A tutti

Il vantaggio di lavorare per un grande teatro. Poter augurare un buon Natale così.
A tutti, proprio a tutti.

La rivoluzione dei piccoli passi

Non ho colto nessun elemento di scandalo nella polemica sulla frase del ministro delle politiche per il Sud Giuseppe Provenzano, secondo il quale “Milano attrae ma non restituisce quasi più nulla di quello che attrae”. Neanche dopo la correzione di tiro che tendeva a puntualizzare come la colpa di questa disparità non fosse di Milano, ma del resto d’Italia che non è in grado di assorbire e far proprio quel modello”. Se proprio si vuole trovare una colpa per Provenzano, allora forse si potrebbe criticare il modulo di comunicazione non blindato che, mediante un ragionamento che poteva essere frainteso, andava a grattare (anzi a tentare di grattare) la corazza dell’unico modello cittadino che davvero funziona in Italia. Insomma, in un Paese dove l’unica maestà per la quale ci si sbraccia è quella lesa, forse si poteva inventare una metafora più prudente per raccontare qualcosa che esiste realmente, e cioè il gap economico e sociale che trancia l’Italia e la necessità di politiche di sviluppo che curino le ferite ancor prima che suturarle.

È un argomento complesso che, per semplificare, vi sottopongo prendendo come spunto le politiche culturali e il loro rapporto con l’innovazione, sulla base della mia minima esperienza.

Quando il Teatro Massimo porta l’opera o i pianoforti di Piano City in un quartiere come lo Zen, fa un’operazione di grande impatto sociale che punta all’effetto contagio. Cerca cioè di inoculare un virus del bello in un corpo che ha un sistema immunitario complesso e interessante. E lo fa strizzando l’occhio alla risposta di Lev Tolstoj alla domanda “Cos’è l’arte?”.

“Eppure c’è un segno certo e infallibile per distinguere l’arte vera dalle sue contraffazioni; ed è ciò che io chiamo il contagio artistico. Se un uomo senza alcun sforzo da parte sua dinanzi all’opera d’un altro uomo, prova un’emozione che lo unisce a questo e ad altri ancora ricevendo contemporaneamente la stessa impressione, ciò significa che l’opera dinanzi a cui si trova è un’opera d’arte”.

Quando invece sempre il Teatro Massimo imbastisce un’operazione come quella de L’elisir o della Cenerentola di Danisinni fa una cosa diversa. Amplifica a dismisura l’effetto contagio giacché non solo gli abitanti del quartiere assistono all’opera, ma ne sono essi stessi protagonisti perché sono stati formati in mesi di prove e prove.
Ecco l’esempio di una vera politica culturale.
Ed ecco il link al ragionamento del ministro Provenzano.
L’innovazione è uno dei principali metodi di sviluppo e di contagio di sviluppo. Laddove per innovazione non si deve intendere necessariamente qualcosa che derivi dal silicio o che abbia a che fare col web e con la tecnologia. Innovazione è linguaggio, è orizzontalità della cultura, è diffusione della parola. Anche l’opera, cioè una delle più antiche e resistenti forme d’arte, può essere enzima di innovazione, ad esempio se coinvolge un quartiere popolare in una messinscena che stimola i suoi abitanti a cimentarsi in qualcosa che non conoscevano e che adesso li incanta.

I processi di cambiamento vanno guidati, non vanno decretati. E il miglior modo per accompagnarli è farli precedere da formazione e informazione per creare una sorta di consapevolezza guidata, senza la quale qualunque provvedimento economico o tentativo di spinta sociale è acqua che si perde tra le zolle di una terra assetata.
Di questo, a mio modesto parere, si deve parlare, non di rivoluzioni. Ma di politiche di piccoli passi, di innovazione del giorno per giorno.    

L’ultimo tribunale

L’articolo pubblicato sul Foglio.

