L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.
È una sgradevole sensazione quella che ci prende quando ascoltiamo parole appassionate come quelle del pm Luciani che al processo di Caltanissetta tiene la sua requisitoria contro i poliziotti accusati del depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. È sgradevole non solo perché l’idea, la sola idea che uomini delle forze dell’ordine abbiano tramato per deviare l’inchiesta sulla morte di loro colleghi è urente come una coltellata in un corpo già ferito. Ma anche perché ci ricorda che quella che si sta ricostruendo con un ritardo inammissibile, proprio nel trentennale quell’eccidio, è una verità monca. Chiediamocelo senza infingimenti, come del resto fa da anni Fiammetta Borsellino: è mai possibile che il più grande depistaggio d’Italia sia stato orchestrato da quattro poliziotti senza che nessun magistrato si sia accorto di nulla? O meglio: è mai possibile che chi doveva controllare la regolarità delle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia non lo abbia fatto e oggi se la passi liscia, senza manco una ramanzina?
Il sistema che ha mandato in tilt le indagini sulla strage Borsellino per 16 anni e che ha condizionato trent’anni di processi non può dipendere esclusivamente dalla libera iniziativa di un manipolo di uomini dello Stato: ce lo dice la logica. La realtà processuale che certifica implicitamente un “liberi tutti” per quei magistrati che potevano fermare in tempo le mefitiche panzane di Scarantino non può bastare per sanare la sete di verità dei familiari delle vittime e di tutti gli italiani che hanno a cuore la certezza del diritto: ce lo dice la buona creanza.
Via D’Amelio ci insegna che un megafono non parla da solo. C’è sempre una voce dietro. E finora ci hanno voluto far credere che a parlare siano stati solo i fantasmi.