La politica, l’informazione e la merda

Avvertenza per il lettore: questo articolo contiene alcune parolacce pur volendo stigmatizzare la volgarità disinvolta nella politica e nell’avanspettacolo a essa collegato.

Da un paio di giorni il candidato alla presidenza della Regione siciliana Cateno De Luca è il reuccio incontrastato del web per via di un attacco a un giornalista che, a suo dire, sarebbe strumento di un complotto ai suoi danni ordito da poteri forti. Cioè un complotto messo su da un giornale talmente potente che, va detto, si ritrova da anni con le pezze al culo e che non ha nemmeno saputo difendere adeguatamente le sue tesi (e il suo cronista) nello specifico: quattro righe oggi e pezzo ritirato dal web (vabbè, ognuno sa come farsi male senza chiedere l’aiuto da casa).
Per dire che questa storia ha De Luca al centro di un vortice di volgarità inaccettabili, ma ha anche un adeguato corredo di errori compiuti dalla stampa siciliana.

Se vi dico che c’è differenza tra la politica e la merda la cosa può apparire scontata. Messi da parte i luoghi comuni che addossano ai politici tutti i mali del mondo, persino quelli atmosferici, ci dobbiamo però arrendere dinanzi alla constatazione che, a conti fatti, a una buona parte della politica questa differenza conviene non marcarla.
Perché è il cliente che chiede il prodotto: e se il prodotto è di scarsa qualità (quindi costa poco) ma rende tantissimo nessuno ha voglia di cambiare. È l’uso che fa legge. Anzi gregge.

Abbiamo più volte affrontato nel corso degli anni questo tema e abbiamo anche sperato in un improvviso rinsavimento della classe politica, ma dai “5 Stelle” in poi questo appiattimento sul fondo del barile si è talmente mescolato alla melma del residuo da non distinguere più l’idea dal rutto, il progetto dall’incubo, la strada maestra da quella per l’inferno.
Cateno De Luca mostra con orgoglio le cicatrici del suo essersi fatto da solo a forza di spallate, colpi di teatro, ingiurie, graffi e sputi al potere. E in questa pantomima costruisce un personaggio che non le manda a dire, che spedisce affanculo chi non la pensa come lui, che dice quello che pensa (dire quello che si pensa è la cosa più facile del mondo, la vera prova di maturità è l’opposto, filtrare, progettare, ponderare, ma su Facebook non fa engagement). Basta poco per capire che questi non sono valori in politica. Non lo sono proprio per l’essenza della politica stessa e del rispetto delle istituzioni.
Il bello/brutto sarebbe che se mai De Luca fosse eletto dovrebbe comportarsi in modo opposto, affrontare una nemesi epocale. Rispettando chi non la pensa come lui. Filtrando le intemperanze personali per garantire quella cosa che si chiama democrazia. Garantendo personalmente per ogni minoranza: culturale, politica, sociale, geografica, economica. Governando per il Pipitone di turno insomma.
Perché sarebbe questo il suo compito più difficile e importante: ma forse dovevo scriverlo in maiuscolo per essere ben compreso.  
Sbraitare va bene e frutta sui social dove ci si trastulla con migliaia di adepti di cui alcuni pericolosamente fuori controllo. Tuttavia quando si deve decidere del destino di sei milioni di siciliani non basta un bicchierino di amaro e via andare: “Pipitone pezzo di merda; cesso di personaggio; ti cavo gli occhi; so con chi vai a cena, con chi fai le vacanze”.
Oggi c’è Pipitone, domani c’è qualcun altro che non gli piace.

La stampa siciliana gli ha apparecchiato la tavola. Lo dico da giornalista, da precario a quasi sessant’anni che non ha mai preso un cazzo di sussidio e mai vorrà prenderlo (non sono ricco di famiglia purtroppo), da professionista fuori da ogni giro di interesse più o meno trasversale.