Quando il 4 ottobre 1994 presso Corte d’Assise di Caltanissetta si aprì il primo processo per la strage Borsellino neanche la più pessimista delle Cassandre giudiziarie poteva prevedere il groviglio di procedimenti che ne sarebbero scaturiti per i decenni a seguire. Tra ordini e contrordini, rivelazioni e allucinazioni, gradi di giudizio e tormenti di pregiudizio, di processi sull’eccidio di via d’Amelio se ne sono contati, sino a oggi, dieci. Ma il dato è ovviamente provvisorio, come solo gli errori perduranti promettono di essere. Le ultime indagini sui presunti depistatori – poliziotti o magistrati che siano – arrivano talmente in ritardo da far sì che il sentimento prevalente dinanzi a questo accatastarsi di verità sia quello della delusione.     

Per questo, maneggiando la storia dei misteri delle stragi del ’92 abbiamo scelto di inventarci una sorta di tribunale di fantasia. E di raccontarla, quella storia, nel posto che secondo noi, meglio di altri, poteva contenerla con i suoi drammi, le sue deviazioni, i suoi risvolti grotteschi, le sue fiamme raggelanti. Abbiamo scelto un teatro, un teatro lirico, il più grande d’Italia: il Teatro Massimo di Palermo.

L’opera-inchiesta scritta insieme con Salvo Palazzolo – s’intitola “I traditori” ed è recitata da Gigi Borruso, con le musiche di Marco Betta, Fabio Lannino, Diego Spitaleri e la regia di Alberto Cavallotti – è un’indagine sul palcoscenico che parte da un presupposto: nel luogo dell’arte, cioè nel tempio in cui si celebra il primato della fantasia, si può trovare la libertà che serve per provare a evadere dalle prigioni delle versioni preconfezionate. Spesso la verità del dubbio è più utile della certezza di uno slogan. E i dubbi nelle indagini sulle stragi di Capaci e di via D’Amelio non mancano. A cominciare da ciò che accade nell’immediatezza degli eccidi.

Passano poche ore dall’attentato in cui è morto Paolo Borsellino con gli agenti della scorta, e l’agenzia Ansa batte un take in cui c’è scritto che “fonti della polizia di Stato” sanno che l’autobomba è una Fiat di piccole dimensioni: “Una 600, o una Panda, o una 126”. Solo che ancora il blocco motore della macchina imbottita con novanta chili di tritolo non è stato recuperato (il ritrovamento avverrà l’indomani). E soprattutto ci vorrà un esperto della Fiat, fatto arrivare apposta dallo stabilimento di Termini Imerese, per capire che quell’ammasso di ferraglie appartiene proprio a una Fiat 126.  

I dubbi e le certezze. I primi ci accompagnano da ventisette anni, le seconde sono subito brandite da chi, come l’allora capo della Squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, sa troppo e non si capisce perché. Come fa la polizia di La Barbera ad avere identificato in anticipo il tipo di auto usato per la strage quando l’unica traccia che resta di quel veicolo è un blocco motore che non è stato ancora recuperato?   

La Fiat 126 è importante nella nostra ricostruzione poiché è su di essa che poggia gran parte dell’impalcatura del depistaggio grazie al sistema dei falsi pentiti. Poco meno di un mese dopo la strage di via D’Amelio, una nota riservata dei servizi segreti riferisce alla direzione del Sisde che “la Polizia avrebbe acquisito significativi elementi informativi per l’identificazione degli autori del furto dell’auto, nonché del luogo in cui la stessa sarebbe stata custodita prima di essere utilizzata nell’attentato”.

Ancora lo stridere di dubbi e certezze.  Se i falsi pentiti Salvatore Candura ed Enzo Scarantino ancora non sono stati arruolati, come fanno la polizia e il Sisde a sapere dove è stata rubata la 126? E soprattutto com’è possibile che Candura e Scarantino siano a conoscenza del fatto che la macchina è stata prelevata dalle parti di via Oreto a Palermo, circostanza vera, se loro in realtà non c’entrano nulla con la strage?

