Perché Rigopiano è una tragedia da film

Raccontare imprese, tragedie, vittorie, sconfitte, scommesse, scandali non è un delitto. È un mestiere che ha varie sfaccettature: lo si può fare con un occhio al qui e adesso su una pagina di giornale, lo si può fare con la lente di ingrandimento per un’inchiesta o un approfondimento, oppure lo si può fare costruendo una storia più o meno liberamente ispirata alla realtà in un romanzo o in una fiction. Funziona così da sempre, da quando è stata inventata la narrazione, cioè la vita.
La levata di scudi contro la fiction di Pietro Valsecchi sulla tragedia di Rigopiano è quindi figlia di un tempo di indignazione prêt-à-porter e anche di un certo pecoronismo in cui non è importante fermarsi a pensare ma seguire il flusso, dichiarare senza esitazione prima che qualcuno arrivi prima. Il disastro dell’albergo sommerso e devastato dalla valanga sul Gran Sasso è innegabilmente una storia incredibile da raccontare, da indagare, da decostruire e rimontare. Perché la cronaca non è colpa di chi la racconta, perché l’anima dei narratori ha il lasciapassare dell’Arte che, come tutti sanno, non si cura dell’etica. E per fortuna!
Se avete tempo leggetevi questo vecchio articolo di Claudio Magris sul mestiere degli scrittori.
Quindi non lasciatevi prendere dalla compulsione di critica e prima di dare un giudizio su questa vicenda pensate ai drammi del nostro tempo che hanno ispirato romanzi, film, serie tv. Li avete letti, visti e vi sono piaciuti o meno. Ma non vi siete sentiti sporchi. Magari perché eravate in era pre-social oppure perché nessuno aveva avuto il tempo e la voglia di piantare il seme del pressapochismo che genera la pianta della superficialità.
Rigopiano è una grande tragedia italiana. Ma può essere anche un gran film o un romanzo ben scritto. Basta giudicare a cose fatte. Recensire le intenzioni è un atto estremo di egoismo. E di ignoranza.

La mafia che fa male alla tv

tv fa maleLa mafia nelle fiction fa male all’antimafia? Secondo me, no. La mafia nelle fiction fa male alle fiction se raccontata male. Io ad esempio non guardo “Gomorra” non perché mi appello a un barlume di etica, ma perché non mi piace. Non mi piace, in generale, la maniera italiana di narrare in tv: povertà di sceneggiature, ritmi imbarazzanti, scarsa credibilità dei personaggi.
C’è poi un aspetto particolarmente irritante per chi, come il sottoscritto, è un buon consumatore di fiction d’oltreoceano: l’ossessione del messaggio. Nei nostri prodotti televisivi c’è sempre la smania di consegnare al telespettatore un plico virtuale nel quale sta scritto in bella grafia l’intendimento degli autori. E, badate bene, non si tratta di un (sano) patto di verosimiglianza, ma di una giustificazione quasi sempre pelosa: ti sto raccontando tutto ciò perché tu sappia che questo è male, non ti fare venire in mente strane idee e magari domani ti metti a sparare a poliziotti e magistrati; perché noi siamo i buoni anche quando mitragliamo le saracinesche con le nostre armi caricate a salve; e ricordati che quello che vedi non è sangue vero, ma un liquido rosso speciale che non irrita, si smacchia in lavatrice e fa pure bene alla pelle.

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Benigni, alla faccia dei maligni

Roberto Benigni i Dieci ComandamentiA me non interessa quanto lo pagano, Roberto Benigni. A me interessa godere di prodotti di qualità, e la qualità costa. Pensate quante porcherie ci siamo dovuti sorbire, nel segno di una Rai che si spaccia per popolare (cioè aperta a tutti-proprio-tutti) e invece è solo scadente. Pensate ai mesi estivi ingrassati di repliche e programmi farlocchi, come se esistesse uno sconto stagionale sul canone. Pensate alla necessità ormai quasi impellente di ricorrere ad abbonamenti alternativi (e salati) pur di vedere qualcosa di vagamente interessante nelle pigre serate di inverno.
Ecco, pensate a tutto questo e maledite quel dio che di comandamenti ne ha fatti soltanto dieci. Venti ce ne volevano, venti!
Almeno avremmo avuto un’intera settimana televisiva come dio comanda.