Il Giornale di Sicilia, nello specifico, ha le sue colpe. Che si trascinano da quarant’anni in una serie incredibile di errori, di sottovalutazioni, di connivenze, di porcherie verticistiche mai espiate. È stato il giornale del garantismo peloso per eccellenza, della lettera della signora Patrizia contro Falcone che disturbava con la sua scorta, delle interviste in ginocchio, del potere oltraggioso sul controllo delle notizie, di Giovanni Pepi e della sua angusta visione del mondo elevata a sistema sociale. Ma – questo De Luca lo dimentica o non lo sa nemmeno – è stato anche il giornale di Mario Francese, di una redazione orgogliosa che pur di pubblicare le notizie le nascondeva al condirettore Pepi (proprio così!), di un manipolo di resistenti che oggi lavora con lo stipendio quasi dimezzato.
Il GdS è solo uno dei pilastri franati sui quali si è inscenato questo disastro. Il panorama desolante dei siti nati dalla bolla internettiana del 2010 (o giù di lì) andrebbe recensito non tanto con l’ottica del giornalismo, ma con quella del buon gusto. Tra marchette senza ritegno e sfilata di dilettanti allo sbaraglio, la differenza tra servizio e servizietto è pericolosamente vicina (e mi costa dirlo) alla visione deluchiana del giornalismo. Ma di questo, lo prometto, parleremo un’altra volta.     
Anche alla luce di tutto ciò Cateno De Luca ci ha messo anni a costruire un personaggio ad hoc per i social, con eccessi ben calibrati e ottima capacità di inventiva. Ha cantato, si è spogliato, ha urlato, ringhiato, blandito le folle affamate di urla, ringhi, violenza verbale.
Si è però distratto da un tema fondamentale, che probabilmente si confessa ma non ha il coraggio di affrontare, oggi a frana in corso.
Il suo elettorato.
Lo ha forgiato a sua misura e non è un bene: basta leggere i commenti sui social che il noto candidato brandisce come un fucile col colpo in canna. Sono tutti appesi alle sue parole, anzi alle sue minacce. È tutto un fiorire di incitamenti a fare la rivoluzione, a vendicare un popolo oppresso. Oppresso dal nulla di una violenza cieca senza la quale nulla, in quell’universo, può esistere.
Mi piacerebbe essere smentito, ma oggi come oggi il (dis)valore di uno come Cateno De Luca sta nell’aggressione, nell’offesa, nello storpiare il cognome dell’avversario (un’antica “tradizione” siciliana a partire da Totò Riina che additava “Caselle” e “Violanti” ai suoi followers ante litteram). Non è incapace di dibattere civilmente piuttosto, realisticamente, sa che non gli conviene. Perché senza la carne cruda del massacro verbale tra i denti è digiuno di argomenti.
E il suo desco purtroppo è affollato.      

P.S.
Ho seguito la diretta del suo comizio ieri a Mascali. Guardatela e provate a trovare un briciolo di programma. Niente. Solo offese e basta.

Brusca, la legge, la ragione

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Se c’è un caso in cui legge e ragione, morale e obiettività sono in maggior conflitto, è il caso di Giovanni Brusca. Parlarne non risolve certo gli attriti di coscienze che, come sabbia negli ingranaggi, rischiano di mandare in tilt il motore della buona creanza. Ma almeno serve a rendere meno tollerabile la tentazione di veder contrapposta la ragione di stato allo stato della ragione.

Il mafioso Brusca è stato scarcerato a norma di legge nel maggio scorso, proprio in uno dei mesi cruciali per gli effetti a lunghissimo periodo dei suoi crimini. Per via della sua collaborazione con la giustizia – e mai metter via la parola “pentito” fu caso più opportuno – è stato tirato fuori dalla cella nella quale era rimasto per 25 anni. Nei giorni scorsi Repubblica ha reso note le motivazioni per cui i giudici di Palermo hanno comunque imposto la sorveglianza speciale: in poche parole l’indole e la personalità criminali permangono, da qui la pericolosità sociale. Insomma Giovanni Brusca è sempre Giovanni Brusca, l’assassino che ha sciolto cadaveri nell’acido, ha fatto saltare in aria magistrati e poliziotti, ha strangolato con le sue mani un ragazzino, ha commesso e ordinato quasi duecento omicidi dei quali, in molti casi, non si ricorda niente. E quando l’assassinio diventa routine se non sei in un film, sei in un inferno. Un inferno nel quale oggi Brusca è demonio sorvegliato, ma a piede libero.

