L’articolo pubblicato sul Foglio.
Ha viaggiato dal Regno Unito alla Norvegia, dagli Usa alla Russia e al Libano. Ha incontrato, tra gli altri, un uomo che minaccia di uccidere gli immigrati, una ragazza che ce l’ha a morte con Lady Gaga, un sostenitore di Trump che vorrebbe Hillary Clinton in cella e una russa secondo la quale c’è un piano dei gay per conquistare il mondo. Kyrre Lien, giornalista che vive a Oslo, ha indagato per tre anni sull’odio in rete. Coi risultati della sua inchiesta ci ha fatto un documentario intitolato “The internet warriors” cercando di discutere con “persone che passavano ore e ore a scrivere commenti online” una delle quali, una sorta di recordman, ne aveva postati più di mezzo milione. Da questa esperienza Lien ha tratto due profili di haters: “Quelli che odiano perché sono disoccupati e hanno tanto tempo a disposizione o perché hanno un livello culturale molto basso, e quelli che in qualche modo si sentono trascurati”.
Sin qui tutto straordinariamente normale, come normale è la trazione cardanica delle frustrazioni nell’anno di grazia 2018 e straordinario è il boost di carburazione dei social network.
L’èra dell’odio, che ormai ben conosciamo come la cicatrice di un’operazione andata così così, ha due chiavi di lettura non contrapposte. La violenza, cioè l’atto finalizzato a produrre danno agli altri, che è reazione a un fatto o a una situazione e che, ad atto compiuto, tende a decadere. E la distruttività, che induce a sparare alla cieca anche contro chi impugna l’arma, e che si trova in abbondanza tra i trolls e gli haters del web: gente ispirata da un moto distruttivo che non si cura, o forse addirittura si compiace, di essere riconoscibile.
La cattiveria è il collante politico, e di successo, in questo sistema in cui la vera rivoluzione digitale è quella affidata al dito di Matteo Salvini che con un tweet, e non con un provvedimento certificabile, chiude i porti italiani e apre le frontiere della Nuova malvagità democratica. E non è un caso che piaccia agli italiani (più della metà dei nostri connazionali ha approvato la linea salviniana sulla vicenda Aquarius) questo cattivismo manifesto, celebrato come un gesto necessario per la salvaguardia del bene comune. Qui il bene (più o meno comune) e il male (più o meno comune, a dispetto del mezzo gaudio) hanno perso l’antica spinta di contrapposizione. Nel web, come lo conosciamo adesso, quando arrivano i nostri non si suona la carica, ma spesso si batte in ritirata. Perché la carta vincente ha a che fare con lo scollamento di una buona parte dell’opinione pubblica dalla realtà più complessa e dolorosa di messaggi come quelli del leader della Lega e ministro dell’Interno. E non si tratta del radicalismo di certe posizioni antiumanitarie e discriminatorie, ma della mistificazione e dell’annientamento dei fatti. Un esempio ormai consegnato alla storia minima dei nostri giorni: quando Salvini dice che chi era sull’Aquarius era in crociera, dice una cosa falsa, oltre che grottescamente fastidiosa. Su tutto si può discutere, sull’Europa, sulle politiche di accoglienza, sulla sorveglianza armata dei nostri mari, sulla fantomatica chiusura dei porti, persino sulla violenza di certe idee contundenti. Ma non su ciò che non è, sull’ontologicamente falso. L’Aquarius non faceva una crociera e i disperati che stavano a bordo non erano turisti gaudenti. Lo sanno anche i troll e gli odiatori, ma la congruenza del messaggio cattivo supera la sua veridicità. Del resto un tempo si pensava che le persone peggiori fossero quelle che sanno quali tasti toccare per far male, schiacciandoci sopra tutto il peso della loro cattiveria, mentre oggi si sa che il dolore prodotto da quei tasti è solo un effetto collaterale di un potere che si alimenta di shock e costruisce un futuro sulla demolizione delle certezze. Oggi il modello vincente del cattivismo salviniano, che dal web prende spunto e grazie al web si sostenta, è quello del linguaggio di un ministro che sorride nella raffica di selfie e spara battute come un liceale in gita d’istruzione sfuggito al controllo dei professori.
Alla fine degli anni ’60 Ronald Reagan, allora governatore della California, definiva così gli hippies: “Persone che portano i capelli come Tarzan, camminano come Jane e puzzano come Cita”. Era l’epoca in cui la politica marcava le differenze di linguaggio dal popolo, dandosi un ruolo forzatamente snob nell’interpretazione di tutto ciò che fosse popular. Accadeva nei lontani States come in Italia, dove erano i cittadini che dovevano adeguarsi ai codici di comunicazione dei potenti: fondamentale fu, ad esempio, il ruolo della televisione italiana nel riunificare in un’unica lingua un Paese che veniva dal caleidoscopio dialettale del Dopoguerra. Reagan sbagliava in tutto sugli hippies, e lo testimoniò quella che doveva essere solo una stagione (la famosa Summer of Love) e che invece fu un’epoca. Come dimostrarono i tempi, non ebbe lungimiranza, non ci fu una visione strategica neanche per contrastarlo, quel movimento. Oggi c’è un processo inverso: sono i nuovi politici a plasmare il loro linguaggio su quello, feroce, del mondo dei social. Foto a effetto, battute da caserma, aggressioni verbali, assedio al nemico a colpi di hashtag sono le nuove armi di una classe politica che da destra a sinistra, dagli Usa all’Europa ha abbandonato il ragionamento. E che vince. Vince dovunque con la forza della peggiore cattiveria, quella non solo praticata ma addirittura ostentata. E in questo Salvini è un campione tristemente riconosciuto a livello mondiale. “Il leader della Lega usa ancora i toni della campagna elettorale, parla alla pancia del suo popolo, agli istinti più bassi” ha scritto Oliver Meiler su “Süddeutsche Zeitung”, “nessun ministero può offrirgli palcoscenico migliore di quello dell’Interno”.