Tenete conto che i dettagli che smaschereranno l’impostura del depistaggio, li svelerà il vero autore del furto della macchina, Gaspare Spatuzza. Ma lo farà solo quindici anni dopo l’attentato, nel 2008. Fino ad allora il circo dei veggenti metterà in scena, indisturbato, quello che i giudici di Caltanissetta hanno definito uno dei più gravi depistaggi della storia italiana. Ufficialmente, almeno sino alle latitudini giudiziarie a noi note, nessun magistrato tra quelli che hanno gestito le prime dichiarazioni di Candura e Scarantino (con l’eccezione di Ilda Boccassini), ha mai avuto sentore di imbroglio. La macchina della menzogna ha visto girare i suoi ingranaggi senza che mai qualcuno muovesse un dito. Oggi, ventisette anni dopo il boato, sappiamo che Scarantino, finto pentito inaffidabile per indole, per storia criminale, per physique du rôle, sta accusando del suo vergognoso indottrinamento solo un gruppuscolo di poliziotti a processo, come se i magistrati a quei tempi non ci fossero o stessero tutti a bocca aperta a tracannarsi l’intruglio allucinogeno preparato da La Barbera (che è morto da tempo e che quindi incarna l’essenza del colpevole perfetto). Fatto salvo il rito ecumenico dei rimbalzi di competenze giudiziarie che passa la palla da Palermo a Caltanissetta, a Catania, a Messina – in un gioco di fratelli coltelli dove scarseggiano i parenti e abbondano le armi da taglio – e che adesso con una sorpresona attesa ventisette anni vede indagati per calunnia due dei fulgidi pm di allora, Anna Maria Palma e Carmelo Petralia.

Certo se non ci fosse di mezzo una ferita al cuore dell’Italia, quella delle stragi del ’92 sembrerebbe una storia scritta apposta per essere raccontata. Del resto con i colpi di scena al momento giusto, con una galleria di personaggi dalla doppiezza cinematografica, con il succedersi serrato dei nodi della trama, la solidità del plot è assicurata.

Poche ore dopo la morte di Giovanni Falcone, due magistrati della procura di Caltanissetta entrano nella sua stanza al ministero della Giustizia, mettono i sigilli e fanno ciò che nessuno si aspetterebbe: lasciano lì i due computer all’interno dei quali ci sono tutti gli appunti del collega appena assassinato. Manco li degnano di uno sguardo. Ma non basta. Una settimana dopo, gli stessi magistrati tornano in via Arenula e dissequestrano tutto: (o)missione compiuta. Anzi stavolta l’effetto della loro disattenzione è ben più grave, dal momento che lasciano i pc incustoditi, alla mercé di tutti.

Stesso modus operandi a Palermo, dove a casa del magistrato in via Notarbartolo un computer portatile viene ignorato con pervicacia quantomeno sospetta.

Nella nostra messinscena siamo entrati nelle cartelle telematiche di Falcone e abbiamo constatato ciò che purtroppo era annunciato: qualcuno è entrato in quei file già il primo giugno del 1992 ed è tornato nei giorni seguenti, facendo quel che voleva. Tanto i computer non erano più sotto sequestro. Oggi sappiamo che da quei pc sono spariti i diari di Falcone.

Da un colpo di scena all’altro.

Per l’agenda rossa di Paolo Borsellino, un totem dei misteri italiani, la forma d’arte più adeguata sarebbe il balletto. Un balletto tragico magari con uno sfondo di seta tempesta rosso sangue. Perché le figure note e meno note che si aggirano attorno alla borsa che contiene l’agenda sembrano muoversi tutte sotto le direttive di un coreografo: del resto l’inganno è anche arte di movenze. Quel pomeriggio del 19 luglio 1992 poliziotti, carabinieri e funzionari dei servizi segreti mettono le mani sulla borsa, tirandola fuori dalla blindata in fiamme nella quale l’aveva riposta il magistrato, aprendola e rimettendola nel posto da cui l’avevano presa: cioè l’auto in fiamme.

