si ripercuotono in più giorni, e problemi che rischiano di far venire giù le piastrelle di una stanza della nostra epoca. Uno dei più sottovalutati, e al contempo dei più perniciosi, è quello legato al codice comune. Che non è lingua né sistema criptato, ma sistema basilare di discussione, mattone per edificare un muro o sfondare una vetrina (sempre mattone è), unità di misura o arma da duello.

Ci sono due casi di cronaca da prendere come spunto. L’intervista di Elly Schlein  su Vogue, che tutti citano e molto meno di tutti leggono, e il passaggio di Caterina Chinnici dal Pd a Forza Italia, che è facile da citare e inutile da leggere.
Il codice comune serve a decrittare in modo univoco un fatto, pur lasciando integre le sfumature che fanno la differenza nella sensazione di quel fatto.  La sensazione è fondamentale nel nostro sistema di discernimento giacché toglie alla matematica il governo di ogni opinione.

Su Schlein gran parte della stampa italiana si è esercitata prendendo un brandello (diciamo il più insignificante) della sua intervista, quello sulla armocromia, e ignorando tutto il resto. Resto che è tanto, eh: da Obama alla Meloni, dalle famiglie arcobaleno ai movimenti ecologisti, dall’accoglienza per gli immigrati alle tasse per le multinazionali, dalle serie tv alla musica, dallo sciovinismo ai Radiohead, dalla pandemia all’outing, da Greta Thunberg al Festival di Locarno. Roba che Salvini manco in una vita…
Insomma leggetevela, questa benedetta intervista (vi ridò il link che magari vi siete distratti).

Su Chinnici al contrario si è teso a espandere un concetto piccolo piccolo: l’occasione di vetrina pubblica di una esponente politica atavicamente stitica di argomenti, una che in fondo ha sempre perso senza mai combattere realmente, un’onestissima professionista onestissimamente sopravvalutata. La sopravvalutazione è un peccato che non coinvolge il soggetto, quindi Chinnici è in tal senso incolpevole: voleva fare la solista, suona l’organetto in playback alla decima fila.

Il codice.

Se si fosse usato lo stesso codice per Schlein e Chinnici non ci sarebbe stato scandalo in un caso (Schlein) e meraviglia nell’altro (Chinnici). Perché il codice ci dà il conforto dell’uniformità col contesto: il cambiamento non è un petardo nella stanza da letto né una bestemmia in chiesa, ma capire perché un petardo è esploso nella stanza da letto e come si è arrivati a una bestemmia in chiesa. So che non è un concetto facile, ma so anche che voi siete più avanti di me in tal senso.  


Quando nel 1998 la Nasa lanciò la sonda Mars Climate Orbiter per studiare la superficie di Marte nessuno poteva immaginare che, dopo quasi dieci mesi di viaggio nello spazio e mentre stava per entrare nell’orbita di Marte, quella costosissima ferraglia sarebbe esplosa.

Perché accadde questo incidente che – tanto per ricordarlo – costò 328 milioni di dollari di allora? Perché, si scoprì in seguito che – come si legge su Internazionale – il team che si occupava delle operazioni di navigazione del Jet Propulsion Laboratory aveva usato nei suoi calcoli il sistema metrico decimale, mentre la Lockheed Martin Astronautics, che aveva progettato e costruito la sonda, aveva fornito i suoi dati usando il sistema dei pollici, dei piedi e delle libbre.
Si erano scontrati due codici, capite?
E nessuno se ne accorse sino all’esplosione.

Oggi, abusando delle metafore che altri tempi ci elargiscono, sappiamo che usare gli stessi sistemi di misura, adottare linguaggi uniformi, o se preferite non cambiare le regole del gioco a partita in corso, è il migliore degli investimenti.
E fare il contrario – cioè fare come si continua a fare – è  l’unico gioco in cui nessuno vince e tutti perdono.
Se tutti perdono i casi sono due: o il gioco è inutile, o inutili lo diventiamo tutti noi.

