Speriamo che non piova

Intervistato dai lettori di Corriere.it, Roberto Saviano declina l’invito a scendere in politica dicendo che “oggi non c’è spazio per una politica pulita”. Il che equivale a guardare il cielo e a controllare il portafoglio.

E’ la politica, bellezza

Si lavora alla nuova giunta di centrodestra della Campania.
Stando alle indiscrezioni del Corriere del Mezzogiorno, le papabili per un posto di assessore sono:

Giovanna Del Giudice, ex meteorina (quattro puntate) del Tg4;

Emanuela Romano, presidente del comitato “Silvio ci manchi” da lei fondato nel 2006. Nel suo sito spicca la qualifica di dott.ssa (è laureata in Psicologia, ma soprattutto ha fatto un bel master a Publitalia) e nulla si dice, con grande modestia, del notevole titolo di Miss Deborah Campania 1998;

Maria Elena Valanzano, giovane avvocato, ma soprattutto sorella di…

…Benedetta Valanzano, “star di Ballando sotto le stelle”, come recitano le cronache locali.

A Mara Carfagna, ministro per le Pari opportunità e candidata più votata in assoluto alle recenti regionali,  è affidata la regia politica delle operazioni.

Uè, è tutto vero!

Micciché uno e due

Gianfranco Miccichè sul suo blog attacca Giuseppe Castiglione (che non può difendersi telematicamente, perché il suo sito è fuori servizio).
Passa qualche minuto e Micciché ci ripensa: propone un’altra versione, molto ma molto più edulcorata, del suo pensiero.
Però su internet le ciambelle non hanno buchi. E le tracce restano.
Ecco il primo Micciché pensiero (cliccateci sopra per leggerlo).

E il secondo, quello che è online adesso.

Da ammirare l’esercizio di stile: capriola, avvitamento, altra capriola e ingresso in acqua perfetto.

La terra dei cannoli

Pare che anche il governatore della Sicilia Raffaele Lombardo abbia qualche noia con la giustizia.

Cari lettori, non siamo fessi

Sembra che il dato rilevante di queste elezioni sia la scarsissima affluenza alle urne.
Se fossi il direttore di un giornale proibirei di titolare su questo elemento (mentre vedrete che oggi i quotidiani lo porranno in evidenza) a meno che non ci fosse una postilla in prima pagina: “Cari lettori, non siamo fessi”.
Perché stupirsi (quindi farne una notizia) di un evento abbondantemente annunciato è un po’ da ingenuotti.
Se tu non spieghi alle persone cosa accade se vanno a votare – ergo se non dai modo ai candidati di esporre i programmi – perché mai le suddette persone dovrebbero andare a votare?
Se il premier evita qualsiasi confronto diretto con il capo dell’opposizione sui temi cruciali della competizione elettorale e poi, previo blocco dei programmi sgraditi, fa un comizio a poche ore dal voto sui principali telegiornali nazionali, perché mai un cittadino dovrebbe appassionarsi a una storia già scritta, una musica già suonata, un film già vecchio?
La scarsa affluenza alle urne – ma potrei sbagliare – è il risultato aritmetico dei colpevoli menefreghismi (endemici) e di un’ignoranza endemica (colpevole).
Tutto previsto, tutto noto, come marzo pazzo, come trenta dì conta novembre e come natale con i tuoi.
Solo che a Capodanno con chi vuoi i giornali non dedicano il titolo di apertura, senza opportuna postilla che spieghi (non so come): “Cari lettori, non siamo fessi”.

Amore e dintorni

Smettiamola con ‘sta storia del partito dell’amore. Quello vero era una cosa meravigliosamente insulsa.

P.S.
Il titolo del post sembra ispirato a una rubrica del Gds, lo so. Chissà… magari lo prendono come un suggerimento.

La colpa è di Franco Viviano

Dunque abbiamo trovato il colpevole. Se l’Italia si ritrova a discutere di un premier che smanetta col telefonino per cercare di mozzare le teste dei giornalisti televisivi che non gli piacciono, la colpa è di Franco Viviano.
La visione berlusconiana  della vita spinge a considerarlo un malfattore che ha sottratto fraudolentemente un fascicolo da un ufficio di una procura, per darne conto sul suo giornale.
La visione non berlusconiana lo identifica invece come un cronista che fa il suo mestiere: cioè raccogliere notizie che dovrebbero restare nascoste e renderle pubbliche come deontologia comanda.
So già come finirà.
Prevarrà quella stramba giurisprudenza sociale che in Italia vuole sugli altari chi commette il reato e nella polvere chi lo denuncia (anche a rischio della propria incolumità).
Tra qualche anno ai sopravvissuti di questa follia istituzionale travestita da trionfo della democrazia si potrà raccontare che nell’anno 2010 era giustificabile compiere un piccolo reato (come sottrarre un fascicolo dal tavolo di un giudice “benevolmente” distratto) pur di smascherare colui il quale pretendeva che i propri reati fossero, per decreto, cancellati. O, peggio, caricati sul groppone altrui.
E si dovrà ammettere senza moralismi che le fedine penali al lordo delle rivoluzioni non sono mai candide.

