Che fu lupara? No, ufficio del personale

Un estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.

A Palermo è sparito uno scrittore. Sparito dalle pagine dei quotidiani, dai blog, dalle riviste.
Si chiama Roberto Alajmo e – tranquilli – è in buona salute: inoltre non è in ritiro per ultimare un’opera né ha scelto il silenzio come strategia editoriale. Semplicemente non scrive perché l’azienda per la quale lavora come giornalista, la Rai, ha fatto valere il vincolo di esclusiva (cioè scrivi per me e per nessun altro) blindandolo come se lo giudicasse prezioso. E sì che Roberto Alajmo qualche merito artistico lo ha – una ventina di libri, molti dei quali tradotti all’estero, un piazzamento come finalista allo Strega e al Viareggio, un premio SuperVittorini, un film recente con Daniele Ciprì, e via elencando – però le sue quotazioni al momento non sono tali da consentirgli di fare qualcosa, nella azienda in cui opera, che sia più complessa di un servizio sul “fagiolo badda” di Polizzi Generosa. Continua a leggere Che fu lupara? No, ufficio del personale

Arbore e la tv che non c’è più

I 75 anni di Renzo Arbore sono il compleanno di un artista geniale e garbato e allo stesso tempo il funerale di una tv che non esiste più. Chi ha più o meno la mia età non potrà mai dimenticare un programma come “L’altra domenica” che (insieme a “Odeon, tutto quanto fa spettacolo” dei grandi Brando Giordani ed Emilio Ravel) incise profondamente sul costume del Paese in cui viviamo.
Per la Rai il fatto che Arbore sia in buona salute è un ulteriore motivo di sconfitta: non c’è scusa per averlo tenuto lontano dai palinsesti.
Gran parte dell’intrattenimento di qualità, quel poco che rimane in giro, deve a lui qualcosa: persino le trasmissioni radiofoniche più dissacranti (da “Ciao Belli” a lo “Zoo di 105”)  saccheggiano in maniera più o meno consapevole l’“Alto gradimento” degli anni Settanta.
Oggi Arbore gira il mondo con la sua orchestra. Non mi ha mai fatto impazzire come musicista, questione di gusti. Ma mi manca molto, ancora oggi, quando accendo la tv e vengo violentato da un reality o da un talk show sguaiato.
Era una televisione divertente, quella di Arbore, piena di rimandi e sottotesti che accendevano la mente, era una televisione low cost e altamente fidelizzante. Era – per dirla con un po’ di populismo – una televisione per la quale era giusto pagare un canone.

Faccia tosta

Che in politica ci voglia una certa faccia tosta non è un mistero, e nemmeno un dramma. Dal momento che non esistono uomini per tutte le stagioni, il saper confezionare idee (anche in modo estremo) a uso e consumo dell’elettorato è per un politico una specie di patto col diavolo.
Ma il limite non può non esserci, altrimenti anche il patto più indecente e l’impegno più pericoloso – tipo ritratto di Dorian Gray – si stemperano nel crepuscolo del ridicolo.
E’ quel che accade in questi giorni al segretario del Pdl Angelino Alfano che, vittima di una grave crisi di amnesia o di qualcos’altro che non voglio nemmeno immaginare, ha derubricato la riforma giustizia a problemuccio sollevato dal centrosinistra.
Non so chi sia la mente strategica dei discorsi di Alfano – una ci sarà di certo, in politica nulla si crea e poco si autodistrugge – però siamo di fronte a un campione mondiale di faccia tosta.
Oggi Alfano dice che c’è ben altro a cui pensare che non la giustizia (e la Rai). “Parliamo di banche e di lavoro”, tuona da un tg compiacente.
Ma come, chiederebbe un italiano qualunque, voi che per vent’anni non avete fatto altro che occuparvi di lodi e scorciatoie penali, di plasmare la giustizia sulle esigenze del capo supremo, ora improvvisamente ostentate una verginità? E sempre l’italiano qualunque, se solo avesse voce, domanderebbe senza malignità: lei, Alfano, che ministero occupava sino a qualche mese fa?
Prendiamone coscienza: più di quelli dalla faccia tosta, sono i senza vergogna ad avvelenare il futuro di questo Paese.

La signora o signorina Mrazova

Una tale Ivana Mrazova sarà strapagata per affiancare, da sola, Gianni Morandi al Festival di Sanremo dopo che una tale Tamara Ecclestone si era offesa per non essere trattata da perfetta sconosciuta qual è. Solo che ci deve essere stato un difetto di comunicazione tra il manager della starlette e i lungimiranti funzionari della Rai perché la signora o signorina Mrazova, non sapendo cos’è il Festival della canzone italiana, ha immediatamente dichiarato ai poveri cronisti incaricati di spremere acqua dalle pietre che lei la canzone italiana proprio la detesta.
Il bello è che anche questo minimo episodio ci dà conferma che viviamo in un Paese in cui nessuno si scandalizza più di nulla, un Paese emancipato anche nelle minchiate. Il brutto è che la signora o signorina Mrazova condurrà davvero il festival di qualcosa che odia apertamente.

P.S.
Spunto per i poveri cronisti che devono spremere acqua dalle pietre: chissà che ne pensa Tamara Ecclestone…

Tutti da Fiorello, come Fiorello

E’ davvero un peccato che la trasmissione di Fiorello sia finita, anche se è immaginabile che la Rai – a meno di follie suicide – abbia fatto tesoro dell’esperienza.
Come ci siamo detti sin dall’inizio, la grandezza dello showman siciliano è quella di far sembrare nuovo ciò che è antico e collaudato. E questo in una nazione di dilettanti allo sbaraglio (magari con la spinta di papi) è una bella cosa. Però se una critica può essere mossa a Fiorello, senza il rischio di finire crocifissi su Twitter, questa riguarda la sudditanza degli ospiti. Tutti, da lui, parlano come lui, citano lui, si muovono come lui. Persino Roberto Benigni risparmia sulle battute e fa il verso al padrone di casa.
Ecco, in un prossimo spettacolo del più grande showman dopo il weekend sarebbe bello che la vecchia regola del varietà fosse rispettata: ognuno resta fedele al suo personaggio.
E poi Fiorello è così piacevolmente debordante che si può anche risparmiare sugli ospiti.

