La rivoluzione dei piccoli passi

Non ho colto nessun elemento di scandalo nella polemica sulla frase del ministro delle politiche per il Sud Giuseppe Provenzano, secondo il quale “Milano attrae ma non restituisce quasi più nulla di quello che attrae”. Neanche dopo la correzione di tiro che tendeva a puntualizzare come la colpa di questa disparità non fosse di Milano, ma del resto d’Italia che non è in grado di assorbire e far proprio quel modello”. Se proprio si vuole trovare una colpa per Provenzano, allora forse si potrebbe criticare il modulo di comunicazione non blindato che, mediante un ragionamento che poteva essere frainteso, andava a grattare (anzi a tentare di grattare) la corazza dell’unico modello cittadino che davvero funziona in Italia. Insomma, in un Paese dove l’unica maestà per la quale ci si sbraccia è quella lesa, forse si poteva inventare una metafora più prudente per raccontare qualcosa che esiste realmente, e cioè il gap economico e sociale che trancia l’Italia e la necessità di politiche di sviluppo che curino le ferite ancor prima che suturarle.

È un argomento complesso che, per semplificare, vi sottopongo prendendo come spunto le politiche culturali e il loro rapporto con l’innovazione, sulla base della mia minima esperienza.

Quando il Teatro Massimo porta l’opera o i pianoforti di Piano City in un quartiere come lo Zen, fa un’operazione di grande impatto sociale che punta all’effetto contagio. Cerca cioè di inoculare un virus del bello in un corpo che ha un sistema immunitario complesso e interessante. E lo fa strizzando l’occhio alla risposta di Lev Tolstoj alla domanda “Cos’è l’arte?”.

“Eppure c’è un segno certo e infallibile per distinguere l’arte vera dalle sue contraffazioni; ed è ciò che io chiamo il contagio artistico. Se un uomo senza alcun sforzo da parte sua dinanzi all’opera d’un altro uomo, prova un’emozione che lo unisce a questo e ad altri ancora ricevendo contemporaneamente la stessa impressione, ciò significa che l’opera dinanzi a cui si trova è un’opera d’arte”.

Quando invece sempre il Teatro Massimo imbastisce un’operazione come quella de L’elisir o della Cenerentola di Danisinni fa una cosa diversa. Amplifica a dismisura l’effetto contagio giacché non solo gli abitanti del quartiere assistono all’opera, ma ne sono essi stessi protagonisti perché sono stati formati in mesi di prove e prove.
Ecco l’esempio di una vera politica culturale.
Ed ecco il link al ragionamento del ministro Provenzano.
L’innovazione è uno dei principali metodi di sviluppo e di contagio di sviluppo. Laddove per innovazione non si deve intendere necessariamente qualcosa che derivi dal silicio o che abbia a che fare col web e con la tecnologia. Innovazione è linguaggio, è orizzontalità della cultura, è diffusione della parola. Anche l’opera, cioè una delle più antiche e resistenti forme d’arte, può essere enzima di innovazione, ad esempio se coinvolge un quartiere popolare in una messinscena che stimola i suoi abitanti a cimentarsi in qualcosa che non conoscevano e che adesso li incanta.

I processi di cambiamento vanno guidati, non vanno decretati. E il miglior modo per accompagnarli è farli precedere da formazione e informazione per creare una sorta di consapevolezza guidata, senza la quale qualunque provvedimento economico o tentativo di spinta sociale è acqua che si perde tra le zolle di una terra assetata.
Di questo, a mio modesto parere, si deve parlare, non di rivoluzioni. Ma di politiche di piccoli passi, di innovazione del giorno per giorno.    