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Chiedere al presidente della Repubblica italiana di combattere con tutto il suo peso istituzionale le scelte dissennate di un esecutivo ebbro di onnipotenza è una follia.
E ciò per due motivi.
Primo. Il ruolo del capo dello Stato è – come molti esperti tra voi mi insegnano – rappresentativo e poco influente.
Secondo. Giorgio Napolitano è un maestro nell’arte dell’ovvio. Un acrobata da cintura Gibaud e sandali del dottor Scholl. Il presidente di tutti gli italiani, ma soprattutto di quelli sonnambuli.
Basti notare come  ha “fatto irruzione” (le virgolette non stanno lì a caso) nel gran casino delle indagini di Trani: “Rispettare le indagini e le ispezioni” ha detto dopo averci pensato su una settimana. Che è come dichiarare che il pane fa bene ma fa anche ingrassare. O che il mattino ha l’oro in bocca ma che dormire fino a tardi è una goduria. O che il freddo secco è un’altra cosa rispetto a quello umido.
Non c’è niente da fare.
Nonostante il cliché che i giornali riesumano in questi casi (monito di Napolitano), nel migliore dei casi il Presidente suscita uno sbadiglio. Nel peggiore – almeno nel mio caso – stimola una riga che però leggerete censurata: kjahfq§owiu*hywp°ofkn#mv.cnçzx[v,mzbx%fh$jasGD£HJ=§vz.

Dottore

Perché in tv e sui giornali i magistrati sono gli unici ai quali gli intervistatori si rivolgono chiamandoli “dottore”?
Ho visto Nobel chiamati per cognome e medici chiamati genericamente con un “senta”…

L’arte della querela

Due premesse.
1)    Il post è un po’ più lungo del solito, nonostante io sia un sostenitore della rapidità calviniana, perchè l’argomento non è semplicissimo e, non a caso, ha bisogno di premesse.
2)    Conosco le due persone che sono citate di seguito. Emanuele Lauria è un collega e un amico da decenni. Massimo Russo è una persona che stimo a tal punto da avergli affidato la presentazione di un paio dei miei libri.

Parto dal caso siciliano più recente di contrasto tra giornalista e amministratore pubblico per entrare nell’argomento. Emanuele Lauria de la Repubblica conduce un’inchiesta sulla sanità isolana e inevitabilmente si trova davanti al nodo delle cliniche private. Nell’asciuttezza di uno stile a prova di contro-verifica, Lauria dimostra gli interessi neanche occulti di numerosi esponenti politici regionali nei confronti della sanità privata. La sua tesi è questa: poiché molti papaveri della Regione hanno un ruolo dimostrato, manifesto e legittimo nella gestione di case di cura e holding connesse, è lecito sospettare che il governo di Raffaele Lombardo non si sia affannato per applicare appieno la riforma.
Non è una tesi peregrina, né infamante. I giornalisti, a parte il gruppo dominante delle “aste da microfono”, esistono (o sopravvivono) anche per fare domande e per porgere bandoli di matasse intricate.
La risposta di Massimo Russo, magistrato di valore, oggi assessore regionale alla Sanità è dura: “È ora di dire basta a un’informazione non corretta”, scrive in un comunicato di fuoco. E annuncia di voler chiedere all’Avvocatura dello Stato di valutare eventuali azioni legali nei confronti del giornalista e del quotidiano. A mio parere Russo può soltanto contestare il titolo de la Repubblica (“Tagli al pubblico, favori alle cliniche: così la riforma premia la sanità privata”), assolutamente sbilanciato e quindi poco prudente. Però, tenendo conto che lui ha avuto e avrà diritto di replica, mi pare precipitoso puntare al deretano del cronista (che, se vogliamo, al contrario del titolista è stato prudente e tutto sommato equilibrato).

Il lungo antefatto è servito per dare un aggancio di cronaca a un pensiero che mi frulla in testa da tempo.
Provo a sublimarlo in una frase da bignamino: il giornalismo d’inchiesta fa bene anche alle controparti oneste. Ergo, l’incazzatura per un velo alzato su una zona nevralgica dell’azione politica oltre a provocare una reazione urente deve, a mente serena, suggerire nuove vie d’azione. Del resto soggetto e oggetto dell’inchiesta, cioè i due opposti, se entrambi in buona fede sono accomunati da un fine comune: trovare la maniera per fregare i ladroni.
Invece, per mere ragioni di inutile principio, è invalsa da tempo la consuetudine di usare la querela per mettere punti al posto delle virgole, per trovare ragioni a buon mercato. L’uso, o meglio l’abuso della querela per diffamazione (anche il sottoscritto, con questo blog, ne è vittima: ma ne parleremo presto in modo spietatamente approfondito) è diventato perlopiù un metodo di attacco preventivo: io ti querelo non per quel che hai scritto/detto, ma per scoraggiarti dal farlo ulteriormente.
E quando questa pratica – senza alcun riferimento al caso Russo-Lauria – viene posta in atto da parte di un politico, lo scenario diventa inquietante. Quanto costa un’azione legale a un parlamentare? Quanto tempo impiegherà a documentarsi? Quanta fatica dovrà sopportare per imbastire una causa degna?
La risposta è: zero. Come tutti sanno un deputato ha mezzi e uomini a disposizione, pagati dalla collettività, per fare e disfare a proprio piacimento.
E sull’altro fronte cosa accade? Più che la paura di una condanna, dato che uno sa se ha scritto una minchiata o no, è lo spettro di lungaggini personali e burocratiche a incombere sulla coscienza del giornalista. Avvocati, direttori incazzati, carabinieri o polizia, editori, pubblici ministeri, giudici… perché mai uno dovrebbe prenotarsi un posto in prima fila nel teatro delle rotture di scatole? Meglio volgere lo sguardo verso altro e campare tranquilli.
Così si ammazzano i superstiti di un giornalismo quantomeno dignitoso.
Non eroi, non paladini: onesti lavoratori che cercano, trovano e raccontano.