Si discute nei circoli polverosi dell’antimafia se non sia il caso, adesso, di seppellire una volta per tutte i nostri morti, di dare ai martiri l’onore della storia e toglierli dagli sbuffi banali della cronaca. Nobile intento, ma inaccettabile fin quando gli incubi del torturato saranno ancora i sogni del carnefice.  

Odiare una persona orribile

Mi è capitato più volte di difendere un diritto ancestrale, che è quello di odiare. Odiare non significa progettare vendetta o istigare alla violenza: significa manifestare un disprezzo netto, sancire un confine, strappare un foglio sociale. Da una parte io, dall’altra la persona odiata.

Ecco, ho letto a fatica la storia di questa Alessia Pifferi, la pseudomamma che ha lasciato morire la figlia di sete e di fame perché voleva spassarsela. E, io che non sono padre e che non lascerò traccia del mio passaggio su questa terra, ho sublimato il mio odio in questa orribile persona.

Sono certo che Dio può proteggerci dalle tentazioni più schifose e dalle pulsioni più abiette: non a caso lui è il migliore e noi siamo comunque suoi figli indegni. Ma se avesse un momento di distrazione e al suo posto prendesse il comando, tipo per le ferie, un suo vice, gli chiederei di distrarsi un attimo. Gli chiederei di affidare il caso Alessia Pifferi – ripeto donna orribile e vergogna di un’umanità senza vergogna – alle truppe più crudeli delle Guardie dell’Inferno. Magari trascinandosi appresso, e facendogli mangiare più fango possibile, anche quegli ignobili fratelli Bianchi che hanno ammazzato a calci e pugni un ragazzino dolce e inerme.

Ragionateci su.

La dittatura dell’opportunista

Ci lamentiamo dell’opportunismo doloroso che queste timeline alimentano. È una trappola nella quale tutti rischiamo di cadere. Data un’urgenza tutta nostra, si ritiene che la comunicazione immediata sui social con il suo fondamentale corredo di consolazione/partecipazione istantanea possa contribuire positivamente alla soluzione del caso (che può anche essere piacevole, il caso o la soluzione). Il difetto di questa comunicazione non comunicata è che nella maggior parte delle volte si tratta di un dialogo tra muti, o peggio tra scemi che si fingono scaltri per motivi che vanno dal profitto personale al rincoglionimento conclamato. Frasi tipo “Lo so che mi leggi e fai finta di non leggermi”, o “la vendetta è un piatto che tu non conosci bene perché io conosco te meglio di quanto tu conosca te stesso non sapendo che conosco anche chi crede di conoscerti meglio di me e non conosce né me né te…”, o peggio tutto il repertorio di citazioni amorose avanzato dai Baci Perugina o dalla più trita delle gif virali, costituiscono l’agar sul quale cresce non solo il gramignone del sentimento in saldo che vive e muore tra il primo e il secondo clic, ma il ben più insopportabile opportunismo doloroso. Insopportabile perché dal web si infiltra nella vita reale e contribuisce ad aggravare la seconda delle emergenze di questo pianeta, dopo il riscaldamento globale: il turbinìo dei coglioni.

L’opportunista doloroso (OD) incarna il paradigma di tutte le teorie sul saprofitismo sociale (e sull’arrembaggio ai cazzi nostri), dalle più antiche alle più recenti, fresche di reel, tweet, flash, post, story, sput (sput me lo sono inventato io, ma magari rende l’idea). L’OD è il primo a chiedere aiuto e l’ultimo ad arrivare per cena perché ha sempre una telefonata importantissima da chiudere, perlopiù con la persona causa dei suoi (e adesso anche nostri) problemi. Non si cura di nulla che non lo riguardi. Chiede un parere non per ascoltarci ma per fare una prova microfono del suo ego: ssa, ssa, un due tre…