Né Tears né Fears

Sono uno fortunato. Nella mia vita, per passione e soprattutto per mestiere, ho assistito a molti concerti dal vivo. Quello che ho visto sabato scorso al Forum di Assago lo ricorderò per due motivi contrastanti: era in cima alla lista di quelli che mi mancavano (e dovevo assolutamente mettere nel carniere) ed è stato qualcosa di molto diverso da ciò che mi aspettavo.
Parliamo dei Tears for Fears e del loro “Rule the World Tour”, (la tappa milanese che doveva essere recuperata dallo scorso anno quando fu annullata per indisposizione e/o bizze degli artisti). La mia avventura non era iniziata benissimo dato che il biglietto acquistato per oltre il triplo del suo valore, a causa di un secondary ticketing selvaggio che ho provveduto a segnalare per tempo alla Guardia di Finanza, aveva già messo a dura prova la mia pazienza. Tuttavia mi sono presentato all’appuntamento con passione e curiosità di ordinanza e, da un punto di vista strettamente musicale, non sono rimasto deluso. Il fatto è che Roland Orzabal e Curt Smith propongono uno spettacolo molto serrato e, diciamolo, abbastanza breve: un’oretta e mezza scarsa (bis compreso) di musica con quel repertorio lì è un antipasto, altro che cena completa. I Tears for Fears mettono su una macchina molto professionale – troppo, al limite del freddo – per concentrare in un tempo relativamente breve una carriera di successi stellari. Gli arrangiamenti poco lasciano all’emozione live poiché raccontano esattamente la storia che conosciamo tramite il prodotto discografico: precisione, compostezza e rapidità. Anche nella scenografia, uno schermo grande ma non troppo propone il déjà-vu di immagini note (e apprezzate) nei loro prodotti e quasi ostenta la pigrizia di tralasciare telecamere a favore di chi, in uno spazio così ampio, vede il palcoscenico da troppo lontano pagando un biglietto salato.
Insomma ci si diverte, si balla e si canta per la forza delle canzoni, non certo per quella dei loro autori e interpreti che probabilmente nascondono una stanchezza sotto una corazza di solida imperturbabile professionalità. Un compitino ben fatto, un sano artigianato di larga scala.
Voto 7+, si poteva fare meglio.

Dare dell’idiota a chi lo è

Black bloc milano expoFoto ricordo dopo le devastazioni dei black bloc oggi a Milano.

Un fallito vale l’altro. A meno che non spari

Chissà quante ne leggerete su Claudio Giardiello, il criminale che ha sparato al palazzo di giustizia di Milano. Vittima dello Stato, vittima del sistema, vittima di qualunque cosa che non sia la sua follia distruttiva. C’è quest’incubo social-mediatico che si espande e invade tutti gli spazi residui del buonsenso, per cui tutti sanno tutto e più di tutti e c’è sempre una ragione che non vi dicono, un segreto che vi spalmano davanti al naso. Se l’ex sconosciuto Giardiello ha sparato un buon motivo ci deve pur essere: e su gli occhi al cielo che può darsi che piova e che il governo ammetta un furto…
Cazzate. Cazzate pericolose perché al mercato delle opinioni la libertà di spararla grossa è una profonda ferita nel corpo della ragione. C’è una folla di imbroglioni, di protestati, di falliti colpevoli del proprio fallimento, di truffatori, di pazzi violenti che non aspetta altro: dire la sua e trovare un corpo sul quale cucire addosso colpe a casaccio.
La verità è che questo Stato ingrato e vessatore non ha bisogno di vendicatori, ma di statisti. Che questa Repubblica delle banane non ha bisogno di qualunquisti, ma di gente che abbia il coraggio di un pensiero semplice. Quest’epoca di falsa condivisione non ha bisogno di privacy (parola di cui si abusa) ma di interessi diffusi. Insomma più che ostentare il diritto alla riservatezza facciamoci di più i cazzi degli altri, in modo da capire quel che ci è sfuggito, da tarare il nostro senso di scoramento quando accade l’imprevedibile.
Giardiello non è vittima dello Stato e chi lo dice è un pazzo, ma un criminale vigliacco che spara a gente disarmata approfittando di un inaccettabile bug nei sistemi di sicurezza. Non ci deve essere una raccolta di fondi da fare per lui, come hanno invece progettato quei dementi di Alba Dorata (gente che di dorato non ha più manco i molari e alla quale si può augurare più un tramonto che un’alba), ma una raccolta di idee per la comunità. Idee per sopravvivere all’onda anomala dell’insensatezza. Idee per scansare la tentazione della scorciatoia logica (il fallito fallisce per colpa dello Stato ergo è giusto che spari). Idee per censire le idee. Idee comunque.