Sul “Guardian” il linguista George Lakoff ha spiegato, usando una logica universale quindi applicabile a molte altre realtà come quella italiana, perché “Trump ha trasformato le parole in armi” e perché “sta vincendo la guerra linguistica”. Il concetto cardine è che “il linguaggio può dar forma al nostro modo di pensare, e Donald Trump questo lo sa”. Nello specifico l’ampio ricorso a iperboli positive (“great!”) e negative (“disaster!”) hanno il solo scopo di raccontare una realtà, quella della Nuova malvagità democratica, in cui il vincitore e il perdente sono due classi sociali diverse. Una vera gerarchia morale, secondo Lakoff poiché “coloro che vincono sono migliori di quelli che perdono”. Le mosse di Salvini che da ministro dell’Interno attacca un privato cittadino come Roberto Saviano o che a proposito dei barconi dei migranti dice che “la pacchia è finita”, si iscrivono in questa logica. E guai a tentare di ragionare o di smentire. “Parlare di pericolo di fake news è una fake news”, ha detto pochi giorni fa il sottosegretario all’Editoria, il pentastellato Vito Crimi, consegnando le sorti dell’informazione italiana ai portatori dei megafoni del potere.
Tutto ha un senso e nulla è affidato al caso. Basta esaminare i tweet di Salvini, cioè in questo momento l’unico efficace strumento di governo in Italia. Per analizzarli è utile il metodo usato da Lakoff per Trump.
C’è il cosiddetto framing preventivo cioè dare un’interpretazione dei fatti su una specifica questione, senza lasciare all’opinione pubblica il tempo di sviluppare una propria idea. Esempio: “È in corso un chiaro tentativo di sostituzione etnica di popoli con altri popoli”; “Non c’entrano guerre, diritti umani e disperazione, è semplicemente un’operazione economica e commerciale finanziata da gente come Soros”.
C’è il diversivo che tende a sviare l’attenzione da temi delicati che potrebbero erodere il consenso. Esempio: “Ottimo pranzo a bordo del volo militare di oggi: cotoletta e patatine! Buona cena, amici”, al ritorno dalla missione in Libia dove il governo libico ha rifiutato categoricamente la proposta di realizzare campi per migranti nel suo territorio.
C’è la deviazione che sposta la responsabilità di un atto sugli altri. Esempio: gli 800 migranti morti quest’anno in mare sono colpa “di scafisti e buonisti”.
E c’è ballon d’essai per sondare come il pubblico reagisce a un’idea. Esempio: il censimento dei Rom.
Tutta la comunicazione salviniana è imperniata su queste quattro regole poiché, al contrario del buonismo che ha molte, troppe sfumature e che infatti perde spesso l’appiglio con la cronaca per galleggiare sui massimi (e imperscrutabili) sistemi, il cattivismo è cubico, codificato, rigido. Il cattivo moderno, quello che digita ancor prima di respirare, vive in perenne stato di guerra e non riesce a immaginare un mondo diverso. Senza attaccare muore, senza un nemico si squaglia, senza un’arma deperisce. Il risultato è non solo il dominio assoluto sulle terre emerse della democrazia e sugli abissi della rivoluzione digitale, ma anche il compostaggio dei sentimenti che non siano parenti dell’odio: persino il pianto dei bambini separati a forza dai genitori immigrati illegalmente negli Stati Uniti, cioè qualcosa che in altri tempi avrebbe scalfito un cuore di pietra, viene bollato dal sommo tribunale del web come “spazzatura buonista”.
Oggi il trionfo del cattivo si celebra anche dinanzi a una sua evidente sconfitta. È tutta una questione di linguaggio, non contano i fatti ma la maniera di rappresentarli. Quando Lavinia Cassaro, la maestra licenziata dopo aver urlato alle forze dell’ordine “dovete morire” durante una manifestazione antifascista, ha provato a spiegare cosa c’era dietro quella frase, ha involontariamente fatto un affresco impressionante di quest’epoca senza parole definitive, senza punto e a capo. “Quella frase non era un augurio e neanche una minaccia”, ha detto “ma un’affermazione. Dopotutto è il destino degli esseri umani”.
Qualche anno fa mi capitò di essere ucciso sul web. In pratica la mia voce su Wikipedia fu ripetutamente manomessa con informazioni false. Tipo che ero morto per overdose di droga a casa di una non meglio identificata amica romana e via diffamando. Il colpevole era un tale che non conoscevo, che non viveva nella mia città, che non si era nemmeno dato la pena di cancellare le sue tracce telematiche (proprio lui che, come si apprese dopo, si professava esperto informatico). Al processo non è mai venuto e non si è fatto rappresentare da un avvocato di fiducia. Condannato, non ha manco proposto appello. Si è beccato una pena definitiva senza fiatare, senza spiegare perché aveva compiuto quel gesto di cui solo lui conosce il motivo d’ispirazione, senza neanche prendersi la soddisfazione del pubblico martirio per una cattiveria gratuita, la più ricercata al giorno d’oggi. Niente. Probabilmente, come accade spesso, la chiave di un misfatto moderno sta in una raffigurazione del passato. “Gli uomini diventano cattivi e colpevoli perché parlano e agiscono senza figurarsi l’effetto delle loro parole e delle loro azioni. Sono sonnambuli, non malvagi”. È Franz Kafka. C’è persino su Google.