L’articolo pubblicato sul Foglio.
Quando il 4 ottobre 1994 presso Corte d’Assise di Caltanissetta si aprì il primo processo per la strage Borsellino neanche la più pessimista delle Cassandre giudiziarie poteva prevedere il groviglio di procedimenti che ne sarebbero scaturiti per i decenni a seguire. Tra ordini e contrordini, rivelazioni e allucinazioni, gradi di giudizio e tormenti di pregiudizio, di processi sull’eccidio di via d’Amelio se ne sono contati, sino a oggi, dieci. Ma il dato è ovviamente provvisorio, come solo gli errori perduranti promettono di essere. Le ultime indagini sui presunti depistatori – poliziotti o magistrati che siano – arrivano talmente in ritardo da far sì che il sentimento prevalente dinanzi a questo accatastarsi di verità sia quello della delusione.
Per questo, maneggiando la storia dei misteri delle stragi
del ’92 abbiamo scelto di inventarci una sorta di tribunale di fantasia. E di raccontarla,
quella storia, nel posto che secondo noi, meglio di altri, poteva contenerla
con i suoi drammi, le sue deviazioni, i suoi risvolti grotteschi, le sue fiamme
raggelanti. Abbiamo scelto un teatro, un teatro lirico, il più grande d’Italia:
il Teatro Massimo di Palermo.
L’opera-inchiesta scritta insieme con Salvo Palazzolo –
s’intitola “I traditori” ed è recitata da Gigi Borruso, con le musiche di Marco
Betta, Fabio Lannino, Diego Spitaleri e la regia di Alberto Cavallotti – è un’indagine
sul palcoscenico che parte da un presupposto: nel luogo dell’arte, cioè nel
tempio in cui si celebra il primato della fantasia, si può trovare la libertà
che serve per provare a evadere dalle prigioni delle versioni preconfezionate.
Spesso la verità del dubbio è più utile della certezza di uno slogan. E i dubbi
nelle indagini sulle stragi di Capaci e di via D’Amelio non mancano. A
cominciare da ciò che accade nell’immediatezza degli eccidi.
Passano poche ore dall’attentato in cui è morto Paolo Borsellino con gli agenti della scorta, e l’agenzia Ansa batte un take in cui c’è scritto che “fonti della polizia di Stato” sanno che l’autobomba è una Fiat di piccole dimensioni: “Una 600, o una Panda, o una 126”. Solo che ancora il blocco motore della macchina imbottita con novanta chili di tritolo non è stato recuperato (il ritrovamento avverrà l’indomani). E soprattutto ci vorrà un esperto della Fiat, fatto arrivare apposta dallo stabilimento di Termini Imerese, per capire che quell’ammasso di ferraglie appartiene proprio a una Fiat 126.
I dubbi e le certezze. I primi ci accompagnano da ventisette
anni, le seconde sono subito brandite da chi, come l’allora capo della Squadra mobile
di Palermo, Arnaldo La Barbera, sa troppo e non si capisce perché. Come fa la
polizia di La Barbera ad avere identificato in anticipo il tipo di auto usato
per la strage quando l’unica traccia che resta di quel veicolo è un blocco
motore che non è stato ancora recuperato?
La Fiat 126 è importante nella nostra ricostruzione poiché è
su di essa che poggia gran parte dell’impalcatura del depistaggio grazie al
sistema dei falsi pentiti. Poco meno di un mese dopo la strage di via D’Amelio,
una nota riservata dei servizi segreti riferisce alla direzione del Sisde che
“la Polizia avrebbe acquisito significativi elementi informativi per
l’identificazione degli autori del furto dell’auto, nonché del luogo in cui la
stessa sarebbe stata custodita prima di essere utilizzata nell’attentato”.
Ancora lo stridere di dubbi e certezze. Se i falsi pentiti Salvatore Candura ed Enzo
Scarantino ancora non sono stati arruolati, come fanno la polizia e il Sisde a sapere
dove è stata rubata la 126? E soprattutto com’è possibile che Candura e
Scarantino siano a conoscenza del fatto che la macchina è stata prelevata dalle
parti di via Oreto a Palermo, circostanza vera, se loro in realtà non c’entrano
nulla con la strage?