Nella concitazione di quei momenti – lo scenario di via D’Amelio dopo l’esplosione è un inferno di lamiere, carne, fuoco, – due, tre, quattro persone, ognuna col suo distintivo, prendono la borsa dalla blindata che brucia, la aprono, rovistano, e chiamano in causa l’ex magistrato Ayala che era sul luogo: lui smentisce di avere mai avuto un ruolo in questo mistero inanellando però troppe versioni diverse, almeno secondo Fiammetta Borsellino.

Quanti danzatori oscuri nel cratere di Palermo.

La finzione teatrale per raccontare gli infingimenti dietro i quali la verità gioca a nascondino. Tra i mille rivoli in cui questa storia si disperde, un espediente narrativo che può essere utile nella sua trasversalità è quello del cambio di soggettiva. Perché non provarci? Sinora avevamo raccontato la storia da un punto di vista classico: i buoni e le vittime da un lato, gli assassini di Costa nostra dall’altra. Poi abbiamo deciso di cambiare inquadratura, scegliendo di guardare le cose con gli occhi dei mafiosi. Ecco cosa ha detto Gioacchino La Barbera, già componente della task force criminale che si è  occupata di preparare la bomba da piazzare sotto l’autostrada di Capaci poi diventato collaboratore di giustizia: “Mentre stavamo mettendo da parte l’esplosivo per l’attentato a Falcone, in una villetta di Capaci, notai una persona che non avevo mai visto, un estraneo. Questo tale arrivò con Antonino Troia, il capomafia di Capaci, parlò pure con Raffaele Ganci, il capomafia della Noce. Evidentemente lo conoscevano. Rimase in tutto dieci minuti, un quarto d’ora. Avevamo spostato l’esplosivo sul telone steso sotto la veranda. Non l’ho più vista quella persona. Penso che l’individuo non fosse di Cosa nostra perché poi non lo vidi più”.

Anche Gaspare Spatuzza, il mafioso che 16 anni dopo l’autobomba di via d’Amelio ha raccontato i misteri della strage Borsellino, ha fornito spunti interessanti. Il 18 luglio 1992 sta guidando la Fiat 126 (quella delle preveggenze di La Barbera e sodali) che dovrà essere imbottita di tritolo. “Non so dove dobbiamo andare. Io guido l’auto che mi avevano fatto rubare, la notte fra l’8 e il 9 luglio. Seguo Fifetto Cannella che fa da staffetta”. A un certo punto arriva in un garage dove si deve preparare l’autobomba. “All’interno vedo due uomini, uno è Renzino Tinnirello, della famiglia di Corso dei Mille, che mi viene incontro. L’altro è una persona sulla cinquantina, che io non conosco, perché non l’avevo mai visto. Intanto, arriva anche Ciccio Tagliavia, di Brancaccio, che in quel momento è latitante”. Un altro uomo misterioso sul luogo cruciale in cui si prepara il “botto” e per giunta in presenza di un latitante. “Non era un uomo d’onore, non era un mafioso, non l’avevo mai visto prima”, assicura Spatuzza, che ha dalla sua l’attendibilità di chi ha svelato l’impostura del falso pentito Scarantino.

I dubbi e le certezze. Le domande sulla reale identità di queste sagome misteriose fanno parte di un copione che sembra scritto anche per altri delitti eccellenti, precedenti alle stragi Falcone e Borsellino: Dalla Chiesa e i suoi diari scomparsi, i documenti trafugati a Peppino Impastato, il commissario Cassarà e la sua l’agenda rossa (un’altra agenda rossa!) che si volatilizza, gli appunti sottratti all’agente Agostino dopo che era stato massacrato assieme alla moglie sposata da un mese e incinta da due. La certezza è che c’è stato un metodo del delitto a Palermo.

