Un buon look per il derby

palermo-catania

di Cinzia Zerbini

E’ di pelle e giace nel mio armadio da almeno un anno. E’ un giubbottino rosa, di quelli leggeri, da primavera. Quando lo indossai tutti mi dissero: “Bene, finalmente ti sei convertita! “  Oddio che ho fatto? Ho pensato. E in effetti  sotto il giubbotto un paio di pantaloni neri marcavano un’appartenenza  calcistica che andava sfatata subito. L’indomani indossai  i miei pantaloni blu con una maglietta rossa. E tutti a dirmi: “Io non mi vestirei così. Con le ultime brutte figure che avete fatto…”.
Vivere a Palermo da etnea significa subire uno sfottò continuo nel caso di sconfitta. Quando il Catania perse 5 ad uno, per mesi, dal barista al parrucchiere, mi salutarono con il palmo aperto.  Significa sentirsi dire che Zenga è peggio di Ballardini. Significa non capire nulla di calcio e pur tuttavia sapere chi è Fontana, chi è Canzonieri e chi è Mascara. E so anche chi è Amelia.
I muri di Palermo sono pieni di inviti ai catanesi. Ovunque vengono mandati a quel paese con una buona dose di epiteti non proprio edificanti. Conosco palermitani, con laurea, che pur di vedere soffrire i catanesi venderebbero la propria madre. Ci sono professionisti catanesi che farebbero altrettanto.  Vivere da etnea a Palermo significa sentirsi dire, in una pessima imitazione della cantilena: “Io ho un sacco di amici a Catania… Siete più avanti di noi, siete simpatici… Pensa: il mio migliore amico è di Catania e addirittura una volta sono stato fidanzato con una delle tue parti”. Sconvolgente.
Così domenica,  io e altre “extracomunitarie” trasferite da anni nel capoluogo (chi per amore, chi per lavoro) andremo al Barbera.  Abbiamo già il posto in tribuna e ci mescoleremo tra la folla sperando di non essere additate al pubblico ludibrio. Nel caso di vittoria catanese esulteremo in modo discreto. In caso contrario mal celeremo il nostro disappunto.
Abbiamo già scelto il look. Indosseremo capi e accessori rigorosamente rosa, nero, rosso e blu.  Forse ci arresteranno per policromia azzardata.

I conti di Palermo

La vignetta è di Gianni Allegra
La vignetta è di Gianni Allegra

Gian Antonio Stella ci racconta (e a molti di noi ricorda) la voragine economica del comune di Palermo. L’amministrazione Cammarata gestisce un bilancio che per il 72 per cento serve soltanto a pagare i dipendenti comunali. E quanti sono questi dipendenti? Quasi ventiduemila, uno ogni trenta abitanti.
E’ solo uno dei dati allucinanti di una situazione allucinante. Il resto è nelle carte della Corte dei conti (che qualcuno a Palazzo delle Aquile considera una stupida congrega nobiliare) che ha chiesto all’invisibile primo cittadino spiegazioni che rispettino almeno le regole dell’aritmetica. Cammarata però dice di avere tutto sotto controllo: “Entro un paio di settimane risolveremo la questione”. E certo: che saranno mai ventisei milioni di debiti fuori bilancio nel 2007?
L’atmosfera è quella del tavolo di una pizzeria quando viene portato il conto e il meno alticcio dei commensali chiede: “Chi è che non ha pagato, eh?”. Invece l’aria dovrebbe essere ben diversa: un buco milionario in un comune magnanimo solo con pochi (perlopiù amici, amici degli amici…) dovrebbe provocare un fisiologico rossore sui volti dei colpevoli. Eppure non vediamo nulla, sarà che sono tutti così abbronzati…