Miss, mia cara miss

Miss Italia è in crisi, perde telespettatori quasi come il Tg1 di Minzolini. E Patrizia Mirigliani, quest’entità metafisica che si affaccia sulle nostre vite una volta all’anno al pari di una zucca di Halloween, punta il dito contro la Rai che non garantisce ospiti adeguati come fa invece col festival di Sanremo. Continua a leggere Miss, mia cara miss

Se alla Rai non piacciono i gay

Ciò che dovrebbe destare scandalo nella vicenda del telefilm censurato dalla Rai a causa di una scena in cui si ricostruisce un matrimonio gay in un convento, non è il perpetrarsi di un atto odioso contro gli omosessuali (era già accaduto con I segreti di Brokeback Mountain), bensì la presunzione che tutti gli italiani siano idioti. Continua a leggere Se alla Rai non piacciono i gay

La maschera di bronzo

C’è qualcosa di strabiliante nella maschera di bronzo che il segretario politico del Tg1, Angusto Minzolini (e non c’è refuso), indossa prima di ogni editoriale.
Ieri si è arrivati alla vetta dell’immaginifico, alla linea Maginot della democrazia televisiva.
In un momento in cui il governo Berlusconi prende bastonate dalla Lega, cioé dal suo principale alleato, e in cui è (finalmente) minato alle fondamenta da uno scandalo a prova di gossip, quello di Bisignani e della P4, il direttore del principale telegiornale nazionale non trova di meglio da fare che blaterare contro l’opposizione, cioé contro la componente più insignificante dell’arco costituzionale italiano, e contro quelle stesse intercettazioni che hanno portato alla luce un gigantesco sistema di malaffare.
Non una sola parola sui traffici, sulle odiose raccomandazioni, sugli agguati agli oppositori, sui clientelismi che le nuove inchieste giudiziarie stanno svelando. Perché questa indagine – se leggete le carte – ha tutto tranne che un sapore politico: ministri, sottosegretari, capitani d’azienda, burocrati parlano con questo Bisignani e si condannano da soli. Non c’è una sola parola, nelle intercettazioni, che lasci spazio alla buona fede di questi signori.
Ma tutto questo Angusto Minzolini finge di non saperlo e, indossata la sua maschera di bronzo, continua ad appestare il Tg1 con le sue controdeduzioni da lingua felpata.
Per me, che sono un abbonato Rai, il vero scandalo del servizio pubblico è il direttore di telegiornale che ogni giorno bara, non il conduttore di un programma di approfondimento (Michele Santoro) che una volta alla settimana dà la sua lettura dei fatti.

Col rimedio in tasca (altrui)

C’è un conduttore televisivo che fa il pieno di ascolti nella tv pubblica anche se è arrogante e antipatico e non piace al governo però fa guadagnare molti milioni di euro alla Rai e anzi dà il meglio di sé quando è più attaccato dalla sua stessa azienda, e logica imporrebbe che se proprio non si potesse fare a meno di criticarlo gli si blindasse il contratto in modo da godere per più tempo possibile dei vantaggi economici che procura, e invece l’azienda pubblica se ne libera con un sospiro di sollievo come se rinunciare a un programma di punta fosse un motivo di vanto e nessuno dei burocrati della succitata azienda si preoccupa del danno economico perché si è già trovato il rimedio che come al solito era ben nascosto nelle tasche degli italiani, compensare il mancato introito con un aumento del canone Rai.

Calamandrei, Ferrara e un Capezzone al cubo

Ieri sera Giuliano Ferrara, nella sua trasmissione Radio Londra, ha citato Piero Calamandrei per attaccare Piero Grasso e Luigi De Magistris (e ovviamente Antonio Di Pietro, ma questo non fa notizia). “I magistrati devono essere bocche della legge”, ha  detto dimenticandosi di aver già fatto la stessa citazione due mesi fa, nello stesso programma. Ora sarebbe facile dire che Ferrara ha letto, in vita sua, solo Calamandrei se avesse riferito anche frasi del genere (tutte di Calamandrei, of course):

“La legge è uguale per tutti” è una bella frase che rincuora il povero, quando la vede scritta sopra le teste dei giudici, sulla parete di fondo delle aule giudiziarie; ma quando si accorge che, per invocar l’uguaglianza della legge a sua difesa, è indispensabile l’aiuto di quella ricchezza che egli non ha, allora quella frase gli sembra una beffa alla sua miseria.

Oppure:

Fra le tante distruzioni di cui il passaggio della pestilenza fascista è responsabile, si dovrà annoverare anche quella, non riparabile in pochi anni, del senso della legalità.  Per vent’anni il fascismo ha educato i cittadini proprio a disprezzare le leggi, a far di tutto per frodarle e per irriderle nell’ombra.

Oppure:

Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuole fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? (…) Allora il partito dominante segue un’altra strada. Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private.

Sarebbe facile, appunto, dire che Giuliano Ferrara ha letto solo Calamandrei. Infatti così non è. Perché lo ha letto, confrontato, scremato e utilizzato per propria convenienza.
La differenza che passa tra un giornalista e un Capezzone è, appunto, un Ferrara, che per stazza e multitasking politico è una frazione di giornalista e un Capezzone al cubo.