Carrozzieri e la cocaina

Moris CarrozzieriE’ la pratica del lancio delle uova dal balcone. Ci si apposta, si individua il bersaglio ideale (quindi qualcuno che cammini lentamente per problemi suoi), si lancia, ci si nasconde, si ride.
Quello su Moris Carrozzieri, difensore del Palermo scoperto dall’antidoping dopo una tirata di cocaina,  è un lancio di uova collettivo.
Non ho familiarità con gli stupefacenti. Ancor prima che pericolosi, li trovo tragicamente annoianti. Però mi metto nei panni di un ragazzone ricco, sportivo e discretamente famoso che, per decreto biologico, ha la facoltà di poter sbagliare da solo.
Nel fatalismo di una scelta c’è tutto quello che un’altra fetta di umanità, quella infelice e gretta a causa delle sue certezze senza opzioni, non conoscerà mai.
E’ un attimo: non ci pensi, non hai problemi, spegni il cervello (che da acceso ha invece molte più chance di successo) e prendi una strada invece che un’altra.
Carrozzieri aveva due strade: rifiutare la cocaina del festino in discoteca e avere una storia esaltante in più da raccontare ai suoi figli; oppure cedere alla vacua tentazione del momento e sperare nell’oblio chimico ancor prima che della sua coscienza.
Ha scelto la seconda. E, nel momento in cui esercitava il suo diritto da titolare privilegiato della grande partita della vita, ha sbagliato.
La via che ha imboccato è quella che gli infelici sorvegliano con patologica attenzione: cosa c’è di meglio che godere delle sventure di un fortunato? Quale migliore soddisfazione nel sentirsi sollevati per le disgrazie degli eletti?
Cazzate da popolo di serie Z.
Ora non servono le uova tirate di nascosto, che sanno di moralismo peloso, per macchiare la sua bella maglietta costosa e ridacchiare al riparo del balcone. Servono domande silenziose che lo inducano a risposte rumorose.
Come pensi di rimediare?
Cosa farai domani per ripulirti?
Quando troverai un rimedio alla mia atroce delusione di tifoso?
Lo sai che sei un fortunato che ha sposato la sventura come compagna di strada?
Moris Carrozzieri è condannato a rispondere.

Basta

Non vedevo l’ora che Milan-Palermo finisse. E non per mettere un punto all’inconsolabile pena della mia squadra. Ma per non sentire più i commenti insulsi di Jose Altafini.

Cammarata dei record

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Foto da Rosalio

Da ieri il sindaco invisibile della città dal malessere visibilissimo ha un nuovo record: il maggior numero di tentati suicidi in una protesta contro un’amministrazione dell’emisfero australe. In cinque, rigattieri in cerca di una regolarizzazione del loro lavoro, hanno manifestato in modo estremo attendendo invano un incontro con un essere vivente (e pensante) del Palazzo.
Ieri, come in altre occasioni ben più importanti, il sindaco Cammarata ha svolto il suo personalissimo ruolo in modo strabiliante. Non solo sottraendosi al confronto, ma addirittura facendosi sequestrare nella sua villa di rappresentanza.
Se il coniglio non esce dal cilindro la colpa è del prestigiatore.
Non credo che chi manifesta abbia sempre ragione, cortei e blocchi stradali non costituiscono certo l’esame cruciale per ottenere un qualunque diritto. Ma in questo caso sono certo che una colpa i rigattieri ce l’hanno di sicuro: non si tenta di mettere sotto scacco il nulla.

Parlo, ma non suono

favetto_webOggi alle 18 se siete a Palermo e se passate dal Foro Italico, entrate al Kursaal Kalhesa. Si presenta Le stanze di Mogador di Gian Luca Favetto (Edizioni Ambiente). Il libro è inserito nella collana Verdenero, il noir contro l’ecomafia, che riunisce vari scrittori italiani, tra cui Tullio Avoledo, Giancarlo De Cataldo, Carlo Lucarelli, Loriano Macchiavelli, Francesco Abate, Massimo Carlotto, Piero Colaprico, Giacomo Cacciatore, il sottoscritto e molti altri.
Io accompagnerò Favetto nella sua presentazione. E giuro che non suonerò, anche se qualcuno ha infamato i musicisti includendomi nella categoria.