Un dubbio su True Detective, anzi due

true-detective-poster-16x9-1A bocce ferme e condividendo gran parte delle lodi a una serie come True Detective, è giusto che vi metta al corrente di un paio di perplessità sulla bella serie tv di Nic Pizzolatto. Senza nulla togliere a chi ancora non ha visto le ultime puntate (l’on demand consente ormai notevoli dilazioni di godimento televisivo), tutta l’architettura del finale si regge su due elementi fisici dell’assassino che convincono poco: le grandi cicatrici sul volto e le orecchie verdi evidenziate in un disegno che lo raffigurerebbe.
In generale la ricerca di una persona con quell’evidenza di cicatrici non è impossibile, quindi come elemento cinematografico mi pare deboluccio. Come può passare inosservato alla popolazione un tizio con una faccia devastata? Questo tipo di escamotage narrativo non regge neanche per un’ora, figuriamoci per otto episodi. Ma la vera debolezza è nell’indizio “orecchie verdi”. E qui parlo a chi ha visto tutta la serie: avete mai visto un imbianchino che si sporca le orecchie (tutt’e due) di vernice? Capisco le mani, la faccia, ma le orecchie… E’ come cercare di incastrare un cuoco assassino per l’impronta lasciata nel purè.
Insomma, True Detective è un bell’esempio di serie tv recitata, di grande prova attoriale (come si diceva una volta): Matthew McConaughey e Woody Harrelson sono due giganti. Sulla sceneggiatura tuttavia ho qualche riserva.
Comunque ne riparleremo al termine della seconda stagione.

Serie tv, tutto quel tempo trascorso sul divano

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Quanto tempo si passa davanti alla tv per gustarsi una serie di successo? La Nielsen ha fatto il calcolo. In pratica solo per 24 e Lost qui a casa Palazzotto siamo rimasti imprigionati per dieci giorni.

Sbadigli

Scampoli di informazione che filtrano nell’eremo di una vacanza. Tg3 delle 19: il povero Bersani colto da malore e liquidato in un paio di minuti, poi servizio con immagini di Renzi sorridente che ironizza su Fassina (e ce ne vuole a ironizzare su uno come Fassina, più facile ridere di un tronco di quercia arrostito da un fulmine), Fassina che replica a Renzi con immagini di Renzi in bicicletta (o Renzi pedala più di Gimondi o l’archivio del Tg3 è in piena sindrome da loop), Letta che risponde a Renzi con immagini di Renzi con e senza Letta (Renzi è comunque sorridente come da contratto con gli incolpevoli sostenitori che brillano di sorriso riflesso). Morale da estemporaneo eremita: ai tempi di Berlusconi i Tg procuravano solenni incazzature, oggi ai tempi di Renzi e del neo edonismo sinistrorso, i Tg procurano noia.

Formiglisti e travaglisti, cosa rimarrà?

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Ho seguito ieri Piazzapulita con l’intervista a Pietro Grasso non tanto perché mi interessavano le ragioni del neo presidente del Senato (sono sempre stato convinto della sua buona fede e della correttezza del suo operato) quanto perché volevo comparare due metodi giornalistici molto in voga: il formiglismo e il travaglismo.
Corrado Formigli è scattante e nodoso quanto Marco Travaglio è rilassato e appuntito. Il primo saltella, interrompe, desume e ammicca nervosamente. Il secondo si spalma sulla sua tesi, sorride acido, gioca di appostamento. Formigli inoltre dà l’impressione – l’impressione, ripeto – di non capire proprio tutto quello che dice, ma del resto il giornalismo è anche l’arte di raccontare ciò di cui non si sa niente. Travaglio invece non si cura affatto di sapere tutto quello che c’è da sapere su un evento o su un personaggio: lui ha il suo presupposto, il suo punto di partenza vero o falso che sia e nulla lo sposterà dai suoi binari. Qui va ribadito che l’ho spesso apprezzato per i suoi articoli e i suoi interventi televisivi. Però ciò non vuol dire che abbia il mio incondizionato assenso. Ad esempio non mi è piaciuto il suo sottrarsi al confronto con Grasso. Ma probabilmente sul faccia a faccia Travaglio non è ferrato, come ha dimostrato la figura rimediata (da lui e da Michele Santoro) nell’ormai tristemente nota puntata di Servizio Pubblico con Silvio Berlusconi.
Riassumendo.
Formiglismo, ovvero il botta e risposta con poche botte.
Travaglismo, ovvero il botta e risposta senza risposte.

