Lo show del peggio

Ho un’avversione ideologica nei confronti dei reality show. Ritengo che gran parte dello schifo nel quale annegano i nostri costumi e la nostra curiosità sia l’effetto del dilagare di questi programmi.
Il Grande Fratello di quest’anno è, secondo Aldo Grasso, ancora più volgare e trash di quello precedente. Non ne ho mai visto una puntata, quindi ci credo a scatola chiusa.
Il problema, secondo me, sta proprio nel concetto di reality show.
C’è una categoria di persone, alla quale mi iscrivo, secondo la quale la realtà può essere raccontata, fotografata, ignorata, presa in prestito o dimenticata. Lo spettacolo delle peggiori vite qualunque ci può anche stare a patto che serva a qualcosa: a imparare, a distinguersi, a confrontarsi, a piangere o a ridere cinicamente. L’unica cosa che, secondo me, non si dovrebbe fare è lo “show del peggio”. E il Grande Fratello va ancora più giù: è lo show del peggio che diventa opinione, termine di confronto.
Al mio paese il peggio oggettivo (perché deve ancora nascere qualcuno che dimostri che nel GF non c’è il peggio) è destinato all’oblio o alle pagine della cronaca. Se il figlio di un camorrista vuole andare in tv può farlo tranquillamente, a patto che il suo legame di sangue non diventi un titolo di merito, un elemento da curriculum che lo ha promosso a discapito del figlio di un qualunque incensurato.
Davanti al Grande Fratello una parte di Italia, colpevolmente lobotomizzata, perde il gusto della critica e la critica del gusto.
Diventa correa del peggio celebrato come il meglio del peggio.

La cultura di Morgan

Morgan (…) si è esercitato in una serie di imbarazzanti (per lui) contumelie. (…) È ridicolo che uno che si riempie la bocca della parola «cultura» non riesca a fare un discorso di senso compiuto.

Aldo Grasso usa le stesse parole e richiama gli stessi concetti che il sottoscritto ha sommessamente espresso qualche settimana fa a proposito del “talento” di Morgan. Ora, siccome io non sono più esperto, intelligente, furbo, colto di Grasso, evidentemente la realtà è quella che è. Basta prendersi la briga di osservarla.

Grazie alla Contessa.

Repetita iuvant

Finalmente Aldo Grasso dice la sua su una nostra affezionata cliente, Monica Setta. E dice qualcosa di straordinariamente simile a ciò che abbiamo più volte scritto da queste parti.

Te lo dico tra una settimana

L'illustrazione è di Gianni Allegra
L'illustrazione è di Gianni Allegra

Prendo spunto dalla rubrica TeleVisioni di Aldo Grasso, che questa settimana elogia il mio programma televisivo preferito, Report, per chiedervi: ma non vi dà fastidio che le inchieste siano scomparse dagli organi di informazione?
La domanda è frutto di una mia tara mentale perché, da giornalista, sono stato costretto a sospettare che le inchieste provochino un sussulto solo agli addetti ai lavori, siano essi cronisti o soggetti a vario titolo coinvolti. So bene che non è così, però il tempo mi ha indotto questo pensiero.
Per realizzare un’indagine giornalistica ci vuole tempo, quindi ci vogliono soldi. Un giornalista che viene distaccato per seguire una pista è un giornalista che non produce quotidianamente quindi ci vorrà qualcun altro che si occupi della cronaca fresca. “Cosa scrivete oggi?” è la tipica domanda che il capocronista pone agli uomini del suo team. L’azienda dovrebbe metterlo in condizioni di sentirsi rispondere, ogni tanto: “Te lo dico tra una settimana”.
Capite che è difficile.
C’è poi l’aspetto più delicato, quello degli equilibri. Un’inchiesta punta a dimostrare o a scoprire qualcosa. Quindi il risultato sarà inevitabilmente disequilibrato. Se infatti non ci sarà una tesi che prevarrà su un’altra, l’inchiesta non avrà dimostrato un bel niente: sarà un collage di opinioni, un pastone, un normale articolo di cronaca. L’indagine giornalistica, come qualunque tipo di indagine, deve scardinare una porta, strappare un telo, scoperchiare un baule. E quanti editori in Italia, oggi, sono disposti a rischiare davanti al proprietario di quella porta, di quel telo, di quel baule?
Infine, il mestiere. Per scavare in una storia complicata ci vuole una grande esperienza. Già la mia generazione di giornalisti si trovò in debito d’ossigeno: negli anni ’80 i giornali si trasformavano e le aziende investivano moltissimo in tecnologie e quasi nulla in contenuti. Il risultato fu quello di creare professionisti sempre più duttili dal punto di vista produttivo e sempre più poveri di stimoli. Oggi va ancora peggio. Il mestiere si impara nelle aule universitarie e non nelle strade, nei pronto soccorsi, nelle aule di giustizia, in quelle consiliari, nei commissariati… Risultato: ragazzini freschi di laurea che non sanno scrivere una breve, che considerano i vecchi colleghi colleghi vecchi, che giudicano l’importanza della notizia dal ruolo di chi gliela fornisce.