Mai gratis

L'illustrazione è di Gianni Allegra
L'illustrazione è di Gianni Allegra

Questo blog, a differenza di quello precedente, non ha pubblicità. Potrebbe rappresentare cioè un prodotto gratuito. Occhio però: io non regalo nulla. Scrivo perché per me scrivere è una necessità, un piacere, un’eruzione cutanea, una difesa, una dimostrazione di esistenza in vita, una possibilità di confronto, un atto di onanismo sfuggito alle regole della Chiesa, una liberazione, e un lavoro. Quindi il blog ha l’effetto di un prodotto gratuito, ma non lo è. In realtà io ho un compenso duplice: la mia soddisfazione (intellettuale, onanistica, eccetera) e la vostra partecipazione. Voi, in questo caso, mi pagate con la moneta dell’attenzione.
Quindi non è gratis. Ci tengo a sottolinearlo perché io ho allergia a tutto ciò che è gratis.
Come sapete, ogni opera della natura ha la sua moneta. In termini di energia, di conservazione, di miglioramento, di semplice sussistenza. In campo umano – esclusi ovviamente i regali, il volontariato e i sentimenti – la prestazione d’opera gratuita è un modo di richiedere/fornire prodotti di infima qualità travestendoli da prodotti convenienti quindi opportuni.
Nel mio mestiere di autore – e qui molti colleghi potranno confermare – si vive nella rarefazione del buon senso. Uno ti chiede di scrivergli “una cosa” perchè “che ti costa? Tu ci sei abituato. A te viene facile…”.  Ora, il fatto che a me/noi venga più semplice scrivere rispetto a chi si occupa di altro non comporta l’abolizione del compenso. Nella bellissima prefazione di Raffaella Catalano per un volume che sarà pubblicato il prossimo anno in Spagna si legge pressappoco così: quando a Palermo ti chiedono cosa fai per vivere e tu rispondi “lo scrittore”, la domanda seguente è “sì, ma che lavoro fai?”.
Insomma, la possibilità di guadagnare scrivendo è esclusa per assioma.
Ecco, pur sapendo che ci sono autori ben più titolati di me, vorrei sommessamente ululare che gratis non si crea. Nel migliore dei casi si pasticcia.

Nei panni di Tony Ciavarello

spalleIl signor Tony Ciavarello ha passato il fine settimana davanti al computer a rispondere e a difendersi. Il signore in questione è il marito della figlia di Totò Riina e l’occasione per questo dialogo-scontro con gli internauti è stata la pubblicazione su Rosalio della notizia di un’indagine della Guardia di Finanza su una società riconducibile a lui e a sua moglie.
Insomma, casa Riina (Ciavarello è genero del capomafia quindi non è un estraneo) si apre al confronto.
Più che impelagarsi in analisi sociologiche, è utile rimanere ancorati ai fatti. Se non ricordo male, qualche anno fa la sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo rigettò una proposta restrittiva (obbligo di dimora e sorveglianza speciale) nei confronti del signore in questione perché la sua parentela acquisita non bastava, da sola, a farne una persona pericolosa.
I fatti però non sono soltanto quelli che attengono alle aule di giustizia. Ciavarello chiede di essere considerato una persona normale, di essere trattato come un qualunque cittadino. Dal punto di vista giuridico ha ragione. Ma dal punto di vista umano e sociale gli si chiede qualche sforzo.
Ogni persona di buon senso capisce che il suo è un ruolo molto difficile. La sua “liberazione”, se davvero è ispirata da nobili propositi, passa attraverso alcune strettoie. Tony Ciavarello non è un qualsiasi Tony Ciavarello. E noi non viviamo a Disneyland, ma a Palermo – Sicilia – Italia.
Non serve una abiura ufficiale, basta la buona fede (che è una lunga strada). Non servono parole vuote (“bisogna vedere chi sono i veri mafiosi, se sono solo quelli come Totò Riina o se ce ne sono nascosti dietro mentite spoglie”), ma parole semplici, anche sofferte.
Ciavarello, se  è davvero animato da buone intenzioni,  a mio modesto parere dovrebbe frequentare meno avvocati e più estranei. Per mostrarsi e raccontarsi. Dovrebbe sottoporsi al calvario di una semplice, scontata domanda, ripetuta mille e mille volte: non si è rotto le scatole della mafia? Risposta secca, senza argomentazioni da Bignamino del qualunquismo.
Dovrebbe presentarsi come il più dritto dei chiodi dritti, anche quando il martello percuote: mai farsi martire, opporre le proprie ragioni sempre, quello sì.  Dovrebbe battersi per fugare ogni diffidenza con la semplice forza di un argomento: sto da una parte ben precisa del tavolo, nonostante la vita mi abbia riservato anche un posto dall’altro lato.