Lavori in corso

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Grazie a Michele Lo Chirco (da Milano).

“Date gli indirizzi delle tre puttane”

il giornale

Sul sito del Giornale di Berlusconi sbocciano commenti sulla sentenza di condanna, anzi sui giudici che hanno emesso la sentenza. Eccone alcuni, non sono riuscito a leggerne altri perché non ho più lo stomaco per certe porcherie.

Giudici corrotti. In galera, viste anche le facce che si ritrovano

Una vergognosa e continua esuberanza dei Magistrati. Bene. Ora, che hanno raggiunto l’orgasmo politico di essere “prime donne”, BUTTIAMOLE VIA!

Queste tre str..aordinarie, mer..avigliose donnine hanno lavorato per ben 7 ore in camera di coniglio per emettere una vergognosa sentenza già scritta da tempo. Come avranno impiegato quelle ore? Spettegolando, suggerisce una mia conoscente, o programmando le rispettive vacanze che io auguro loro serene e riposanti!

complimenti a quelle tre donne che hanno scritto una delle pagine più brutte della storia. (…)queste tre e tutti quelli come loro meritano solo sputi.

Questa sentenza ha dell’incredibile. Come si può condannare un uomo che si prende cura di povere ragazze pagando loro casa e stipendiandole? Chissà quanti altri poveri cristi nelle stesse condizioni!!!

Una giustizia Bulgara amministrata da pm e giudici donne in evidente stato di “aviocarenza”…si consiglia l’effettuazione di alcuni trattamenti a base di Siffredyn ed una robusta completa rivisitazione della giustizia italiana.

Che foto! Altro che donne, c’era più femminilità nei fratelli Gibbs.

questo è un processo mafioso, giudici uguali a capi clan….

Non vorrei sembrare omofobo, ma secondo voi è corretto che il magistrato fosse una donna e che il collegio giudicante fosse composto da 3 donne?

La foto delle uniche 3 puttane è evidente. Date i loro indirizzi, le loro frequentazioni, fate in modo che possano sentire il calore di chi le vuole ringraziare!

Ma come sono belle, è proprio una bella troika.

La più marocchina di tutte le egiziane

Ruby Rubacuori protesta a Milano

Riassumendo. C’era una ragazza marocchina che la sera del 27 maggio 2010 era stata accompagnata in questura in quanto sospettata di furto e senza documenti addosso. La ragazza era minorenne e abitava a casa di una prostituta brasiliana, la quale quella sera pensò bene di chiamare l’allora presidente del consiglio per avvertirlo dell’increscioso contrattempo. Questi non esitò un attimo, una minorenne che vive con una prostituta va aiutata comunque, specie se – come lui stesso disse – si tratta della nipote di Mubarak, e telefonò subito al capo di gabinetto della questura per chiedere che la ragazza fosse affidata a una consigliera regionale anziché, come prevede la legge, a una comunità per minorenni. Così avvenne e la giovane sfortunata finì tra le braccia della premurosa esponente politica.
Sette mesi dopo l’ex presidente del consiglio finì indagato dalla procura di Milano per concussione, per aver approfittato della sua carica di premier per esercitare una pressione indebita sui funzionari della questura al fine di coprire il reato di prostituzione minorile: la ragazza sfortunata infatti non era sconosciuta all’allora premier poiché avrebbe partecipato, con l’esponente politica premurosa, ai festini che si svolgevano nella famosa villa dell’illustre politico. Non gratis, s’intende.
Il 15 febbraio del 2011 l’ex premier venne rinviato a giudizio. Se esistesse il reato di eccesso di panzane sarebbe stato costretto a dichiararsi colpevole, ma siccome proprio quel reato nei codici non c’è, il premier pochi mesi dopo fece approvare alla Camera e al Senato un conflitto di attribuzione in cui si sanciva che la ragazza sfortunata era la nipote di Mubarak pur non essendolo e pur essendo marocchina e non egiziana.
Il 3 ottobre 2011 nello stesso filone di inchiesta vennero rinviati a giudizio la caritatevole consigliera regionale, il direttore del TG4 e un importante talent scout. La accuse: induzione e favoreggiamento della prostituzione minorile.
Riassumendo, ieri la sfortunata ragazza marocchina – sospettata di furto, favorita da un premier, indicata dai magistrati come prostituta, partecipante a notti magiche non a titolo gratuito, oggi animatrice di serate in discoteca non a titolo gratuito e personaggio di copertina non a titolo gratuito – ha inscenato una protesta davanti al palazzo di giustizia di Milano prendendosela coi giudici e con la stampa che la violenta. Probabilmente perché non pagano.

