Nel mondo digitale – cioè prima del web, dei social, della comunicazione istantanea – la censura era una cosa relativamente semplice: bastava chiudere qualche giornale, bruciare qualche libro, mettere sotto controllo l’azienda radiotelevisiva. Oggi è tutto molto più complicato, basti pensare che ad esempio nella sola Cina ci sono 4 milioni di siti web, 1,2 miliardi di smartphone, 700 milioni di utenti di internet, 600 milioni di persone che usano WeChat e Weibo per una produzione giornaliera di 30 miliardi di informazioni. Capite bene che ogni forma di controllo diretta sarebbe impossibile. Eppure, spiega John Naughton sul Guardian, “i regimi autoritari godono ancora di ottima salute”. Com’è possibile?
La risposta la dà Margareth Roberts nel suo libro Censored (di cui ho letto su “Internazionale”):
Per impedire ai cittadini di informarsi, nel mondo digitale la censura usa la paura, l’attrito e l’inondazione. La paura è il vecchio sistema: funziona sempre, ma è costoso e può provocare contraccolpi pericolosi per i regimi. L’attrito impone ai cittadini un aumento dei costi – in termini di tempo o di soldi – per accedere alle informazioni: la pagina web che si carica lentamente, il libro rimosso dalla biblioteca online. L’inondazione ci sommerge di informazioni – molte false e inaccurate – per rendere difficile la distinzione tra quello che è utile e tutto il resto. Serve a diluire e a distrarre. È un sistema economico, efficace e senza particolari controindicazioni.
Ho citato la Cina. Ma la Cina è vicina.