Schettino e il naufragio dell’informazione

Il caso della gaffe di Televideo su “Io capitano” associato alla storia di Schettino e del naufragio della Concordia rimanda a due considerazioni, che vi porgo in modo spero agile (perché il discorso potrebbe essere complesso).

La prima riguarda il disagio dei giornalisti come categoria in un Paese (verrebbe da dire in un mondo, ma restiamo circoscritti) che legge sempre meno e che, soprattutto, è sempre meno interessato alla qualità della lettura. E lettori pessimi si accontentano di giornali pessimi. Lo dimostra il fatto che esistono ottimi prodotti editoriali che nessuno compra, perché si preferisce la spazzatura gratuita dei social o di bassa lega.
Le redazioni sono svuotate per motivi economici, il lavoro che veniva fatto da dieci persone è oggi fatto da due, il che alimenta l’offerta di informazione scadente. In più ci si mette l’uso folle dell’intelligenza artificiale, che pare aver un ruolo nell’incidente di Televideo.

La seconda considerazione è figlia della prima. Nei giornali che vogliono essere troppo nuovi le decisioni editoriali sono guidate da statistiche che, analizzando ciò che genera più traffico, decretano la morte dell’idea originale, del guizzo, della bracciata controcorrente. In un loop paradossale (di cui stiamo già pagando le conseguenze) gli algoritmi non riflettono solo le tendenze, ma addirittura le creano incrementando la popolarità di temi già popolari e determinando una polarizzazione dei lettori che non riflette gli equilibri reali. Insomma – come scrissi qui qualche tempo fa – se a nessuno viene mai spiegato che la musica elettronica o l’architettura postmoderna sono argomenti importanti, è molto difficile che qualcuno li tratti come tali.
La verità è una sola: il ruolo del giornale come arbitro si sta perdendo. Se i dati dicono che gli argomenti provinciali sono i più rilevanti, anche il giornale diventerà provinciale. Morale storta: cercando di essere più grandi, si rischia di diventare più piccoli.
Il bello, o meglio il brutto, è che colpevolmente quasi nessuno nelle aziende editoriali italiane (e non) è mai stato colpito dall’idea che bisogna cambiare radicalmente il modo di lavorare, di scegliere le notizie, persino di reclutare giornalisti. Ma questo è un problema di conoscenza e di coraggio. E il coraggio viene dopo.