L’OD non ci chiamerà mai quando è felice, cioè quando non ha un altro cristiano da crocifiggere con le sue cazzate/paturnie/richieste. Quando non ci avrà scassato la minchia nel cuore di una cena o mentre stiamo lavorando o mentre culliamo il nostro ego libero dalle ragnatele dei nemici della contentezza, scopriremo tramite il suo profilo social che il tramonto ultrafiltrato con cuori e colonna sonora di neomelodico preludeva all’ennesima delusione, con tanto di citazione (che andrebbe punita per legge) di Ada Merini sulla solitudine del folle e sull’immancabile felicità come arma di vendetta. Solo che la felicità è la nostra, prima di sentirlo, e la vendetta è la sua, dell’OD, nei confronti dell’unico vero nemico che gli tarpa le ali, gli taglia la strada, gli toglie il respiro, gli causa stitichezza, gli anima i polpastrelli e gli chiude il portafoglio. Perché l’OD non paga mai di tasca sua, preso com’è dai suoi problemi esistenziali: il marito, il fisco, la moglie, i figli, il capocondominio, il datore di lavoro, la suocera, l’amico, la puttanona, il toyboy, il collega, il sodale, il follower, che lo hanno scoperto. L’OD è fondamentalmente un fesso che crede di poter farla franca in eterno solo perché nessuno ha ancora avuto la pietà di dirgli, magari a favore di smartphone, che ha rotto i coglioni.
Li ha rotti a noi e alla sua platea di cerebrolesi che cliccano “mi piace” anche sull’ennesima gif con gli uccellini che gli girano intorno alla faccia inguianata in un filtro che lo fa sembrare la Sindone senza il lenzuolo.
E quando ci ritroveremo, dopo anni di rospi mandati giù tipo Alka Effer e tavoli che si innalzano sulle nostre gambe per le controindicazioni di una pazienza al limite dell’esplosione della patta, ad aver bisogno di lui perché abbiamo smarrito qualcosa – che sia una chiave di casa o il senso di un momento sarà il caso a stabilirlo –, proveremo a cercarlo e, pensate un po’, non ci risponderà. Perché sarà impegnato nella sua riscossa sentimentale di mezza settimana, a postare frasi tipo “L’amore non guarda con gli occhi ma con l’anima”, con Shakespeare che nella sua tomba si rivolta tipo Salvini davanti a un cocktail sbagliato del Papeete.

E allora ci incazzeremo e scriveremo un post, tweet, flash, sput, come questo. E gli augureremo la morte. Della connessione.

Non ci fu niente

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Quindi questo depistaggio non fu manco roba di quattro amici al bar. Ed è un peccato che l’ex questore La Barbera e l’ex procuratore Tinebra siano morti senza veder riconosciuta la storica importanza del loro operato con adeguata medaglia di innocenza. L’ennesima innocenza in quella che credevamo fosse una nefanda macchinazione e che invece, stando alla giustizia italiana, è solo un’illusione ottica. Forse, di questo passo, potremmo scoprire che manco i morti erano morti e che il giudice Borsellino e gli agenti della sua scorta non sono stati dilaniati da un’autobomba, ma semplicemente inghiottiti da un buco spazio temporale di Stranger Things. Lo stesso buco che ha risucchiato, annullandole, le responsabilità dei magistrati coinvolti in questo gioco di prestigio – dove dal cilindro si tirano fuori pentiti come conigli – salvando però le loro carriere.

Alla fine scoprimmo che nessuno depistò o se lo fece fu a fin di bene: per porgerci una verità semplice, comoda, prêt-à-porter. Lo stesso Scarantino andrebbe ringraziato per lo spirito di sacrificio con cui ha interpretato il ruolo del provetto pentito: una via di mezzo tra un pupo di Mimmo Cuticchio e l’”Allegro chirurgo” che dove lo tocchi suona. Insomma tutti i protagonisti del depistaggio della strage di via D’Amelio, presenti o assenti, prescritti o coscritti, con distintivo o senza, vanno omaggiati per lo spettacolo avvincente e per la passione con cui continuano a recitare anche a show terminato. Purtroppo i morti non possono applaudire, ma restano i parenti delle vittime a sbracciarsi per loro. A brancolare in una vicenda di cui non gliene frega niente a nessuno, nel mainstream che elargisce successi di critica e di pubblico a chi nega la realtà e che stronca chi la afferma.
Non ci fu niente.

