La sensazione è che non aspettavano altro. Tutti in fila ad attendere il passo falso di Report per ottenere due risultati in un sol colpo: mettere o rimettere le mani sulla Rai e soprattutto togliere di mezzo uno dei pochissimi programmi di inchiesta rimasti nel nostro Paese.
Il servizio sui vaccini era sbagliato, ok. Mancava di prospettiva, di aperture scientifiche: sarebbe bastato usare la testimonianza cruciale come spunto di approfondimento e dar voce alla Scienza con la esse maiuscola (ne abbiamo parlato diffusamente qui).
Ma epic fail a parte, restano i meriti storici di un programma difficile da realizzare e impossibile da cancellare. Report è il manuale di un giornalismo in estinzione, è la risposta argomentata ai bimbimikia di Facebook, è il totem contro il nauseabondo dilagare delle fake news. E un errore, seppur grave, non può oscurare la sua stella.
Il valzer della politica attorno al giornalismo è la parte più grottesca della vicenda. Movimenti che volevano abolire la Rai s’inventano paladini della televisione pubblica. Figuri più o meno loschi che sul complottismo (e su un certo negazionismo di maniera) hanno basato le loro fortune, cantano (e pure in modo stonato) vittoria. Partiti che predicavano un inconfessato perdonismo per i loro accoliti beccati con le mani nella marmellata si scoprono intransigenti sostenitori del castigo esemplare e della pena certa. Insomma un incrocio di cattive intenzioni e di infelici trasversalismi.
Ricordiamocelo: peggio di un’informazione sbagliata c’è solo una correzione sbagliata.
Tag: Report
Assuefatti all’inganno
Ci voleva Report a ricordarcelo (o a farci aprire gli occhi): la società Italo-belga che ha la concessione di gran parte della spiaggia di Mondello sponsorizza le divise dei vigili urbani, cioè in qualche modo paga coloro i quali dovrebbero esercitare una funzione di controllo.
Un amico imprenditore mi ha chiamato dicendosi disposto a fornire i vestiti d’ordinanza per gli addetti dell’Agenzia delle entrate: chissà, se ci si lavorasse bene ci scapperebbe pure la griffe.
Penso ad altri tipi di sponsorizzazione (in)tollerabili (dopo l’Italo-belga siamo tutti di bocca buona): un ristorante potrebbe occuparsi dei pranzi domenicali dei Nas; Cosa nostra potrebbe intervenire nel rinnovo tecnologico dei telefonini dei magistrati; un partito politico potrebbe patrocinare lo svecchiamento delle urne elettorali; e così via.
L’esperienza e l’età – connubio che raramente fallisce – insegnano che l’assurdo è difficile da identificare quando la realtà è assuefatta all’inganno.
Non vedo l’ora di invecchiare.
L’ignoranza delle truppe
Ieri sera la puntata di Report dedicata agli appalti di Sicilia l’ho affrontata con un pregiudizio: è noioso ascoltare per la millesima volta una storia che si conosce a memoria. Invece mi sono sorpreso a incrociare la strada di alcuni dei personaggi tipici della mia terra: il rampollo di una famiglia mafiosa che gestisce l’impresa dei suoi avi con la disinvoltura arrogante di un boss col lasciapassare; l’ingegnere pigliatutto, amico del potente che tutto spartisce; il presidente che finge di sapere non sapendo; il bugiardone istituzionale che non ha più una faccia di riserva; l’indolente che si finge coraggioso nell’anonimato.
Il comune denominatore di tutte le anime di questa galleria è l’arroganza. La stessa arroganza che è simbolo di un governo, di un partito, di una scellerata filosofia istituzionale. In questo Paese se qualcosa non piace al premier, quel qualcosa non si mette in discussione: si sradica, si estingue. Il gusto e la convenienza personali assurgono sempre al rango di legge, non c’è mai uno spazio riservato alla pubblica discussione.
Il caso delle trasmissioni televisive non gradite al sommo capo, e per questo chiuse, rimarrà emblematico.
In qualsiasi altra parte del mondo civile, il dissenso è garantito se non si vuol finire nella black list delle dittature. L’Italia è l’unico posto in cui un governo autoritario gode di uno sconsiderato consenso elettorale: come se le vittime facessero il tifo per il proprio plotone d’esecuzione. Perché? Prendetemi a pietrate, ma io non ho trovato spiegazioni che vadano oltre l’ignoranza profonda.
Chiuso per ferie elettorali
L’attimino fuggente
di Giacomo Cacciatore
In Italia si dice: “ciurlare nel manico”. A Palermo, “andarci con la minutidda”. In entrambi i casi, il significato è pressappoco questo: cercare di ottenere qualcosa in modo subdolo, con piccole mosse strategiche, meglio se invisibili, senza dichiarare la sostanza del proprio intento.