Tenete conto che i dettagli che smaschereranno l’impostura
del depistaggio, li svelerà il vero autore del furto della macchina, Gaspare
Spatuzza. Ma lo farà solo quindici anni dopo l’attentato, nel 2008. Fino ad
allora il circo dei veggenti metterà in scena, indisturbato, quello che i
giudici di Caltanissetta hanno definito uno dei più gravi depistaggi della
storia italiana. Ufficialmente, almeno sino alle latitudini giudiziarie a noi
note, nessun magistrato tra quelli che hanno gestito le prime dichiarazioni di
Candura e Scarantino (con l’eccezione di Ilda Boccassini), ha mai avuto sentore
di imbroglio. La macchina della menzogna ha visto girare i suoi ingranaggi
senza che mai qualcuno muovesse un dito. Oggi, ventisette anni dopo il boato, sappiamo
che Scarantino, finto pentito inaffidabile per indole, per storia criminale,
per physique du rôle, sta accusando del suo vergognoso indottrinamento solo un
gruppuscolo di poliziotti a processo, come se i magistrati a quei tempi non ci
fossero o stessero tutti a bocca aperta a tracannarsi l’intruglio allucinogeno
preparato da La Barbera (che è morto da tempo e che quindi incarna l’essenza
del colpevole perfetto). Fatto salvo il rito ecumenico dei rimbalzi di
competenze giudiziarie che passa la palla da Palermo a Caltanissetta, a
Catania, a Messina – in un gioco di fratelli coltelli dove scarseggiano i
parenti e abbondano le armi da taglio – e che adesso con una sorpresona attesa
ventisette anni vede indagati per calunnia due dei fulgidi pm di allora, Anna
Maria Palma e Carmelo Petralia.
Certo se non ci fosse di mezzo una ferita al cuore
dell’Italia, quella delle stragi del ’92 sembrerebbe una storia scritta apposta
per essere raccontata. Del resto con i colpi di scena al momento giusto, con
una galleria di personaggi dalla doppiezza cinematografica, con il succedersi serrato
dei nodi della trama, la solidità del plot è assicurata.
Poche ore dopo la morte di Giovanni Falcone, due magistrati
della procura di Caltanissetta entrano nella sua stanza al ministero della
Giustizia, mettono i sigilli e fanno ciò che nessuno si aspetterebbe: lasciano
lì i due computer all’interno dei quali ci sono tutti gli appunti del collega
appena assassinato. Manco li degnano di uno sguardo. Ma non basta. Una
settimana dopo, gli stessi magistrati tornano in via Arenula e dissequestrano
tutto: (o)missione compiuta. Anzi stavolta l’effetto della loro disattenzione è
ben più grave, dal momento che lasciano i pc incustoditi, alla mercé di tutti.
Stesso modus operandi a Palermo, dove a casa del magistrato
in via Notarbartolo un computer portatile viene ignorato con pervicacia
quantomeno sospetta.
Nella nostra messinscena siamo entrati nelle cartelle
telematiche di Falcone e abbiamo constatato ciò che purtroppo era annunciato:
qualcuno è entrato in quei file già il primo giugno del 1992 ed è tornato nei
giorni seguenti, facendo quel che voleva. Tanto i computer non erano più sotto
sequestro. Oggi sappiamo che da quei pc sono spariti i diari di Falcone.
Da un colpo di scena all’altro.
Per l’agenda rossa di Paolo Borsellino, un totem dei misteri
italiani, la forma d’arte più adeguata sarebbe il balletto. Un balletto tragico
magari con uno sfondo di seta tempesta rosso sangue. Perché le figure note e meno
note che si aggirano attorno alla borsa che contiene l’agenda sembrano muoversi
tutte sotto le direttive di un coreografo: del resto l’inganno è anche arte di
movenze. Quel pomeriggio del 19 luglio 1992 poliziotti, carabinieri e
funzionari dei servizi segreti mettono le mani sulla borsa, tirandola fuori
dalla blindata in fiamme nella quale l’aveva riposta il magistrato, aprendola e
rimettendola nel posto da cui l’avevano presa: cioè l’auto in fiamme.
Nella concitazione di quei momenti – lo scenario di via
D’Amelio dopo l’esplosione è un inferno di lamiere, carne, fuoco, – due, tre,
quattro persone, ognuna col suo distintivo, prendono la borsa dalla blindata
che brucia, la aprono, rovistano, e chiamano in causa l’ex magistrato Ayala che
era sul luogo: lui smentisce di avere mai avuto un ruolo in questo mistero inanellando
però troppe versioni diverse, almeno secondo Fiammetta Borsellino.
Quanti danzatori oscuri nel cratere di Palermo.