All’antimafia non sono mai mancati i palcoscenici e anzi, in decenni che poi si sono rivelati cruciali per la credibilità di alcuni suoi protagonisti, si è assistito a una moltiplicazione di essi. Dal corteo alla tv, dallo slogan per strada all’articolo sul giornale militante, dal volontariato alla carriera, il treno movimentista della santa guerra (a parole) contro i boss si è lanciato a tutta velocità contro un obiettivo che si è rivelato sbagliato: dovevano essere i mafiosi, invece è stata una generazione sociale. Anche negli effetti è andata peggio del previsto: poteva essere binario morto, invece è stato deragliamento.

Forse è il destino delle storie storte, generare cantori sbilenchi. Forse c’è una luce piccola e seminascosta nell’abbagliante ribalta dell’eterno protagonismo istituzionale: i temi e i dipinti dei ragazzini che hanno visto “I traditori” con la scuola e che scrivono al teatro – sì al teatro –  come si fa a un familiare, “grazie, ora ne sappiamo di più”. Forse da qui si potrebbe immaginare il nuovo incipit di un’antimafia che è stata frutto da addentare dimenticandosi di dover essere seme.     

Il “tribunale del teatro” con la sua indagine sul palcoscenico non è argine né corrente. Non si sostituisce a nessuno né agisce per delega di alcuno. Brandisce l’unica certezza che si scorge, come terra emersa, da un mare di domande senza risposta. La verità del dubbio.

A caccia dei traditori

Se fosse qui con me, chiederei al diavolo come ha fatto a progettare un piano così sottile con una materia così grossolana: mafiosi, tritolo, terra, carne, sangue, lamiere. Come ha fatto a ingannarci sbattendoci in faccia gli indizi, anziché nasconderli. Come ha fatto a immobilizzare la giustizia per tutti questi anni inventando piste di indagine al limite del grottesco. Come ha fatto a rendere tutto ciò plausibile, senza che nessuno di quelli deputati al controllo si accorgesse di nulla.
E soprattutto gli chiederei una cosa.
Come ha fatto a dare fiducia ai traditori?

Due anni dopo “Le parole rubate” io e Salvo Palazzolo torniamo sul palcoscenico del Teatro Massimo di Palermo per indagare sui misteri delle stragi Falcone e Borsellino. Lo facciamo il 23 e il 24 maggio prossimi (ma il 24 è una data già chiusa, riservata esclusivamente alle scuole) con un’opera inchiesta che non fa sconti a nessuno: “I traditori”.

Poco o nulla vi anticiperò qui, perché è in teatro che scoprirete le inquietanti manovre, il rimando di scuse, il doppiogioco di alcuni uomini delle istituzioni che hanno portato al più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana. E constaterete con noi che la storia, così come ce l’hanno raccontata, è una storiella, un mazzo di coincidenze raccolte alla rinfusa e spacciate per verità ufficiale. Prove alla mano, cercheremo di rimettere a posto le tessere del puzzle. E lo faremo con la narrazione di Gigi Borruso, le musiche di Marco Betta, Fabio Lannino, Diego Spitaleri, la regia di Alberto Cavallotti, le suggestioni video di Antonio Di Giovanni e Davide Vallone, la documentazione fotografica di Franco Lannino.

Non è un caso che tutto ciò avvenga in uno scenario che ci toglie il fiato, il più grande Teatro d’opera d’Italia, un teatro che ha il coraggio di uscire dal comodo orticello del “già noto” per affrontare la scommessa dell’innovazione dei temi, dei linguaggi. Ricordo ciò che il sovrintendente Francesco Giambrone mi disse il 19 luglio scorso in via d’Amelio, dopo l’ennesima replica delle “Le parole rubate”: “Noi queste cose dobbiamo raccontarle con tutta la voce che troviamo, con tutti i mezzi che abbiamo. È una scommessa”. E la scommessa l’abbiamo accettata, tutti noi.

Quindi se volete ci vediamo il 23 maggio, alle 20,30 nella sala grande del Teatro Massimo di Palermo (sbrigatevi perché poi i posti finiscono). Vi promettiamo di dire tutta la verità, almeno quella a noi nota che, in gran parte, corrisponde a quella universalmente poco nota se non addirittura sconosciuta.