Il buio del parcheggio

lampione a lutto
Da Flickr, foto dell'autrice

di Cinzia Zerbini

“Signora, ci posso dire due parole?”
Mi giro e mi investe un’ondata di couperose attaccata a una faccia che sta sotto un cappello con la scritta Forza Palermo. Rosa e nero.
”Io ci volevo dire, signora, che lei dice sempre: ho pagato stamattina. Ma ora sono le sette di sera e lei ha la macchina posteggiata dalle 9. Perciò lei ha pagato mio zio Michele e non me”.
Lo guardo. C’è un freddo cane nel piazzale accanto alla piscina comunale di Palermo. Di fronte alle tre torri, sede di centinaia di poliziotti. Il vento gelido mi fa volare anche il fondotinta.
“Scusi – rispondo – Cosa vuole dirmi? Devo pagare anche lei? Quindi devo contribuire al mantenimento della sua famiglia con due euro al giorno?”
“Noooo, signora non ci sto dicendo questo. Ci volevo dire che magari può capitare che nell’ora in cui mio zio se ne va e arrivo io, magari, che ne so, uno ci può strisciare lo sportello, magari uno va indietro con la macchia e ce la può investire. Io ce lo volevo dire… Quindi lei deve pagare chi trova all’uscita”.
“Quindi – chiedo e mi stupisco che con questo freddo mi escano ancora le parole dalla bocca – lei mi sta dicendo che se non pago trovo la macchina distrutta?”.
“Noooo signora. Non ci sto dicendo questo. Ci volevo dire che noi siamo venti anni che siamo qui e ci conoscono tutti.  Io ce lo volevo dire perché può capitare che la macchina resta scoperta”.
Mi faccio forza per non piangere e gli chiedo. “Scusi, ma secondo lei questo è un discorso etico? Lei lo sa cos’è l’etica? Io non sono tenuta a pagarla, né lei a controllarmi la macchina.  Le sembra giusto che io devo andare a lavorare anche per lei? Va bene. Siccome qui lei è il padrone e mi minaccia io la macchina qui non la metterò più”.
Finisco la frase e penso ai commenti dei miei amici quando racconterò l’accaduto: ”Ma che dici  al posteggiatore… se conosce l’etica?”
“Signora, faccia finta che io niente ci dissi. Lei lo sa per quanto lavoro io qui, al freddo? E poi io che ci posso fare se il sindaco Cammarata, ‘u governo, non mi dà il lavoro?”.
Mi allunga la mano. “Una buona serata”.
Fuggo via piangendo.

Un premio per imparare

fratellanza
di Raffaella Catalano

La cerimonia ha uno stile tra Hollywood e Bollywood. Ma si svolge a Palermo, al Teatro Ranchibile dell’istituto Don Bosco. Sul palco dei salesiani c’è un trono d’oro su cui siede la regina della festa, in abito rosso con collo di finto ermellino, guanti bianchi, corona e scettro. Intorno, dieci principesse, tutte belle, giovani, in lungo e supercolorate, in attesa di sapere chi sarà l’eletta del 2009 in un concorso che somiglia a Miss Italia, anche se la prescelta sarà una filippina. Sono quasi tutti filippini, al Ranchibile, a partire dal presentatore, Armand – il capo di questa comunità asiatica a Palermo – che è anche un cantante famoso, non solo nel suo paese e nella nostra città.
I siculi presenti sono pochi. Ma buoni, a quanto pare. Tant’è che sono lì per ricevere il premio per il “Miglior datore di lavoro dell’anno”. Uomini e donne che annoverano dei filippini tra i loro impiegati regolari: in casa, nelle aziende di famiglia, in campagna o in un negozio. Hanno tutti addosso un fiore verde ricoperto di brillantini: le signore in testa, i signori appuntato sulla giacca. Quel fiore consegnato all’ingresso distingue i candidati al premio dai loro parenti e accompagnatori.
Dopo una preghiera, qualche canzone, un paio di video con la storia di famiglie filippine ormai radicate da anni a Palermo – il tutto rigorosamente in lingua tagalog e altri idiomi asiatici – si balla e poi si fa una sosta per il rinfresco. A metà della serata partono le interviste, stavolta in italiano, a chi tra i presenti stranieri conosce e apprezza i datori di lavoro siculi candidati al premio, per ricostruire la storia della loro disponibilità, del loro altruismo, della loro sensibilità e delle altre qualità umane che li avvicinano, secondo i loro impiegati, più a dei benefattori che a dei datori di lavoro in senso stretto. Una specie di agiografia trionfale, insomma.
Il rito culmina con la consegna di una targa d’argento e di diversi altri premi a corollario.
E poi di nuovo canti, balli, drink e stuzzichini, fino all’elezione della “princess” filippina edizione 2009, al calar della notte.
Folclore? Pacchianeria? No, non direi.
Chiedetevi quando mai avete visto un datore di lavoro nostrano celebrare un suo dipendente, anche se impeccabile. E quando mai avete visto un impiegato nostrano celebrare il suo datore di lavoro, pur se magnanimo.
Questo non è colore locale asiatico. Questa è civiltà. E in tempo di scontri e di razzismi idioti è una grande lezione di vita.

