Giovani vandali, vecchie questioni

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

C’è qualcosa che andrebbe detto senza troppi giri di parole ai quattro ragazzini che hanno imbrattato le colonne del Teatro Massimo di Palermo e che sono stati identificati dai carabinieri. Innanzitutto che la loro bravata è molto stupida e che è giusto che paghino per l’errore commesso. Tutti siamo stati giovani e tutti conosciamo l’ebrezza dell’imprudenza. Ma non c’è sbaglio senza rimedio, almeno tentato, e crescere non significa solo allungare radici e mettere nuovi rami, bensì perdere le foglie e resistere al vento che spettina i pensieri. Ora il rischio per questi ragazzi è che si ecceda in colpevolismo o in senso opposto. Viviamo in un’epoca in cui ti mettono alla gogna per una foto con l’orologio sbagliato ma ti osannano se lo rubi in diretta Facebook. Serve una linea tracciata chiaramente tra reale e non. Qualcuno, ad esempio i loro genitori, potrebbe impegnarsi per spiegare (o far spiegar) loro che il fatto di trascorrere la maggior parte delle nostre vite davanti a uno schermo ci ha tolto la tridimensionalità delle cose: è quella che Hagi Kenaan definisce “estetica dell’appiattimento”. Il pennarello sulla colonna di marmo prezioso è frutto di un declassamento di pudore e prudenza a nuovi filtri di Instagram.   

Infine pare che i ragazzi in questione non sapessero nulla del Teatro Massimo e di ciò che rappresenta, in generale, un teatro in una comunità (qui c’è un compendio di quel che rappresenta per me,per chi ha tempo da perdere). Per questo c’è un rimedio antico: studiare, imparare. Rendersi conto che il palcoscenico dell’arte non è solo quello racchiuso nei luoghi dove quell’arte si espande, ma è ovunque ci sia curiosità. Ecco, una lezione potrebbe proprio avere a che fare con una verità che dimentichiamo spesso: a volte è solo uscendo di scena che si può capire quale ruolo si è svolto.

Il buio del vandalismo

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Come molte novità che irrompono in queste lande, il monopattino elettrico attira diffidenze e soprattutto scatena pulsioni violente, vandaliche. È accaduto molte volte in passato, dal car sharing alle biciclette condivise, dagli arredi urbani alle altalene nei parchi. È il sintomo di un’avversione antica per l’elemento che entra senza permesso nella quiete del nulla, per l’intruso che corre il rischio di migliorare la nostra esistenza assuefatta al poco esistente. Non è incultura, ma obbedienza a un mainstream sommerso e sbilenco che dice no per principio, che difende la povertà di ideali, che si inchina a una logica che guarda al futuro come a un virus pericolosissimo. Non a caso il video dei ragazzini che distruggono uno dei nuovi monopattini in affitto a Palermo finisce sui social, come un rito sacrificale da porgere agli adepti di una congrega che non aspettano altro: nella loro visione angusta di mondo quelle ruote non devono girare, ma ardere; e quel mezzo, che è di tutti e libero quindi per contrappasso di loro esclusiva proprietà, deve essere fatto a pezzi. Perché è nuovo, è il nuovo suscita sempre un desiderio. A qualcuno quello sbagliato. Il lato veramente triste di un atto vandalico sta nel suo essere guerriglia solitaria, senza trincee e soprattutto senza possibilità di vittoria. Se anche tutti i monopattini elettrici della città fossero ritirati, i quattro mascalzoni che li hanno scassati non avrebbero conseguito nessun risultato, a parte perdere persino l’ultimo oggetto della loro triste pulsione. Imprigionandosi da soli, punendosi nel grottesco fai-da-te di chi affronta le novità col martello in mano e le tasche della curiosità irrimediabilmente vuote.