L’importante è che nessuno ci parli più di coincidenze.
Le coincidenze sono menzogne scritte in anticipo.

Ennio che pianse

C’è poco da dire quando ci si ritrova davanti a un addio non concordato, come quello in cui una persona che credevi immortale ti spiazza col più atroce dei colpi di scena.
Ennio Fantastichini per me (e mi prendo la presunzione di dire per tutti i “ragazzi” del gruppo delle “Parole Rubate”) era la roccia ferma e sicura nel mare dei mille dubbi che ti prendono quando, qualunque sia il tuo ruolo, c’è il palcoscenico di un grande teatro da affrontare. Ma questa sua solidità non gli impediva di cedere all’emozione, di essere uomo fragile interprete di uomini forti. Appena atterrato a Palermo, venne in teatro a provare il testo. Alle ultime cartelle si commosse senza vergogna. La stessa libertà di lacrima la rivendicò per tutte le recite: c’era un momento in cui l’uomo fragile prendeva il sopravvento per raccontare la storia di uomini forti e allora Ennio piangeva ma non si fermava, portando a termine il suo lungo monologo con gli occhi fieri di un luccichio che veniva dall’anima.

Poco da dire, come promesso. Perché in fondo vale sempre quel paradosso beffardo che sembra fatto apposta per questa èra di socialità obbligatoria e sentimenti condivisi: il dolore non è quello che dici ma quello che taci.

Critiche al buio. Della ragione

Della serie non finire mai di stupirsi. Per la prima volta Google sbarca a Palermo con un’installazione, anzi una serie di installazioni sulla realtà virtuale e su altre meravigliose diavolerie (guardate questo video, ad esempio). È un’operazione che celebra il Teatro Massimo, Palermo e le sue bellezze. Le celebra su scala planetaria grazie al Google Arts & Culture e al suo Grand Tour. Fatevi un giro per capire di cosa si tratta.
Al Teatro con gli amici di Google ci lavoriamo da un anno e mezzo e siamo arrivati alla vigilia dell’inaugurazione, da domani 20 ottobre a domenica 22 la mostra sarà aperta al pubblico (addirittura sabato sino alle 24).
È un progetto in cui esserci è motivo di orgoglio. È un progetto che non costa un solo centesimo al contribuente. È un progetto da cui Palermo e i palermitani hanno tutto da guadagnare perché è una vetrina che parla di noi, del nostro passato con linguaggi nuovi. Ed è un progetto a ingresso gratuito.
Secondo voi come l’hanno accolto alcuni palermitani senza ancora sapere nemmeno di cosa si tratta? Cercando di demolirlo. Sì proprio così.
Non potendo dir nulla sui contenuti, hanno giudicato la prima cosa che avevano a tiro di minchiata: il portone dal quale si accede alla mostra. Poiché, come in tutte le manifestazioni mondiali di Google, l’ingresso deve essere brandizzato, riconoscibile come le più elementari regole del marketing impongono (basta aver studiato qualcosa in più rispetto al manuale di istruzioni dello smartphone), qualcuno ha cominciato a criticare anche con toni violenti il colore dei pannelli, lo stile della grafica, addirittura la location. Come se non fosse un onore per un Teatro definito “il più innovativo di Italia” ospitare un’installazione del genere.
Lo ripeterò sino allo sfinimento, il diritto di critica è come la democrazia: esercitarlo da ignoranti può essere pericolosissimo. Il ragionamento “io giudico ciò che vedo” abbozzato da questi maître à penser  della condivisione forzata è la sconfitta di ogni progettualità. Ma loro non lo sanno. Giudicare quel che si vede senza analizzare, informarsi, contestualizzare, magari ragionarci su, è la tomba di ogni buona intenzione. Io so cosa c’è dietro questo buio da tastiera unta di odio, perché ho vissuto e non sono di ferro: c’è approssimazione, c’è invidia (per qualcosa che finalmente funziona), ci sono inconfessabili fallimenti personali e c’è la rabbia peggiore, quella contro il nuovo, la ricchezza della diversità, la tridimensionalità di un’opinione.
Chiudi qui, ma forse ci torno.
Vi aspetto in Teatro.