Cammarata, lo sfacelo immobile

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La vicenda è complicata, ma esemplare. Provo a riassumere. L’Amia di Palermo, azienda per l’igiene ambientale, è sospettata di essere scenario di un consistente falso in bilancio dal momento che, negli anni 2005-2006, ha inventato un gioco di scatole cinesi societarie per mascherare un buco di 150 milioni di euro (soldo più, soldo meno). La voragine avrebbe come causa principale la gestione clientelare delle assunzioni: parenti dei dipendenti, figliocci di esponenti politici, precari di ogni genere e grado. Lo scorso anno la procura apre un’inchiesta e i vertici della società, tra cui l’ex presidente e oggi senatore del Pdl, Enzo Galioto, vengono indagati. L’accusa ipotizzata è falso in bilancio, un reato che da qualche anno può essere perseguito solo se c’è una querela della parte lesa. E chi è la parte lesa? Il Comune. E chi regge il Comune? Il sindaco Diego Cammarata. E chi ha nominato Galioto? Il sindaco Diego Cammarata. E di che partito è il sindaco? Del Pdl. Come Galioto, minchia!
Riassunto del riassunto.
Dunque Galioto, nominato da Cammarata, è accusato di un falso in bilancio che vedrebbe come parte lesa colui il quale lo ha nominato, cioè Cammarata. Un parricidio virtuale insomma. Un tradimento di moneta. E il la all’inchiesta deve darlo, per legge, proprio la vittima, il padre offeso, il tradito. Senza, non se ne fa niente, liberi tutti, cin cin e vai con Apicella.
Finisce, con scarsa originalità, che il sindaco non querela, che la maggioranza (del Pdl, of course) fa saltare la seduta cruciale del consiglio, che l’opposizione con un fremito post mortem abbozza l’occupazione dell’aula consiliare, che i termini per consentire l’avvio dell’inchiesta della magistratura scadono.
E’ un record planetario per Cammarata: l’unico sindaco al mondo che riesce a fare sfaceli semplicemente restando immobile.

Un buon look per il derby

palermo-catania

di Cinzia Zerbini

E’ di pelle e giace nel mio armadio da almeno un anno. E’ un giubbottino rosa, di quelli leggeri, da primavera. Quando lo indossai tutti mi dissero: “Bene, finalmente ti sei convertita! “  Oddio che ho fatto? Ho pensato. E in effetti  sotto il giubbotto un paio di pantaloni neri marcavano un’appartenenza  calcistica che andava sfatata subito. L’indomani indossai  i miei pantaloni blu con una maglietta rossa. E tutti a dirmi: “Io non mi vestirei così. Con le ultime brutte figure che avete fatto…”.
Vivere a Palermo da etnea significa subire uno sfottò continuo nel caso di sconfitta. Quando il Catania perse 5 ad uno, per mesi, dal barista al parrucchiere, mi salutarono con il palmo aperto.  Significa sentirsi dire che Zenga è peggio di Ballardini. Significa non capire nulla di calcio e pur tuttavia sapere chi è Fontana, chi è Canzonieri e chi è Mascara. E so anche chi è Amelia.
I muri di Palermo sono pieni di inviti ai catanesi. Ovunque vengono mandati a quel paese con una buona dose di epiteti non proprio edificanti. Conosco palermitani, con laurea, che pur di vedere soffrire i catanesi venderebbero la propria madre. Ci sono professionisti catanesi che farebbero altrettanto.  Vivere da etnea a Palermo significa sentirsi dire, in una pessima imitazione della cantilena: “Io ho un sacco di amici a Catania… Siete più avanti di noi, siete simpatici… Pensa: il mio migliore amico è di Catania e addirittura una volta sono stato fidanzato con una delle tue parti”. Sconvolgente.
Così domenica,  io e altre “extracomunitarie” trasferite da anni nel capoluogo (chi per amore, chi per lavoro) andremo al Barbera.  Abbiamo già il posto in tribuna e ci mescoleremo tra la folla sperando di non essere additate al pubblico ludibrio. Nel caso di vittoria catanese esulteremo in modo discreto. In caso contrario mal celeremo il nostro disappunto.
Abbiamo già scelto il look. Indosseremo capi e accessori rigorosamente rosa, nero, rosso e blu.  Forse ci arresteranno per policromia azzardata.