Like come voti? Macché

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

È vero che l’unione fa la forza, ma è anche vero che ci sono forze che unite si annullano a vicenda. Prendete il caso di Francesca Donato che per la sua corsa a sindaco di Palermo aveva riscosso l’appoggio dell’ex pm Ingroia e del comunista Rizzo, ma soprattutto aveva goduto dello straordinario endorsement di Heather Parisi e Alessandro Meluzzi. Risultato: poco più di seimila voti e lista a picco. Eppure la storia della signora Donato non è soltanto un paradigma di alleanze sul tema del negazionismo applicato alle cose della vita – che sia un virus o una strage di ucraini è un dettaglio di mera contingenza di cronaca – ma anche l’occasione per collocare il virtuale nel suo alveo naturale: che è appunto quello di atto non in atto, opposto alla realtà (o peggio suo surrogato).

Finora la migliore prova di fisicità delle sue idee la signora Donato l’aveva data in tv. Ma certe comparsate televisive in cui si discetta, per di più urlando, di ciò che è discettabile solo perché si è forniti di corde vocali annodate a una perigliosa dose di tesi alternative non sono garanzia di nulla, al netto di una complice audience post pandemica.

Poi ci sono stati i social. I like a migliaia, gli applausi digitali ai suoi post non erano promesse di voto, così come non lo erano per altri candidati di ogni schieramento che avevano respirato aria di vittoria a ogni cuoricino luccicante o pollice in su. Perché, oggi domani e sempre, che sia elezione o relazione, fallace è l’emozione da emoticon. E perché il filtro tra promessa e voto, tra polpastrello e cuore è quella cosa che alcuni chiamano reticenza e altri chiamano coscienza.

A cena coi negazionisti

Mi è successo molte volte nella vita. E ne parlo adesso perché ci sono cose che chissà perché sedimentano negli angoli meno importanti della nostra memoria e poi, tutto a un tratto, si presentano all’appello come un amico non invitato che arriva per cena.
Proprio di cena parliamo.

L’invito a cena con negazionista.

Mi è accaduto nei secoli dei secoli, sempre a tradimento, di ritrovarmi in situazioni paradossali con commensali conosciuti al momento. Sia a casa di altre persone che, peggio ancora, a casa mia. Sapete come funziona: fai un paio di inviti e poi l’amico/a di turno ti dice “porto una coppia di amici miei, sono simpaticissimi”.
Ecco, quel “simpaticissimi” può essere un importante campanello d’allarme. Una via di mezzo tra una excusatio non petita e un’insana pulsione per la carrambata.
Insomma gli “amici simpaticissimi” sono quelli che, appena arrivati in un ambito di cui non sanno nulla (del luogo, dei padroni di casa, delle storie di chi c’è) mettono in discussione pure il lievito del panino che hanno addentato. “Eh, tu che ne sai come lo fanno…”. La dittatura del lievito o, se volete, il lievitogate.
Per esperienza ho coscienza che quello sarebbe il momento in cui si dovrebbe prendere in mano la propria vita, con relativo soprabito, girare sui tacchi e fuggire. Ma sempre per esperienza so che nessun abitante sul pianeta terra ha il fegato di ammazzare sul nascere una serata tra amici solo per una (seppur lucidissima) intuizione.

Quindi si va avanti verso il baratro.

I “simpaticissimi” passeranno rapidamente in rassegna i temi di cronaca prima ancora che l’antipasto sia stato consumato. Sceglieranno l’argomento più chiaro, univoco, noioso – cronaca, politica, sport, economia, non hanno ritegno pur di caricare a pallettoni la loro arma sparaminchiate – e inizieranno a perforare i vostri coglioni con una serie di dubbi che solo a loro suscitano una vibrazione, mentre per la restante parte del genere umano al limite si perdono nell’alito di uno sbadiglio all’aglio del crostino appena addentato.
Poi passeranno alla parte più crudele del loro piano. Entrare nelle vostre competenze professionali, penetrarle selvaggiamente, stuprare le vostre certezze universitarie o comunque frutto di studi, sbrindellarle come carta igienica a tre veli sotto un getto d’acqua: e dichiarare a muso duro che non avete capito un cazzo di ciò che in realtà potreste insegnar loro. Lo faranno guardandovi negli occhi e contando sul fatto che il coltello del burro che avete in mano è stato fabbricato dall’altra parte del globo quindi dato che la terra è piatta quel coltello non esiste. Qui gli va riconosciuto un certo coraggio, ma del resto l’incoscienza è l’arma atomica dei cretini.