Biglietti a turno, signori

L’attimino fuggente

di Giacomo Cacciatore

Avevo già saputo da qualcuno tutta la faccenda, ma non ci volevo credere. Ieri ho visto e toccato con mano. La nuova attività degli abusivi palermitani è fare il turno alle poste. “Fare” non nel senso ampio del termine (leggasi: attendere, mettersi a, procedere nel turno). Ma farlo, crearlo. E cederlo. Mi spiego meglio. Se vi capiterà di andare in un qualsiasi ufficio postale in questi giorni, dopo un blitz contro i posteggiatori abusivi, scoprirete un’anomalia nei numeri del turno elettronico. Preso dal distributore il vostro biglietto che segna, che so, il numero 525, volgendo lo sguardo attorno a voi vi capiterà di constatare il seguente paradosso: solo due, tre, o al massimo una decina di utenti in attesa allo sportello. Un’occhiata al display che regola la coda, e la sorpresa, lo sconcerto, lo smarrimento aumentano: il numero luminoso sarà un 200, 225 al massimo. Ricapitolando: il biglietto che avete in mano dice 525, il display indica 200, ma in sala c’è un numero di persone che non giustifica questo buco nella fila numerica, nemmeno se ci fosse stata una migrazione di massa di utenti verso il bar più vicino. Che è accaduto? E’ entrato Silvan? David Copperfield?
Niente di tutto questo. Uscendo dalle poste, smarriti, noterete di sicuro un omuncolo che vi saluta sommessamente, con un malloppo cartaceo sospetto raccolto in una mano. Guardando meglio, saprete che si tratta di un mucchio di biglietti del turno automatico. Quest’uomo provvede a raccogliergli di buonora, per poi piazzarsi davanti alle poste e distribuirli agli ultimi arrivati. Il numero del turno è a scelta. Un benefattore? No. E’ accertato che, per avere un piazzamento vantaggioso nella fila che non ti sei curato di fare, si va dall’uno ai due euro di obolo. Arrivi bello fresco, compri il numero che ti fa sbrigare prima e sei allo sportello. Ovviamente quelli che come me e voi cercheranno di fare un turno regolare, dovranno sopportare la perdita di tempo dell’impiegato che chiama una quantità imprevedibile di numeri a vuoto, per vedersi poi sopravanzare da un furbo che è giunto all’ultimo momento con la sua monetina da un euro o due. Senza contare che tutti i tempi di previsione per l’attesa ne risultano falsati. Pare che sia una specie di epidemia: nessun ufficio postale esente. Si può anche ridere dell’arte di arrangiarsi. Noi ci riusciamo benissimo. Sempre. Troppo.

Apostoli, colazione e cena

Thoiry, sul sottile confine tra Francia e Svizzera. Colazione felicemente pigra a casa di amici. Dopo il primo caffè, Mara (palermitana d’esportazione, come suo marito) fa: vediamo che si dice a Palermo.
Accendo il computer e scarico la mia copia di E Polis. Scorrono le pagine in pdf.
Un po’ di yogurt, grazie.
Ecco la cronaca della città.
Spremuta di arance?
Naturalmente!
Cammarata nomina dodici saggi per risollevare la città.
Brioche?
Ancora, grazie.
E’ tutta gente di Palermo che sta al nord, che occupa posti di successo.
Mi passi il burro?
Secondo le propalazioni del sindaco, i dodici saggi si muoveranno su un terreno che va dal turismo alla mobilità, dalla cultura al porto. Tutto lo scibile amministrativo, insomma.
Un po’ d’acqua, per favore.
Ma loro lo sanno di essere stati nominati?
E che ne sappiamo.
Quanti hai detto che sono?
Dodici.
Come gli apostoli! Ma si sono già incontrati?
Mmmh, non credo.
Quindi c’è ancora tempo per l’ultima cena.
Oh, no! Ma che paragoni…
Hai ragione. Ancora caffè?