Prima dell’inizio

Prima dell’inizio c’è qualcosa che va detto. Perché prima che l’orchestra cominci a suonare, che le luci si accendano, che il palcoscenico si animi c’è un pensiero anarchico e irrefrenabile che ti prende.
Hai lavorato un anno per qualcosa che si consuma in poco tempo. Hai scoperto che il dolore ha una potenza immensa se non lo racconti, ma lasci che venga fuori da solo nella sua nuda forza educativa. Col dolore si cresce, se si resiste.
Imbastendo un’opera sul dolore e sulle sue ignote cause, col mio compagno di viaggio Salvo Palazzolo (che non finirò mai di ringraziare per la pazienza, perché ce ne vuole per stare accanto a un prepotente come me) ci siamo immersi in quelle acque gelide di ingiustizia che hanno inghiottito questo Paese per anni. Abbiamo guardato in faccia, spesso non riuscendo a mantenere lo sguardo, chi da quell’ingiustizia è stato annientato: negli affetti e nella dignità. Le stragi di Capaci e di via d’Amelio sono un buco nero nella democrazia di questo Paese, e noi abbiamo cercato di spiegare perché.
Ma ci sarà tempo per le considerazioni generali su questo tema. Qui voglio solo dare sfogo a quel pensiero, prima dell’inizio.
Per chi campa di scrittura da anni e anni, arrivare sul palcoscenico di un teatro come il Teatro Massimo è motivo di commosso orgoglio. Più volte in questi giorni mi sono ritrovato con gli occhi lucidi mentre la storia de “Le parole rubate” riempiva l’aria della Sala Grande. Perché siamo così noi che inseguiamo tutta la vita il rigo perfetto, la firma in testa, il concetto universale: ci vestiamo di parole senza accorgerci che senza quelle non saremmo semplicemente nudi, ma orfani.
Quindi, comunque vada oggi, grazie a chi ci ha dato fiducia (Francesco Giambrone), a chi ci ha dato la follia che serviva (Oscar Pizzo), a chi ha acceso la magia del teatro (Giorgio Barberio Corsetti, Ugo Bentivegna, Lorenzo Bruno, Igor Lorenzetti), a chi ci ha prestato corpo e voce (Ennio Fantastichini), a chi ci ha dato la musica (Marco Betta, Yoichi Sugiyama), a chi ci ha dato le immagini giuste (Franco Lannino).
A parte questo, prima dell’inizio c’è solo un pensiero per quei morti a cui sono state rubate le parole. Una preghiera muta.

I bravi palermitani

imageIeri pomeriggio il Teatro Massimo di Palermo ha organizzato la diretta in video streaming dell’ultima replica di Le Toréador-Cavalleria Rusticana a piazza Magione. Era un’operazione ardita, portare la lirica nel cuore della città vecchia, in un quartiere che da qualunque parte lo guardi è simbolo di qualcosa (del degrado, della rinascita, della bellezza dura come il granito) era una scelta cruciale: poteva venire fuori una cosa bellissima così come poteva venire fuori un fallimento epocale.
È andata bene.
Centinaia di spettatori attenti, motivati, persino pazienti: quando per un problema col satellite c’è stato un black-out di pochi minuti, nessuno ha protestato e anzi il rapido ritorno delle immagini sullo schermo è stato salutato da un applauso. Giovani, anziani, turisti, gente del quartiere, tutti sdraiati sull’erba o appollaiati sulle sedie portate da casa hanno dato vita a un happening indimenticabile. Con una grazia e una delicatezza che non riconoscevo a questa città. Pensate, in tre ore di spettacolo non ho sentito squillare manco un telefonino. E ho detto tutto.
Bravi palermitani, veramente bravi.