Chi non salta comunista è

Quando nel 2001 Forza Italia si prese la Sicilia – ci pensavo ieri guardando la mia scheda elettorale – io ero ancora al Giornale di Sicilia. E fu proprio in quell’anno che iniziò il mio lento divorzio, prima sentimentale poi materiale, dal quotidiano di Palermo.
Con lo strapotere del Centrodestra – Cuffaro alla Regione e Cammarata al Comune – l’Isola si consolidò come vero terreno di conquista e il giornale divenne l’organo ufficiale di una parte politica che non faceva mistero di certe sue propensioni per la pacchianeria: famoso il coro “chi non salta comunista è” sulle macerie del 61 a zero.
Nei miei vent’anni al giornale ho sempre tenuto un’agenda aggiornata: se mi chiedete che accadeva e cosa facevo quel dato giorno di quel dato anno, io sfoglio e rispondo.
È così che dai miei appunti viene fuori un episodio datato 26 novembre 2001. Diego Cammarata è stato appena incoronato sindaco di Palermo (con 56 per cento dei voti) dopo aver stracciato il candidato dell’Ulivo Francesco Crescimanno (che si ferma al 23). Nella consueta riunione telefonica al Gds, il condirettore Giovanni Pepi gela tutti chiedendo conto e ragione in modo molto veemente di un articoletto di taglio basso, 20 righe scarse, in cui si dà voce al dissenso di Orlando. Pepi vuole conto e ragione di quelle maledettissime righe, manco fosse un fondo in prima.
La responsabilità se la prende Francesco Foresta, che tutto è fuorché amico di Orlando. Ne viene fuori un durissimo scontro verbale (sempre per telefono) che lascia il segno su Francesco e che minerà alla base i rapporti tra alcuni di noi (in realtà io e lui) e il condirettore. È il primo atto di un inarrestabile cambiamento della linea del giornale, completamente sdraiata sulle posizioni del Centrodestra.
In via Lincoln la vita per noi cambia, diventa impossibile: strigliate quotidiane per una tacca, cazziate per foto piazzate in pagina senza che siano state scelte tra quelle scattate dal condirettore stesso, un controllo ossessivo su ogni riga di politica o di giudiziaria (perché spesso le due cose convivono), il morboso richiamo a un fantoccio di informazione che vorrebbe essere equilibrata, ma è solo e scarsamente equilibrista.
E poi il commissariamento con la nomina di altri tre vice-capiredattori “di fiducia” che limitano in modo plateale il nostro ruolo: guardiani nelle grazie della direzione. Quando nel febbraio del 2007 mi accorgo di non essere più in grado di cambiare una breve senza chiedere il permesso, mi alzo e me ne vado per non tornare mai più. Con me, ovviamente, c’è Francesco che dà le dimissioni il mio stesso giorno, un anno più tardi.
Oggi molte cose sono cambiate: Francesco non si è potuto godere a lungo l’amata libertà, Pepi non è più condirettore del Gds, il giornale sta cercando di riprendere quota con altre ali e altre idee, il Centrodestra non comanda più.
Questo pensavo ieri guardando la mia scheda elettorale.

Francesca Pascale for president

Francesca PascaleSu Repubblica, Carmelo Lopapa ha raccontato come i nuovi equilibri di Forza Italia siano messi a dura prova da Francesca Pascale e dalla sua esuberanza domestica. È un affresco illuminante per capire il passaggio, o forse è meglio dire il trapasso, di FI da partito azienda a partito fazenda.
Un tempo le sorti di un sodalizio politico che incanta milioni di italiani si decidevano nello studio del grande capo, in seguito la situation room si spostò nella sua camera da letto, oggi i grandi giochi si fanno invece nel tinello. Non invidio il cronista che per raccontare al Paese il travaglio di una coalizione politica, è costretto a spremere le sue fonti non in parlamento bensì in cucina, giacché i nuovi attriti tra la Pascale e Berlusconi pare siano dovuti al licenziamento da parte di lei di una cuoca considerata più fedele di Marcello Dell’Utri. Ma sono tempi bui per l’ex Cavaliere e se i guai non arrivano da qualche pm comunista, magari un paio di stilettate se li prende dalla convivente. Della serie, dal pugno chiuso dei compagni al pugno e basta della compagna.
Tuttavia c’è poco da sorridere perché anche nella sua flautata agonia, Forza Italia si conferma un grande punto interrogativo della storia italiana. Facciamocene una ragione: se una ragazzotta come la Pascale riesce a passare dai ritocchi alla lista della spesa alla stesura dell’agenda politica nazionale, è segno che c’è un male incurabile nel nostro sistema. Dovevamo capirlo prima, la prevenzione è la migliore forma di cura. E invece ci scherzavamo su. Quando si parlava dei fagiolini a ottanta euro al chilo sghignazzavamo incoscienti, e non sapevamo (capivamo) di essere come la famosa lumaca di Pirandello che gettata sul fuoco sfrigola e pare ridere. Invece muore.

Nightmare

Vent’anni fa il popolo italiano perdeva le elezioni.

