Alto Godimento

Uno dei ricordi più nitidi della mia infanzia è legato a Gianni Boncompagni. È il 1971, ho otto anni, ho gli orecchioni e non sono andato a scuola. È quasi ora di pranzo, ma i miei non sono ancora rientrati a casa. Mia nonna si occupa in un’altra stanza di mio fratello che è ancora piccolo. Io mi chiudo nella mia cameretta con la radio Voxon di mio padre. Vorrei smontarla (la radio o forse anche la cameretta), a quell’età smontavo tutto, pezzo per pezzo senza arrivare a nulla che non fosse la vite primordiale. Ho gli attrezzi e una voglia matta di usarli. Deve essere stato in quel periodo che mi è cresciuta l’insana voglia di decostruire tutto quel che è ordinato, di scardinare insensatamente: che siano transistor, parole o pezzi di vita sarà il caso a stabilirlo.
Eppure prima di svitare (avevo anche un insensato martello, pronto per le occasioni di maggiore resistenza), accendo. E dalla radio escono due voci che mi catturano. Parlano di un esperimento mai provato prima: la radio dell’olfatto. Dicono: “Avvicinate il vostro naso all’altoparlante e annusate… cosa sentite?”. Io ovviamente mi lascio ammaliare, ci mancherebbe, sono sensibilissimo alle droghe logiche, alle sirene della stranezza. E annuso: sento odore di metallo… sento odore del dopobarba di mio padre. E penso che la radio Voxon non sia adatta a questo esperimento. Annuso di nuovo. Ma quelli parlano di rosmarino, di menta…
E io ho il naso inutilmente spalmato sulla Voxon.

Ci ho messo anni per metabolizzare questo ricordo.
Era Alto Gradimento e la panzana della radio dell’olfatto era una briciola dell’immenso bagaglio di scherzi e genialate che i due conduttori, Renzo Arbore e Gianni Boncompagni, avevano inventato.
A questo ho pensato quando ho appreso della morte di Gianni Boncompagni. A quanto la radio e la tv che lui e Arbore hanno inventato ha condizionato la nostra esistenza.
Alto Gradimento è stata la base di una radio trasversale, fuori dagli schemi e irriverente. Per capirne il peso pensate che il programma radiofonico più ascoltato in Italia oggi è lo Zoo di 105, un versione infinitamente più volgare sboccata e piccola del capolavoro di Arbore e Boncompagni.
Poi il tempo ha diviso le strade dei due geni e anche dei miei gusti.
Sono sempre stato un arboriano convinto: più L’altra domenica (Arbore) e meno Discoring (Boncompagni).
Non ho mai visto una puntata di Non è la Rai, ma solo per motivi anagrafici. Si narra che l’intuizione di Boncompagni fu quella di aver inventato un programma che per immagini e palinsesto intercettava l’orario della pippa degli adolescenti appena rientrati dalla scuola (e chissà i perversi padri…). Però, d’altro canto, ritengo che Il mondo, Ragazzo triste e Tuca Tuca siano canzoni geniali, ognuna col suo carico di innovazione e irriverenza.
Ecco, in soldoni, perché la morte di Boncompagni ci riguarda. Perché riguarda tutti quelli come noi, assetati di musica, oltre i cinquanta, diffidenti nei confronti della tv ma pronti a farsi stregare dalla prima minchiata tecnologica. Combattuti tra la compulsione del nuovo a tutti i costi e la drammatica arrendevolezza con cui Arbore ha ricordato ieri il compagno di mille, incredibili avventure: “Ci siamo divertiti moltissimo e ora non ci divertiamo più”. Ma in fondo va capito: amara può essere la vecchiaia di chi ha avuto una vita dolce.

Arbore e la tv che non c’è più

I 75 anni di Renzo Arbore sono il compleanno di un artista geniale e garbato e allo stesso tempo il funerale di una tv che non esiste più. Chi ha più o meno la mia età non potrà mai dimenticare un programma come “L’altra domenica” che (insieme a “Odeon, tutto quanto fa spettacolo” dei grandi Brando Giordani ed Emilio Ravel) incise profondamente sul costume del Paese in cui viviamo.
Per la Rai il fatto che Arbore sia in buona salute è un ulteriore motivo di sconfitta: non c’è scusa per averlo tenuto lontano dai palinsesti.
Gran parte dell’intrattenimento di qualità, quel poco che rimane in giro, deve a lui qualcosa: persino le trasmissioni radiofoniche più dissacranti (da “Ciao Belli” a lo “Zoo di 105”)  saccheggiano in maniera più o meno consapevole l’“Alto gradimento” degli anni Settanta.
Oggi Arbore gira il mondo con la sua orchestra. Non mi ha mai fatto impazzire come musicista, questione di gusti. Ma mi manca molto, ancora oggi, quando accendo la tv e vengo violentato da un reality o da un talk show sguaiato.
Era una televisione divertente, quella di Arbore, piena di rimandi e sottotesti che accendevano la mente, era una televisione low cost e altamente fidelizzante. Era – per dirla con un po’ di populismo – una televisione per la quale era giusto pagare un canone.

Fiorello e la novità di una tv antica

Perché Fiorello piace? Perché è rassicurante. Perché propone una tv antica che, dopo anni di buio catodico, sembra quasi nuova.
Con la sua verve da animatore – un tempo si sarebbe detto da animale da palcoscenico –  coinvolge anche i clienti più svogliati: grida, saltella, ripete le battute per i distratti. Dà soddisfazione a quelli delle prime file, ammaestrati per una comparsata a favore di telecamera, e suona la sveglia a quelli che sonnecchiano in fondo, i follower di Twitter.
E soprattutto è talmente bravo da spacciare l’acqua calda per novità dirompente. Se più di trent’anni fa Renzo Arbore con la sua “Altra domenica” avesse potuto rubare qualche minuto alla diretta (finta) di Canale 5, lo avrebbe fatto di certo. Solo che allora non c’era il Biscione e la competizione tra le reti televisive era solo una questione di lottizzazione.
Fiorello è un gran cazzeggiatore e ha il merito di riuscire a portare sul piccolo schermo tutti i suoi pensieri trasversali. Ogni tanto ci azzecca (geniale la trovata di fregare Mimmo Foresta alla D’Urso), ogni tanto no (quella con Caparezza si capiva a distanza che era una marchetta discografica o qualcosa del genere).
Alla fine ci si diverte, come nei vecchi varietà dove tutto era in qualche modo annunciato, anche le sorprese, e dove la serena professionalità degli autori garantiva un intrattenimento garbato.
#ilpiùgrandespettacolodopoilweekend è un programma che merita perché, almeno per una volta, vale l’investimento economico: belle scenografie, ospitate non banali, orchestra tosta, regia senza fronzoli.
Unico interrogativo: che lo hanno pagato a fare Daniel Ezralow?