Le mille bolle blu

Mi concedo qualche giorno di vacanza. E vi lascio con una segnalazione che spero apprezzerete.  Da oggi (15) a domenica (18), torna in scena, al Teatro Nuovo Montevergini di Palermo, “Le mille bolle blu”, il monologo scritto dal giornalista Salvatore Rizzo, interpretato e diretto da Filippo Luna.
“Le mille bolle blu” racconta la struggente storia di un amore omosessuale vissuto per trent’anni nella clandestinità. Protagonisti sono Nardino ed Emanuele, barbiere il primo e avvocato il secondo: la scintilla tra i due giovani scocca proprio nella bottega di Nardino, tra una poltrona in acciaio, pelle e bianca ceramica e una saracinesca abbassata.
La bottega diventa così il cuore pulsante di un amore che infrange le regole di una società abituata a relazioni di tutt’altra natura, un sentimento segreto che costeggia – senza mai scalfirla – la  loro normale vita di mariti e padri di famiglia.
“Le Mille bolle blu” è tratto dall’omonimo racconto contenuto nel libro “Muore lentamente chi evita una passione. Diverse storie diverse”, pubblicato lo scorso anno da Sigma Edizioni (da giugno Pietro Vittorietti Edizioni), una raccolta di dieci storie, tutte autentiche, di omosessualità maschile in Sicilia, dai primi anni del Novecento fino ai nostri giorni. I racconti sono firmati da tre giornalisti palermitani: Salvatore Rizzo, Angela Mannino e Maria Elena Vittorietti.

Se questo è un arbitro

Il signor Banti ha regalato una partita al Cagliari concedendo un gol in fuorigioco (di almeno mezzo metro) e negando un paio di falli cruciali al Palermo.
Arbitro, secondo il dizionario De Mauro, è chi dirige una competizione facendone rispettare il regolamento.
L’arbitro Banti è, parafrasando Michele Serra, un ossimoro vivente.

Lo specchio del barbiere

Storie minime

di Roberto Puglisi

Lo specchio del barbiere è il custode della nostra anima filosofica. Ti siedi e osservi quel tale, dall’altra parte del riflesso, mentre gli tagliano i capelli, mentre gli accorciano la barba, mentre gli cambiano il cuore. Che cosa è il cuore se non il riverbero della nostra immagine, la percezione emotiva di noi stessi, lo specchio d’acqua torbido o puro in cui guardiamo i sentimenti, pezzi di carne in bocca a un cane bavoso? Intorno a quella fetta di carne che ci pende dalle labbra, non sapendo mai cosa fare, se lasciarla cadere o addentarla, rimandiamo le scelte. Rimandando, le costruiamo intorno un castello di pensieri per renderla invisibile: è ghiotta la nostra filosofia.
Mi sono seduto ancora una volta, con supremo sprezzo del pericolo e del ridicolo, sullo scranno del barbiere. Quando ero bambino, c’era mio padre specchiato in lontananza su uno sgabello offerto al pubblico. Ogni tanto, mi sorprendo a cercarlo, nonostante l’evidenza. A dispetto dell’evidenza, mi sento abbandonato. Come se il mio volto di dodicenne appesantito fosse rimasto solo in un deserto crescente, in un nulla che tutto invade, spazzando via affetti e gioie. Non vedo più nemmeno il barbiere. Forse ha lasciato qui la sua mano forbicemunita, una finzione, il simulacro di un’eguaglianza dei giorni che non esiste. Di chi è la voce che parla del Palermo? E’ Dio? E’ un registratore nascosto, per meglio ingannare? Mi alzo confuso, gocciolante di dubbi e dopobarba. Non ho il coraggio di specchiarmi oltre. Al mio posto si siede Gianni che fu colpito dalla meningite quando era bambino e bambino è rimasto, a prescindere dal suo corpo. Gianni sorride. Recita una filastrocca a memoria. Io vorrei fare finta di leggere il giornale. Ma a un certo punto non ce la faccio più. Mi chino e gli poso un bacio sulla guancia.

L’immagine riproduce l’acrilico su tela “Cronaca” di Gianni Allegra, per gentile concessione dell’autore.