Ho l’impressione che l’ultima trovata del governo e commissioni di sorveglianza accluse in materia di “par condicio” Rai siano proprio questo: un modo di ciurlare nel manico. O di “andarci con la minutidda”. L’obiettivo non dichiarato ma immaginabile? A mio parere, quello di creare un precedente. E si sa, dal precedente al permanente il passo è spesso breve. Sarà dietrologia, ma penso che se oggi si può inibire l’aspetto informativo di trasmissioni come “Annozero”, “Report”, “Ballarò” e persino “A sua immagine” (scandaloso il caso della commemorazione di Bachelet che non andrà in onda) in nome di una fantomatica equidistanza e in vista delle elezioni regionali, non è detto che il cartello “momentaneamente chiuso” per le ferie elettorali non resti appeso anche domani. E per sempre.
Democrazia in Super8
Pare che la trasmissione Report, di Milena Gabanelli, sia a rischio per la prossima stagione di Raitre.
Piaccia o non piaccia, Report è uno dei pochi spazi di inchiesta (forse l’unico) sulle reti televisive italiane. Abbatterlo significherebbe tranciare l’ultimo cavo di collegamento con una simil-democrazia catodica che ci illude, riempiendo i pixel delle nostre speranze su schermo con denunce motivate e pentole scoperchiate.
Non v’è certezza di un’alba uguale per tutti in questo Paese, però in certi contesti e con un’adeguata dose di suggestione ideologica è ancora possibile immaginare tinte fosche per i malvagi e l’opposto per tutti gli altri. Report, nell’infelice mondo del telecomando, è stato per molti di noi un “aiutino”: il cicchetto giusto, la buona boccata, l’abatjour accesa, la dritta amichevole.
Ora, con una manovra complessa e scontata al tempo stesso, si ipotizza un azzeramento della trasmissione.
Se per tornare alle sane visioni notturne è necessario riesumare il Super8, io sono pronto: in cantina ho ancora un proiettore Silma che promette i grandi numeri di un’anzianità felice. Spero che la Gabanelli si adegui (per il Super8, non per l’età).
Te lo dico tra una settimana
Prendo spunto dalla rubrica TeleVisioni di Aldo Grasso, che questa settimana elogia il mio programma televisivo preferito, Report, per chiedervi: ma non vi dà fastidio che le inchieste siano scomparse dagli organi di informazione?
La domanda è frutto di una mia tara mentale perché, da giornalista, sono stato costretto a sospettare che le inchieste provochino un sussulto solo agli addetti ai lavori, siano essi cronisti o soggetti a vario titolo coinvolti. So bene che non è così, però il tempo mi ha indotto questo pensiero.
Per realizzare un’indagine giornalistica ci vuole tempo, quindi ci vogliono soldi. Un giornalista che viene distaccato per seguire una pista è un giornalista che non produce quotidianamente quindi ci vorrà qualcun altro che si occupi della cronaca fresca. “Cosa scrivete oggi?” è la tipica domanda che il capocronista pone agli uomini del suo team. L’azienda dovrebbe metterlo in condizioni di sentirsi rispondere, ogni tanto: “Te lo dico tra una settimana”.
Capite che è difficile.
C’è poi l’aspetto più delicato, quello degli equilibri. Un’inchiesta punta a dimostrare o a scoprire qualcosa. Quindi il risultato sarà inevitabilmente disequilibrato. Se infatti non ci sarà una tesi che prevarrà su un’altra, l’inchiesta non avrà dimostrato un bel niente: sarà un collage di opinioni, un pastone, un normale articolo di cronaca. L’indagine giornalistica, come qualunque tipo di indagine, deve scardinare una porta, strappare un telo, scoperchiare un baule. E quanti editori in Italia, oggi, sono disposti a rischiare davanti al proprietario di quella porta, di quel telo, di quel baule?
Infine, il mestiere. Per scavare in una storia complicata ci vuole una grande esperienza. Già la mia generazione di giornalisti si trovò in debito d’ossigeno: negli anni ’80 i giornali si trasformavano e le aziende investivano moltissimo in tecnologie e quasi nulla in contenuti. Il risultato fu quello di creare professionisti sempre più duttili dal punto di vista produttivo e sempre più poveri di stimoli. Oggi va ancora peggio. Il mestiere si impara nelle aule universitarie e non nelle strade, nei pronto soccorsi, nelle aule di giustizia, in quelle consiliari, nei commissariati… Risultato: ragazzini freschi di laurea che non sanno scrivere una breve, che considerano i vecchi colleghi colleghi vecchi, che giudicano l’importanza della notizia dal ruolo di chi gliela fornisce.