Mi si nota di più se mi faccio i cazzi miei?

Non è roba dell’ultima ora. Sulla necessità di commemorare la strage di Capaci, sulla necessità di fare altro in un giorno di memoria, sulla necessità di evitare il blabla, sulla necessità di non raccontare dove eravamo mentre il tritolo dilaniava corpi e speranze, sulla necessità di trovare altre necessità per il 23 maggio si dibatte sin dal 24 maggio dell’anno precedente.

Una volta, un tale teorizzò da qualche parte il divieto di esibizione della memoria in occasioni come queste per non inquinare lo scenario di guerra. Era un’opinione talmente strampalata, perché confondeva memoria con ricordo, dolore con pregiudizio, lucciole con lanterne, che mi rimase impressa. Comunque il destino fu puntuale con questo propalatore a sproposito dato che lo cancellò dalla cache sociale e culturale in un contrappasso tutto sommato non ingiusto.

Oggi per quel che ho visto – e qualcosa l’ho vista – l’unica febbre che andrebbe misurata (e tenuta sotto controllo) in questi frangenti è quella del protagonismo di rimbalzo. Cioè il protagonismo dei non protagonisti. C’è questa strana tendenza, che partita dagli anziani contagia sempre più i giovani, a mostrarsi contro o disinteressati per salvaguardare, almeno nelle intenzioni, il valore di ciò che non si vuol seguire. Cioè, io vado al mare invece che sotto l’albero Falcone perché lì, in via Notarbartolo, c’è gente che in realtà pensa ad altro piuttosto che ai morti di mafia. Che è un bel cortocircuito logico: faccio altro per protestare contro quelli che presumo facciano altro. Un tempo si diceva “ci sono con lo spirito e non con il corpo”, oggi è “non ci sono perché non ci voglio essere, ma non si pensi che non mi interessa perché mi interessa più degli altri e per questo non ci sono, perché non ci voglio essere…” e via loop. Che è un passo avanti rispetto al “mi si nota di più se non vengo?” di Ecce Bombo. È: “Mi si nota di più se mi faccio i cazzi miei e lo dico?”.

Falcone, Borsellino e i soloni dell’anti-antimafia

Un estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.

Rita e Salvatore Borsellino chiedono che gli avvoltoi della politica restino lontani dalle commemorazioni per la strage di via D’Amelio. In fondo chiedono qualcosa che non dovrebbe essere pesato come qualcosa di speciale. Notizia sarebbe il contrario: venite a noi, onorevoli farabutti, strumentalizzate pure i brandelli di memoria dei nostri cari. E invece fanno rumore perché in un certo sentire comune si realizza finalmente il sogno di una divisione nell’antimafia più sacra, quella dei parenti delle vittime. Continua a leggere Falcone, Borsellino e i soloni dell’anti-antimafia

Quel che resterà

Due cose mi rimarranno nella valanga di parole, testimonianze, ricordi, ammonimenti di questo ventennale della strage di Capaci. Sono le testimonianze di due donne, donne diverse per età, formazione, mestiere.
Una è Letizia Battaglia e ha scritto:

In questi giorni si inaugura all’ambasciata italiana a Washington una mostra fotografica , dal titolo Un eroe italiano. Questa mostra l’ho curata io, scegliendo immagini mie di Franco Zecchin e di Shobha.
Tra queste c’ è una foto che mi è particolarmente cara, di cui sono fiera, realizzata da Shobha. Una foto orizzontale: a sinistra, c’è Falcone col suo sorriso timido, a destra ci sono io, in centro ci sono le nostre mani unite. A quelli di Washington non gliel’ho detto che quella donna sono io. Tanto non mi conoscono.

L’altra è Stefania Petyx, che ha scritto:

Oggi provo solo rabbia e dolore. Come ogni anno da quel 1992.
Nel mio piccolo l’ho detto in tutte le lingue e davanti a chiunque. L’ho detto anche davanti casa di quell’uomo di merda che 20 anni fa organizzò e pianificò quella maledetta bomba.
Anche oggi rifarei quella citofonata ma vorrei che stavolta Ninetta Bagarella avesse il coraggio di aprire.

 

Il regolamento di conti

Di volta in volta, con un crescendo rossiniano, i magistrati sono stati definiti “mentalmente disturbati”, sono stati accusati di essere “l’anomalia del paese” e “la metastasi del paese”, vengono considerati “un cancro da estirpare”, alcuni tribunali sono stati equiparati a “plotoni di esecuzione”.
Ed allora, al fine di evitare che “questa” magistratura, tacciata di essere del tutto inaffidabile e orientata decisamente a “sinistra”, continui ad amministrare giustizia contro il ”Paese” e non per il “Paese”, mirando a sovvertire per via giudiziaria il risultato del voto popolare del 2008, il precedente esecutivo ha pensato bene di mettere mano ad una riforma della giustizia, definita “epocale”, che, se fosse attuata nei termini in cui è stata pensata, appare non tanto una opera di restyling del Capo IV della Carta Costituzionale quanto, in realtà, un divisato e definitivo regolamento di conti con la magistratura da parte del potere politico.

Nel ventesimo anniversario della strage Falcone, il presidente del Tribunale di Palermo Leonardo Guarnotta non le manda a dire. Oggi su diPalermo.