Infine i “simpaticissimi” si cureranno di lasciare la (s)cena del delitto pulita, senza prove. Se vi hanno rincoglionito con la storia di un poliziotto loro amico che conosce la vera identità del superlatitante più ricercato al mondo ma che non può rivelarla a nessuno perché nessuno gli crederebbe dato che il poliziotto in questione è un no vax agguerrito (raro caso di complottista che non si ribella a un complotto), e  voi boccheggianti gli chiedete un dato certo, un contatto, un sospiro di realtà tangibile, loro vi rispondono che non possono dirvi altro. Per il vostro bene.
Ripeto: per il vostro bene.
Cioè loro non solo vi illuminano, ma vi salvano anche. Messia scansate insomma.

Alla fine quando ve ne tornate a casa però li ringraziate e vorreste abbracciarli anche se non li avete più a tiro di minchiata, anche se avete la certezza che li avete salutati con calore proprio perché il vostro era un addio. Perché i “simpaticissimi” vi hanno dato una lezione fondamentale: conoscere significa sempre dubitare, dubitare sempre non significa conoscere. Dubitare senza aver interesse di conoscere rompe i coglioni e fa andare di traverso la cena.
Ma salutiamoci così affettuosamente, cari complottisti. Tanto la terra è piatta e non gira e quando voi avrete conquistato un angolino, tipo in alto a destra, noi saremo al margine del tabellone, tipo in basso a sinistra.
(Noi da anni lo chiamiamo Risiko, ma è bene non farglielo sapere ai “simpaticissimi”: per non  turbarli).  

Le elezioni e il fattore C

L’altro giorno ho pubblicato sui social questo post, a proposito dell’appoggio di personaggi con precedenti penali pesanti a candidati a sindaco nella mia città, Palermo.

Se incontro Totò Cuffaro per strada lo saluto, così come lui saluta me. Se capita ci scambio pure quattro chiacchiere perché è persona con la quale può essere piacevole conversare. Anche di politica ovviamente. In passato ho scritto cose molto dure nei suoi confronti ma mi è capitato anche di difenderlo quando mi è sembrato che fosse il caso: siamo uomini e mai la nostra dignità deve essere calpestata, mai. Però se oggi lui mi offre il suo appoggio per una mia candidatura politica lo ringrazio ma mi guardo bene dall’accettarlo: è molto semplice.

Nei commenti contrari, tutti peraltro civili a conferma che ognuno ha le timeline che si merita, prevale la seguente tesi: siccome Cuffaro e Dell’Utri (i due personaggi in questione) hanno espiato la loro pena, adesso sono liberi di esprimere il loro pensiero, democraticamente. Il che è giusto e non collide con la mia tesi.
Il problema è facilissimo da intuire, complicatissimo da esporre senza cadere nelle trappole del qualunquismo o del cosiddetto fascismo di sinistra, roba dalla quale cerco di tenermi lontano da sempre.
È provato che questi signori hanno interagito in modo non occasionale con la mafia. Ed è intuibile che una fetta del loro elettorato sia riconducibile a quegli ambienti. Del resto lo stesso Cuffaro ha dichiarato a Repubblica: “Ai candidati chiedo che facciano esattamente il contrario di quello che ho fatto in passato. Non clientele, non prebende, non rapporti che possono rivelarsi pericolosi”. Un elettorato che quindi era in parte di clientele, di prebende, di rapporti pericolosi.
È questo il punto. Io posso credere nel ravvedimento di Cuffaro (di Dell’Utri niente so in tal senso) e posso apprezzare i suoi sforzi di riabilitazione, di concentrarsi su ciò che prima guardava con distrazione (a voler essere benevoli). Ma non penso che in un candidato sindaco che dovrebbe rappresentare il nuovo (senza ridere, eh!) ci dovrebbe essere spazio per mere questioni di numeri: prendersi gli elettori potenziali di Cuffaro, chiunque essi siano.
Perché gli “elettori di Cuffaro chiunque essi siano” non possono avere ancora la possibilità di indirizzare la politica di questa città già massacrata e sconfitta. C’è una base elettorale di Cuffaro seria e onesta che capirebbe da sola a chi dare il proprio voto, senza il placet di nessuno e senza suggerimenti dell’ultima ora. La vera politica non ha bisogno di ammiccamenti e ruffianerie: è immediata come un pensiero dritto, convincente come un semplice ragionamento di buon senso. Dici qualcosa nel presente che mi piace nel futuro, che fa bene a tutti senza oltraggiare il passato: e io ti voto.
La memoria non si evoca e non si sbandiera a convenienza, si usa e basta.