Forza Italietta

Silvio Berlusconi non contento degli sfaceli ottenuti con “Forza Italia” ha deciso di fondare un nuovo partito degli onesti chiamato “Italia Pulita” che porterà un ventata di aria fresca nel noioso panorama politico italiano zeppo di professori che non raccontano manco una barzelletta e di ministre che non hanno neanche un calendario alle spalle e che raggrupperà volti nuovi possibilmente attaccati a corpi sinuosi ispirandosi a valori come l’onestà e la rettitudine di cui notoriamente lo stesso Berlusconi è portabandiera nazionale insieme con l’angelico Marcello Dell’Utri che ha confezionato il nuovo prodotto elettorale e l’integerrimo Guido Bertolaso che sarà il talent scout della nuova formazione che visti i presupposti avrebbe potuto benissimo essere chiamata “Italia Punita”.

Silvio, che ci canti?

Silvio Berlusconi rilancia, si prepara a una nuova marcia sulla nazione e addirittura tira fuori dal cilindro un nuovo inno. Il passaggio cruciale della fondamentale opera artistica è:

“Noi siamo il Popolo della Libertà, gente che spera, che lotta e che crede nel sogno della libertà”.

Pare che per giungere a questa mirabolante sintesi di note e parole sia stato determinante l’apporto dell’onorevole Maria Rosaria Rossi (chissà se ha anche ballato). Anche se a occhio la rima così ricercata ricorda più Fabri Fibra che una elegante parlamentare (anche se J-Ax minaccia querele per plagio).
Il passato comunque è difficile da dimenticare e il vecchio inno di Forza Italia non andrà mai in soffitta, bensì troverà un posto nei cassetti della storia, quella stessa storia che il testo voleva rimodellare. Si cantava infatti:

“Nella tua storia un’altra storia c’è,  la scriveremo noi con te”.

In realtà l’unica cosa che Berlusconi tentò di riscrivere furono le leggi che interessavano l’orchestra tutta, compreso il direttore. Ma questo è un dettaglio che non può appesantire il volo dell’arte.

Azzeramento

Azzeramento

di Vittorio Pasticcino

Fumate tre sigarette in una stanza e ci sarà puzza di fumo. Fumatene cinquanta e ci sarà tanfo. E il tanfo entra nelle vene in un attimo. Sono qui seduto davanti a un nuovo direttore di un assessorato regionale siciliano che vuole creare il partito del Sud di cui sentivamo il bisogno.
Ha meno anni e molti più soldi di me. Era del partito democratico. Poi è stato di Forza Italia. Adesso è dell’Mpa.
Sono qui dopo cinquanta telefonate. Per un’udienza papale serve molto meno.
In mano ho la bozza di una norma che, se approvata dall’Assemblea regionale alleggerirebbe il carico burocratico di una vasta categoria produttiva. Il tanfo mi abbraccia le corde vocali  e con una voce sempre più rauca dico: “Dal punto di vista tecnico la bozza sembra essere perfetta in quanto realizzata con il contributo del suo predecessore”.
Avessi detto che sua madre era una escort e alleggeriva le pene di qualche uomo politico l’avrei offeso meno. Avessi detto che sua sorella era una escort con il vizio di filmare e fotografare l’attività ludica di qualche uomo politico l’avrei offeso meno.
“Mio caro dottor Pasticcino, lei continua a dire che questa norma è stata fatta dal mio predecessore. Ma lei sbaglia, perché forse lei non ha ancora compreso che tutto ciò che c’era prima è visto come fumo negli occhi da tutti. Vede, mio caro dottor Pasticcino, se lei continua a dire così c’è il rischio che questa norma rimanga una bozza. Non lo dica più la prego. E non perché io abbia qualcosa contro il mio predecessore, persona degna che io stimo molto, ma perché lei deve capire che l’azzeramento è azzeramento”.
Gli stringo la mano ed esco.  Oggi ci sono 40 gradi e spero che il tanfo evapori insieme alla mia voglia di continuare a rimanere una persona civile in una terra che azzera anche le speranze.

Occhio al 2004

Il mio personale anno di riferimento è il 2004, quando Forza Italia e An insieme ottennero poco più del 32 per cento.
Oggi sono al 34,5, stando alle proiezioni Rai.
Male, diranno gli sporchi comunisti tra voi.
In realtà nel 1999 Forza Italia e An avevano fatto di più, il 35, 5; nel 2001 avevano fatto di più, il 41,4; nel 2006 avevano fatto di più, il 36; e lo scorso anno avevano fatto di più, il 37,4. Quindi, osservando i numeri provvisori, in queste europee il Pdl avrebbe il peggiore risultato in dieci anni (a parte il mio personale anno di riferimento 2004).