Brusca, la legge, la ragione

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Se c’è un caso in cui legge e ragione, morale e obiettività sono in maggior conflitto, è il caso di Giovanni Brusca. Parlarne non risolve certo gli attriti di coscienze che, come sabbia negli ingranaggi, rischiano di mandare in tilt il motore della buona creanza. Ma almeno serve a rendere meno tollerabile la tentazione di veder contrapposta la ragione di stato allo stato della ragione.

Il mafioso Brusca è stato scarcerato a norma di legge nel maggio scorso, proprio in uno dei mesi cruciali per gli effetti a lunghissimo periodo dei suoi crimini. Per via della sua collaborazione con la giustizia – e mai metter via la parola “pentito” fu caso più opportuno – è stato tirato fuori dalla cella nella quale era rimasto per 25 anni. Nei giorni scorsi Repubblica ha reso note le motivazioni per cui i giudici di Palermo hanno comunque imposto la sorveglianza speciale: in poche parole l’indole e la personalità criminali permangono, da qui la pericolosità sociale. Insomma Giovanni Brusca è sempre Giovanni Brusca, l’assassino che ha sciolto cadaveri nell’acido, ha fatto saltare in aria magistrati e poliziotti, ha strangolato con le sue mani un ragazzino, ha commesso e ordinato quasi duecento omicidi dei quali, in molti casi, non si ricorda niente. E quando l’assassinio diventa routine se non sei in un film, sei in un inferno. Un inferno nel quale oggi Brusca è demonio sorvegliato, ma a piede libero.

Si discute nei circoli polverosi dell’antimafia se non sia il caso, adesso, di seppellire una volta per tutte i nostri morti, di dare ai martiri l’onore della storia e toglierli dagli sbuffi banali della cronaca. Nobile intento, ma inaccettabile fin quando gli incubi del torturato saranno ancora i sogni del carnefice.  

Sicuro meno di duecento

Il tema è complicato perché incrocia le coordinate più roventi, quella della crudeltà sui bambini e quella della vendetta feroce per un crimine così feroce. Ieri, 25 anni fa, un bambino, Giuseppe Di Matteo (qui la sua storia) veniva strangolato da uomini disumani agli ordini del capo dei disumani, Giovanni Brusca. Oggi molti di questi delinquenti sono collaboratori di giustizia. Brusca, uno che non ricorda neanche quanti omicidi ha commesso (“molti più di cento, sicuro meno di duecento”, ha ammesso serenamente), rischia di uscire nel prossimo autunno. Lo dice la legge, mica un redivivo Carnevale o qualche sentenza aggiustata.

E siamo al punto cruciale. Il semplice rispetto delle regole, delle norme che guidano il nostro vivere quotidiano, possono acquietare la rabbia e l’angoscia di una simile aspettativa? L’idea che un mostro che ha fatto strangolare un bambino (qui la testimonianza della bestia che partecipò all’omicidio) torni libero è compatibile con una visione serena e civile dello Stato di diritto? Sicuramente no, così come nessuno – neanche un mahatma o un dio – possono vietare di odiare chi merita di essere disprezzato, allontanato, negato addirittura nella sua umanità. Non si risolve tutto coi codici, non ci si salva l’anima mettendole la sordina. Abbiamo più volte dibattuto sul diritto di non perdono e su quell’ancora di salvezza che la rabbia composta, argomentata, rappresenta quando i mostri del passato non si dissolvono e anzi si ripresentano col volto peggiore dei loro infami ispiratori. Io odio Giovanni Brusca non soltanto per i “sicuro meno di duecento” morti sulle spalle, ma per averci messo dentro, a casaccio, un giudice, un bambino, una madre, e via assassinando: morti su morti, non conta chi, non conta quando, non conta come… Unica certezza: meno di duecento.

È l’orribile casualità del male nel quale Brusca ha scelto di vivere, che lo rende un essere immondo (senza giri di parole). Che poi gli sia concesso di vivere più o meno comodamente è un dettaglio che il mio diritto di non perdono non considera. Per me un uomo così è già morto, straziato nella mia considerazione sociale, dilaniato dalla vergogna di non essere mai stato sfiorato da un vero ravvedimento. L’importante è non ritrovarselo in tv a riannodare i ricordi di una smemoratezza nefanda.