Via D’Amelio e la verità monca

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

È una sgradevole sensazione quella che ci prende quando ascoltiamo parole appassionate come quelle del pm Luciani che al processo di Caltanissetta tiene la sua requisitoria contro i poliziotti accusati del depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. È sgradevole non solo perché l’idea, la sola idea che uomini delle forze dell’ordine abbiano tramato per deviare l’inchiesta sulla morte di loro colleghi è urente come una coltellata in un corpo già ferito. Ma anche perché ci ricorda che quella che si sta ricostruendo con un ritardo inammissibile, proprio nel trentennale quell’eccidio, è una verità monca. Chiediamocelo senza infingimenti, come del resto fa da anni Fiammetta Borsellino: è mai possibile che il più grande depistaggio d’Italia sia stato orchestrato da quattro poliziotti senza che nessun magistrato si sia accorto di nulla? O meglio: è mai possibile che chi doveva controllare la regolarità delle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia non lo abbia fatto e oggi se la passi liscia, senza manco una ramanzina?

Il sistema che ha mandato in tilt le indagini sulla strage Borsellino per 16 anni e che ha condizionato trent’anni di processi non può dipendere esclusivamente dalla libera iniziativa di un manipolo di uomini dello Stato: ce lo dice la logica. La realtà processuale che certifica implicitamente un “liberi tutti” per quei magistrati che potevano fermare in tempo le mefitiche panzane di Scarantino non può bastare per sanare la sete di verità dei familiari delle vittime e di tutti gli italiani che hanno a cuore la certezza del diritto: ce lo dice la buona creanza.
Via D’Amelio ci insegna che un megafono non parla da solo. C’è sempre una voce dietro. E finora ci hanno voluto far credere che a parlare siano stati solo i fantasmi.

Poveri turisti!

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

C’è un boom del turismo che fa ben sperare in questa Sicilia che brilla di luce propria, nonostante tutto. Quest’anno si prevedono un milione di arrivi solo per le crociere e ci sarebbe da gioire se all’orgoglio per una ripresa possibile si accompagnasse anche un moderato senso di responsabilità.
Perché quel “nonostante tutto” è un fattore di rischio ben noto a queste latitudini. La politica distratta e menefreghista ha usato l’arte e la cultura – che, ricordiamolo, sono il volano di una rinascita economica reale – solo per passerelle elettorali o per pasturare greggi di clientele. E per fare ciò ha impiegato il metodo della elargizione delle molliche: io ti do meno del minimo in modo che la tua fame diventi dipendenza. Si veda ad esempio lo stato dei teatri a Palermo. Inoltre nel tempo si è andata concretizzando la balzana idea che il turismo sia un settore come un altro, che va trattato da burocrati con convincimenti puramente ragionieristici. Insomma che sia festival di musica sacra o sagra del corbezzolo poco importa: lo stanziamento guarda al bacino elettorale più che alla qualità del prodotto e alla sua audience. Badate bene, anche la sagra ha il suo appeal. Ma solo se inserita in un contesto in cui arte, cultura e tradizioni stanno ognuno al proprio posto, degnamente, senza schiacciarsi i piedi a vicenda. Proprio perché entriamo nel vortice delle elezioni va detto chiaramente che, se non si cambia radicalmente ottica, il rischio è quello di continuare a considerare i turisti come un sottoprodotto della circolazione delle merci: veri bancomat ambulanti che, inconsapevoli, cadono nella trappola di andare a meravigliarsi di ciò che è sciatto e banale.