Schifo

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Quando il senso del ridicolo non ha più confini e il grottesco assoluto bussa alla porta del diritto di cronaca vuol dire che si è messi veramente male. Perché è difficile immaginare un’Italia rappresentata da deputati, come quelli del Pdl, che si muovono in massa per occupare un tribunale dello Stato in difesa del loro padrone. Siamo all’atto finale di una messinscena che sino a qualche giorno fa poteva anche farci sorridere, ma che adesso si disvela in tutta la sua pericolosità.
Lo scollamento tra realtà oggettiva e realtà politica tocca oggi un livello mai raggiunto prima. Al confronto, la famosa certificazione governativa secondo la quale Ruby era la nipote di Mubarak è una barzellettina da coda alle Poste. E ciò che indigna ancor di più è che i protagonisti sono sempre gli stessi gaglioffi: per costoro, che sono in Parlamento solo perché scelti e prescelti dal padrone, un deputato della Repubblica non deve tenere conto delle leggi e delle regole comuni, ma può muoversi e battersi in nome di un mondo virtuale nel quale tutto è possibile per pochi eletti e nulla è dovuto al resto dell’umanità.
Il sistema dei valori, inteso come patrimonio comune, può andare in putrefazione. A costoro interessa solo la freschezza delle menzogne (se ne sfornano ogni giorno di nuove) sulle quali il loro partito ha costruito il disastro italiano.
Occupare (anche pacificamente) un palazzo di giustizia, soprattutto se si è rappresentanti delle istituzioni, è una bestemmia nel tempio, un oltraggio alla democrazia. E’ un atto da ultras prezzolati che suscita vergogna. E schifo.

Come si dice griffe in cinese?

Ecco spiegato perchè le aziende cinesi stanno correndo frettolosamente ai ripari, cercando di acquistare posizioni prestigiose nelle nostre città: per difendere la bugia dei loro business.

Vi ricordate quando nel dicembre scorso Giuseppe Giglio scrisse di quella che avevamo ribattezzato come sindrome cinese?
Ecco, in via Montenapoleone, a Milano, è arrivato Giada, tipico marchio cinese.

E se Ruby facesse la fame?

Ruby, foto da Novella 2000

Ruby Rubacuori è stata sorpresa da Novella 2000 mentre faceva shopping dalle parti di via Montenapoleone, a Milano, in negozi come Hermes e Louis Vuitton. Nel bene (invisibile) e nel male (evidente), la signorina è un’immagine emblematica della disparità in cui sta annegando questo Paese. Perché nessuno si sentirebbe meglio se Ruby facesse la fame o avesse continuato a vivere di espedienti più o meno legali, come faceva sino a qualche anno fa prima dell’incontro col Sommo Benefattore, però molti tirerebbero un sospiro di sollievo se ci fosse un’altra, qualsiasi altra estranea al circo delle Olgettine, al posto suo.