La finzione teatrale per raccontare gli infingimenti dietro
i quali la verità gioca a nascondino. Tra i mille rivoli in cui questa storia
si disperde, un espediente narrativo che può essere utile nella sua
trasversalità è quello del cambio di soggettiva. Perché non provarci? Sinora
avevamo raccontato la storia da un punto di vista classico: i buoni e le
vittime da un lato, gli assassini di Costa nostra dall’altra. Poi abbiamo
deciso di cambiare inquadratura, scegliendo di guardare le cose con gli occhi
dei mafiosi. Ecco cosa ha detto Gioacchino La Barbera, già componente della
task force criminale che si è occupata
di preparare la bomba da piazzare sotto l’autostrada di Capaci poi diventato
collaboratore di giustizia: “Mentre stavamo mettendo da parte l’esplosivo per
l’attentato a Falcone, in una villetta di Capaci, notai una persona che non
avevo mai visto, un estraneo. Questo tale arrivò con Antonino Troia, il
capomafia di Capaci, parlò pure con Raffaele Ganci, il capomafia della Noce.
Evidentemente lo conoscevano. Rimase in tutto dieci minuti, un quarto d’ora.
Avevamo spostato l’esplosivo sul telone steso sotto la veranda. Non l’ho più
vista quella persona. Penso che l’individuo non fosse di Cosa nostra perché poi
non lo vidi più”.
Anche Gaspare Spatuzza, il mafioso che 16 anni dopo
l’autobomba di via d’Amelio ha raccontato i misteri della strage Borsellino, ha
fornito spunti interessanti. Il 18 luglio 1992 sta guidando la Fiat 126 (quella
delle preveggenze di La Barbera e sodali) che dovrà essere imbottita di
tritolo. “Non so dove dobbiamo andare. Io guido l’auto che mi avevano fatto
rubare, la notte fra l’8 e il 9 luglio. Seguo Fifetto Cannella che fa da
staffetta”. A un certo punto arriva in un garage dove si deve preparare
l’autobomba. “All’interno vedo due uomini, uno è Renzino Tinnirello, della
famiglia di Corso dei Mille, che mi viene incontro. L’altro è una persona sulla
cinquantina, che io non conosco, perché non l’avevo mai visto. Intanto, arriva
anche Ciccio Tagliavia, di Brancaccio, che in quel momento è latitante”. Un
altro uomo misterioso sul luogo cruciale in cui si prepara il “botto” e per
giunta in presenza di un latitante. “Non era un uomo d’onore, non era un
mafioso, non l’avevo mai visto prima”, assicura Spatuzza, che ha dalla sua
l’attendibilità di chi ha svelato l’impostura del falso pentito Scarantino.
I dubbi e le certezze. Le domande sulla reale identità di
queste sagome misteriose fanno parte di un copione che sembra scritto anche per
altri delitti eccellenti, precedenti alle stragi Falcone e Borsellino: Dalla
Chiesa e i suoi diari scomparsi, i documenti trafugati a Peppino Impastato, il
commissario Cassarà e la sua l’agenda rossa (un’altra agenda rossa!) che si
volatilizza, gli appunti sottratti all’agente Agostino dopo che era stato massacrato
assieme alla moglie sposata da un mese e incinta da due. La certezza è che c’è stato
un metodo del delitto a Palermo.
All’antimafia non sono mai mancati i palcoscenici e anzi, in
decenni che poi si sono rivelati cruciali per la credibilità di alcuni suoi
protagonisti, si è assistito a una moltiplicazione di essi. Dal corteo alla tv,
dallo slogan per strada all’articolo sul giornale militante, dal volontariato
alla carriera, il treno movimentista della santa guerra (a parole) contro i boss
si è lanciato a tutta velocità contro un obiettivo che si è rivelato sbagliato:
dovevano essere i mafiosi, invece è stata una generazione sociale. Anche negli
effetti è andata peggio del previsto: poteva essere binario morto, invece è
stato deragliamento.
Forse è il destino delle storie storte, generare cantori
sbilenchi. Forse c’è una luce piccola e seminascosta nell’abbagliante ribalta
dell’eterno protagonismo istituzionale: i temi e i dipinti dei ragazzini che
hanno visto “I traditori” con la scuola e che scrivono al teatro – sì al teatro
– come si fa a un familiare, “grazie,
ora ne sappiamo di più”. Forse da qui si potrebbe immaginare il nuovo incipit
di un’antimafia che è stata frutto da addentare dimenticandosi di dover essere
seme.
Il “tribunale del teatro” con la sua indagine sul
palcoscenico non è argine né corrente. Non si sostituisce a nessuno né agisce
per delega di alcuno. Brandisce l’unica certezza che si scorge, come terra
emersa, da un mare di domande senza risposta. La verità del dubbio.
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