Due premesse.
1) Il post è un po’ più lungo del solito, nonostante io sia un sostenitore della rapidità calviniana, perchè l’argomento non è semplicissimo e, non a caso, ha bisogno di premesse.
2) Conosco le due persone che sono citate di seguito. Emanuele Lauria è un collega e un amico da decenni. Massimo Russo è una persona che stimo a tal punto da avergli affidato la presentazione di un paio dei miei libri.
Parto dal caso siciliano più recente di contrasto tra giornalista e amministratore pubblico per entrare nell’argomento. Emanuele Lauria de la Repubblica conduce un’inchiesta sulla sanità isolana e inevitabilmente si trova davanti al nodo delle cliniche private. Nell’asciuttezza di uno stile a prova di contro-verifica, Lauria dimostra gli interessi neanche occulti di numerosi esponenti politici regionali nei confronti della sanità privata. La sua tesi è questa: poiché molti papaveri della Regione hanno un ruolo dimostrato, manifesto e legittimo nella gestione di case di cura e holding connesse, è lecito sospettare che il governo di Raffaele Lombardo non si sia affannato per applicare appieno la riforma.
Non è una tesi peregrina, né infamante. I giornalisti, a parte il gruppo dominante delle “aste da microfono”, esistono (o sopravvivono) anche per fare domande e per porgere bandoli di matasse intricate.
La risposta di Massimo Russo, magistrato di valore, oggi assessore regionale alla Sanità è dura: “È ora di dire basta a un’informazione non corretta”, scrive in un comunicato di fuoco. E annuncia di voler chiedere all’Avvocatura dello Stato di valutare eventuali azioni legali nei confronti del giornalista e del quotidiano. A mio parere Russo può soltanto contestare il titolo de la Repubblica (“Tagli al pubblico, favori alle cliniche: così la riforma premia la sanità privata”), assolutamente sbilanciato e quindi poco prudente. Però, tenendo conto che lui ha avuto e avrà diritto di replica, mi pare precipitoso puntare al deretano del cronista (che, se vogliamo, al contrario del titolista è stato prudente e tutto sommato equilibrato).
Il lungo antefatto è servito per dare un aggancio di cronaca a un pensiero che mi frulla in testa da tempo.
Provo a sublimarlo in una frase da bignamino: il giornalismo d’inchiesta fa bene anche alle controparti oneste. Ergo, l’incazzatura per un velo alzato su una zona nevralgica dell’azione politica oltre a provocare una reazione urente deve, a mente serena, suggerire nuove vie d’azione. Del resto soggetto e oggetto dell’inchiesta, cioè i due opposti, se entrambi in buona fede sono accomunati da un fine comune: trovare la maniera per fregare i ladroni.
Invece, per mere ragioni di inutile principio, è invalsa da tempo la consuetudine di usare la querela per mettere punti al posto delle virgole, per trovare ragioni a buon mercato. L’uso, o meglio l’abuso della querela per diffamazione (anche il sottoscritto, con questo blog, ne è vittima: ma ne parleremo presto in modo spietatamente approfondito) è diventato perlopiù un metodo di attacco preventivo: io ti querelo non per quel che hai scritto/detto, ma per scoraggiarti dal farlo ulteriormente.
E quando questa pratica – senza alcun riferimento al caso Russo-Lauria – viene posta in atto da parte di un politico, lo scenario diventa inquietante. Quanto costa un’azione legale a un parlamentare? Quanto tempo impiegherà a documentarsi? Quanta fatica dovrà sopportare per imbastire una causa degna?
La risposta è: zero. Come tutti sanno un deputato ha mezzi e uomini a disposizione, pagati dalla collettività, per fare e disfare a proprio piacimento.
E sull’altro fronte cosa accade? Più che la paura di una condanna, dato che uno sa se ha scritto una minchiata o no, è lo spettro di lungaggini personali e burocratiche a incombere sulla coscienza del giornalista. Avvocati, direttori incazzati, carabinieri o polizia, editori, pubblici ministeri, giudici… perché mai uno dovrebbe prenotarsi un posto in prima fila nel teatro delle rotture di scatole? Meglio volgere lo sguardo verso altro e campare tranquilli.
Così si ammazzano i superstiti di un giornalismo quantomeno dignitoso.
Non eroi, non paladini: onesti lavoratori che cercano, trovano e raccontano.