L’informazione politica di Barbara D’Urso

Il nuovo corso dei pomeriggi televisivi di Barbara D’Urso prevede uno spazio di approfondimento politico. Funziona così. La conduttrice mette insieme vari personaggi politici – il livello medio alto è Daniela Santanchè – di vari partiti e di varia estrazione (c’è il deputato, il consigliere comunale, il sindaco di un piccolo paese, eccetera). Poi dà la parola al pubblico, che è stato selezionato ed allevato come si fa coi leoni del circo, e si scatena la rabbia cieca. Il numero tipico è quello di un signore, che sino a qualche ora prima era un tranquillo pensionato, con la bava alla bocca che sbraita: “Siete tutti ladriii!”. Non c’è mai un’argomentazione, non c’è mai il tentativo di scalfire la corteccia del qualunquismo, qui e in tutte le opere della D’Urso. Nel siparietto popolar-politico va in onda un finto pluralismo di posizione che illude e deteriora gli spazi di libero pensiero. Perché la casalinga distratta che mescola la polenta mentre guarda “Pomeriggio 5” magari si convince che la spending review raccontata con l’effetto flou di Barbara D’Urso è un’invenzione degli anarchici e che il motto della modernità è “si stava meglio quando c’era lui”. Il pubblico in studio grida e suda, i politici in studio gridano e sudano per solidarietà, la conduttrice rasserena i finti animi con una finta equidistanza che è più irritante degli antichi pipponi di Emilio Fede. Il risultato è un can can di populismo mirabilmente in linea con la beatificazione accordata da Berlusconi che ha posizionato la D’Urso nell’olimpo del (suo tipo di) giornalismo.
La nuova informazione politica del regime di plexiglass arcoriano non passa più dai tg addomesticati, ma filtra subdola attraverso programmi di alleggerimento cogliendo di sorpresa i telespettatori più ingenui, più distratti, più deboli. Probabilmente dovremo rivedere il nostro concetto di fascia protetta.

Lost, il capolavoro

Se c’è una serie televisiva che chi vuol scrivere di televisione o per la televisione dovrebbe studiare e magari mandar giù a memoria, quella serie è Lost.
L’ho vista in dvd ultimamente, grazie a Giuseppe Giglio il mio spacciatore di felicità catodica, e sono rimasto estasiato.
Il ritmo e la suspance che legano indissolubilmente lo spettatore alle gesta di John Locke e Jack Shephard sono soltanto due degli elementi degni di nota. Il segreto di Lost sta nella sua scrittura sontuosa, nei suoi dialoghi da alta cinematografia, nella sua fotografia hollywoodiana e nella recitazione perfetta.
Il meccanismo dei vari livelli temporali è talmente perfetto da risultare gradevole persino quando viene esasperato. Ci sono momenti in cui, davanti al teleschermo, viene spontaneo guardare il calendario piuttosto che l’orologio per chiedersi quando siamo.
Solo un genio come J.J.Abrams poteva ideare un sistema di nodi così complesso e al tempo stesso lineare che dà i migliori risultati nella seconda e nella terza serie.
Vorrei raccontarvi di più. Dell’isola, del disastro aereo, del mistero che è l’architrave della narrazione, della simbologia, del gioco di specchi, del presente e del passato che si mescolano, ma è meglio di no dal momento che c’è ancora molta gente che deve gustarsi questo capolavoro.

Vento di nulla

Negli ultimi giorni c’è una recrudescenza di apparizioni di Flavia Vento in tv. Nello specifico la colpa è di Cristina Parodi, ma non è questo il punto.
E’ fondamentale, almeno per me, capire perché Flavia Vento ha spazio in televisione.
Sono ben conscio che nella ricerca di una risposta il ragionamento potrebbe arenarsi contro la tipica frase: perché ci sono altre come e peggio di lei. Ma questo non basta e non dà la misura del fenomeno.
Al di là dei paragoni, infatti, credo che il caso di Flavia Vento sia emblematico in questo Paese, dal momento che la signora in questione non ha alcun merito artistico, non dice cose interessanti, non eccelle in alcun campo, non ha un ruolo, non ha una estetica da primato, non svolge attività degne di pubblico interesse, non ha una cultura da mostrare.
E allora perché la si invita in tv?
Semplice. Perché è l’immagine rassicurante del qualunquismo che livella verso il basso discussioni che devono rimanere basse per esigenze di audience. La Vento sa tutto di nulla quindi è l’ospite ideale di qualunque programma in cui si debba discettare del sesso degli angeli. E non solo: discute con passione, si accapiglia, combatte coraggiosamente. Solo che il suo furore è pagato dall’incoscienza.
Flavia Vento è l’acrobata senza talento e senza rete che strappa applausi agli illusi catodici. Ogni sua apparizione in tv ha il fascino cruento della morte in diretta. Solo che – a ben vedere – lei sta benissimo nella sua beata ignoranza e i morti sono quelli col telecomando in mano.

P.S.
Ho volutamente tralasciato l’aspetto “politico” della vicenda perché il fatto che Flavia Vento stia tentando di fondare un suo partito, o movimento, va valutato con attenzione. Ad esempio, dedicarvi un post scriptum è già troppo, ma non farlo sarebbe stato un peccato di ottimismo.