I conti di Palermo

La vignetta è di Gianni Allegra
La vignetta è di Gianni Allegra

Gian Antonio Stella ci racconta (e a molti di noi ricorda) la voragine economica del comune di Palermo. L’amministrazione Cammarata gestisce un bilancio che per il 72 per cento serve soltanto a pagare i dipendenti comunali. E quanti sono questi dipendenti? Quasi ventiduemila, uno ogni trenta abitanti.
E’ solo uno dei dati allucinanti di una situazione allucinante. Il resto è nelle carte della Corte dei conti (che qualcuno a Palazzo delle Aquile considera una stupida congrega nobiliare) che ha chiesto all’invisibile primo cittadino spiegazioni che rispettino almeno le regole dell’aritmetica. Cammarata però dice di avere tutto sotto controllo: “Entro un paio di settimane risolveremo la questione”. E certo: che saranno mai ventisei milioni di debiti fuori bilancio nel 2007?
L’atmosfera è quella del tavolo di una pizzeria quando viene portato il conto e il meno alticcio dei commensali chiede: “Chi è che non ha pagato, eh?”. Invece l’aria dovrebbe essere ben diversa: un buco milionario in un comune magnanimo solo con pochi (perlopiù amici, amici degli amici…) dovrebbe provocare un fisiologico rossore sui volti dei colpevoli. Eppure non vediamo nulla, sarà che sono tutti così abbronzati…

Il buio del parcheggio

lampione a lutto
Da Flickr, foto dell'autrice

di Cinzia Zerbini

“Signora, ci posso dire due parole?”
Mi giro e mi investe un’ondata di couperose attaccata a una faccia che sta sotto un cappello con la scritta Forza Palermo. Rosa e nero.
”Io ci volevo dire, signora, che lei dice sempre: ho pagato stamattina. Ma ora sono le sette di sera e lei ha la macchina posteggiata dalle 9. Perciò lei ha pagato mio zio Michele e non me”.
Lo guardo. C’è un freddo cane nel piazzale accanto alla piscina comunale di Palermo. Di fronte alle tre torri, sede di centinaia di poliziotti. Il vento gelido mi fa volare anche il fondotinta.
“Scusi – rispondo – Cosa vuole dirmi? Devo pagare anche lei? Quindi devo contribuire al mantenimento della sua famiglia con due euro al giorno?”
“Noooo, signora non ci sto dicendo questo. Ci volevo dire che magari può capitare che nell’ora in cui mio zio se ne va e arrivo io, magari, che ne so, uno ci può strisciare lo sportello, magari uno va indietro con la macchia e ce la può investire. Io ce lo volevo dire… Quindi lei deve pagare chi trova all’uscita”.
“Quindi – chiedo e mi stupisco che con questo freddo mi escano ancora le parole dalla bocca – lei mi sta dicendo che se non pago trovo la macchina distrutta?”.
“Noooo signora. Non ci sto dicendo questo. Ci volevo dire che noi siamo venti anni che siamo qui e ci conoscono tutti.  Io ce lo volevo dire perché può capitare che la macchina resta scoperta”.
Mi faccio forza per non piangere e gli chiedo. “Scusi, ma secondo lei questo è un discorso etico? Lei lo sa cos’è l’etica? Io non sono tenuta a pagarla, né lei a controllarmi la macchina.  Le sembra giusto che io devo andare a lavorare anche per lei? Va bene. Siccome qui lei è il padrone e mi minaccia io la macchina qui non la metterò più”.
Finisco la frase e penso ai commenti dei miei amici quando racconterò l’accaduto: ”Ma che dici  al posteggiatore… se conosce l’etica?”
“Signora, faccia finta che io niente ci dissi. Lei lo sa per quanto lavoro io qui, al freddo? E poi io che ci posso fare se il sindaco Cammarata, ‘u governo, non mi dà il lavoro?”.
Mi allunga la mano. “Una buona serata”.
Fuggo via piangendo.