Coronavirus e frittate

Controindicazioni striscianti. Urticanti, fastidiose. Difficili, anzi impossibili da evitare. L’emergenza Coronavirus rafforza in maniera estrema il controllo poliziesco. Se ne discute nel mondo a tutte le latitudini politiche. Il sociologo francese Geoffroy de Lagasnerie ha parlato di una “sottomissione nazionalista”, e c’è andato leggero. Ma, a mio parere, non è tanto la famosa “deriva autoritaria” che dobbiamo temere, poiché in questo caso il sentimento di sottomissione è volontario per la maggior parte dei cittadini, in vista di un obiettivo comune. Una delle conseguenze di questo attutimento dei diritti per causa maggiore è la perdita di smalto delle coscienze critiche. Ci si affievolisce di proposito per smussare gli spigoli in un periodo in cui gli spigoli non hanno diritto di dividere, confinare, ci si attenua nel nome di un interesse nazionale. Ci si autocensura forse, anzi peggio: poiché nella censura c’è sempre una spinta ostinata e contraria che cova. Invece qui si obbedisce e basta, com’è tristemente giusto che sia. Del resto esercitare fiducia nel prossimo è una di quelle cose facilissime da far male, come la frittata e il sesso a tre. Il rafforzamento dei poteri di polizia, le intrusioni psicologicamente violente nelle nostre abitudini più personali, la perdita della cognizione di popolo come terapia di gruppo contro quello che un tempo era il male del secolo, l’incomunicabilità, (ma quale tempo e quale secolo…) sono controindicazioni obbligate, effetti collaterali di una chemioterapia sociale alla quale si crede per fede. E sulla quale non ci si interroga.

Quando tutto sarà finito, tutto comincerà. E dovremo essere pronti a disinfettare le ferite da sottomissione volontaria.      

Polizia zebrata

Grazie a Lorenzo Matassa.

Quel calcio in faccia che è un pugno nello stomaco

Foto: Grazia Bucca per Studiocamera

Mentre si discute di traiettorie di lacrimogeni, di rimbalzi fatali, di strategia della tensione, oggi a Palermo la cronaca ci ha ricordato che la violenza ha sempre due attori: quello che la fa e quello che la subisce. E che una cosa è spaccare il capello delle responsabilità e un’altra è spaccare teste. E che il calcio in faccia di oggi non può essere la vendetta per la manganellata in testa di ieri, ma è solo orrenda, abominevole violenza.

I cocci di Arnaldo La Barbera

Leggendo le motivazioni della Cassazione sulle condanne per il massacro del G8 alla scuola Diaz di Genova, c’è un nome che mi colpisce. Arnaldo La Barbera. Chi, come me, lo ha conosciuto e ha seguito le sue gesta ha pochi dubbi nel leggere sospetti, postumi, sulle sue molteplici attività professionali. Da capo della squadra mobile di Palermo e da coordinatore del pool di indagine sulle stragi Falcone-Borsellino, La Barbera non ha mai perso occasione per mettere in luce la sua trasversalità. La prima e unica volta che lo incontrai, mi chiese a bruciapelo soffiandomi il fumo di tabacco negli occhi: “Tu giochi?”. Intendeva le scommesse o il poker o qualsiasi altra cosa avesse a che fare col rischio di perdere dinanzi a lui. Non mi fece simpatia, ovviamente.
Un giorno uccise con un colpo di pistola un rapinatore che aveva fatto irruzione nel centro estetico in cui lui si stava sottoponendo a dei massaggi. Il bandito aveva un’arma giocattolo. Era  gennaio. Era il 1992. Pochi mesi dopo, le esplosioni di Capaci e di via D’Amelio lo avrebbero visto in prima fila a condurre indagini delicatissime. E a chiudere cerchi con troppa facilità. L’inchiesta sulla strage Borsellino è un manuale di depistaggi e testimonianze indecenti.
Qualche anno dopo si saprà che La Barbera era al servizio del Sisde: nome in codice Catullo.
Quando morì, i giornali lo descrissero come un superpoliziotto, come un uomo tutto d’un pezzo.
Ieri la Cassazione mi ha ricordato che i pezzi sono anche cocci.

Manganelli e poverelli

Non mi piace questa colpevolizzazione della ricchezza che in Italia tende a confondere il ricco con il disonesto e l’ho scritto. Tuttavia sono rimasto di sasso quando ho appreso che il capo della Polizia Antonio Manganelli guadagna 621.253,75 euro all’anno. Cioè più di 1.700 euro al giorno.
Ora, se in questo paese i poliziotti guadagnassero cifre calibrate sui rischi che il loro mestiere impone, nulla ci sarebbe da dire (anche se somme di questo genere per funzionari pubblici suonano un po’ stonate coi tempi che corrono). Però se un agente prende poco più di 1.300 euro al mese, cioè guadagna in trenta giorni molto meno di quanto il suo capo percepisce in 24 ore, allora qualcosa non va.
Anche qui di certo dobbiamo stare attenti a non confondere il ricco col disonesto, ma contemporaneamente dobbiamo sforzarci di evitare di identificare il povero col fesso.

Incongruenze

Due uomini armati si affrontano sulle scale di un condominio. Il primo spara, ma la pistola si inceppa. Il secondo, che è un poliziotto, risponde e spara in aria, una, due, tre volte.
Occhio: siamo in un ambiente piccolo e scomodo.
Ciò che desta sospetto, a un qualunque lettore di polizieschi, è la reazione del secondo. Uno va per spararti addosso e tu miri in alto?
Ciliegina sulla torta dei dubbi. L’aggressore fugge via nonostante fuori ci sia un altro poliziotto.

Posteggiatori abusivi

A Palermo, in agosto, ci sono state due operazioni della polizia contro i posteggiatori che estorcono denaro in cambio di una presunta protezione della vettura.
Spero che ci siano sempre più blitz di questo genere e sempre meno persone che obiettino che la polizia dovrebbe occuparsi d’altro, di roba più importante, eccetera.
La maggior parte di questi posteggiatori sono delinquenti, una minima parte sono persone in stato di necessità. La migliore maniera di agire, secondo me, è far capire ai primi che la legge si rispetta senza eccezioni, e insegnare ai secondi che unirsi ai delinquenti non è il miglior modo per sbarcare il lunario.

Si respira meglio

Bravi, bravi, bravi!

P.S.
Credo che se qualcuno di noi fosse stato il sindaco di Palermo, sarebbe stato in mezzo a quei ragazzi a cantare, ballare, incitare. Solo che il sindaco di Palermo non è uno di noi.