Il buio del parcheggio – 2

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Da Fickr, foto dell'autrice

di Cinzia Zerbini

“Buonasera, come sta?”
“Male signora, male”.
Era un po’ di tempo che non lo vedevo, il posteggiatore – gentiluomo. Quello  a cui, dopo una brutta avventura e un’accurata indagine di mercato,  affido la macchina.
“Sto male signora – prosegue – Mi ho lasciato con mia moglie”.
“Mi dispiace, è stato per l’aborto?”.
Il posteggiatore in questione aveva raccontato a me e a all’intero quartiere che la consorte, incurante del suo parere contrario, voleva “fare l’aborto” del secondogenito.
“Sì  – risponde – Ora vive dai suoi genitori. Io il 18 marzo sono tornato a casa e non ho trovato niente. Si era portato tutto: dalle fotografie ai vestiti del bambino. Ora ha messo in mezzo l’assistente sociale”.
“Perché?”.
“Perché ho fatto una sciocchezza: mi ho impiccato”.
Lo osservo con la curiosità di chi vede per la prima volta il viso di un suicida fallito.
“E chi l’ha salvata?” domando.
“Un mio amico. Io gli avevo mandato un messaggio dicendo di salutarmi tutti, compresa la mia sposa, e che la mia vita era finita. Così lui è arrivato a casa mia, ha spaccato il vetro di una finestra e mi ha preso. Se ritardava un attimo, morto mi trovava”.
Quando mi consegna le chiavi della macchina chiedo: “Il bambino, adesso lo vede?”.
“Lo vedo di nascosto all’assistente sociale”, mi dice sottovoce.
“E se sua moglie se ne accorge?”
“Mia moglie lo sa. E’ d’accordo con me”.
Non ci capisco nulla e vado. Mentre sento che un altro automobilista lo saluta: “Peppe, come stai?”
“Male. Mi ho lasciato con mia moglie e mi ho impiccato”.

Il buio del parcheggio

lampione a lutto
Da Flickr, foto dell'autrice

di Cinzia Zerbini

“Signora, ci posso dire due parole?”
Mi giro e mi investe un’ondata di couperose attaccata a una faccia che sta sotto un cappello con la scritta Forza Palermo. Rosa e nero.
”Io ci volevo dire, signora, che lei dice sempre: ho pagato stamattina. Ma ora sono le sette di sera e lei ha la macchina posteggiata dalle 9. Perciò lei ha pagato mio zio Michele e non me”.
Lo guardo. C’è un freddo cane nel piazzale accanto alla piscina comunale di Palermo. Di fronte alle tre torri, sede di centinaia di poliziotti. Il vento gelido mi fa volare anche il fondotinta.
“Scusi – rispondo – Cosa vuole dirmi? Devo pagare anche lei? Quindi devo contribuire al mantenimento della sua famiglia con due euro al giorno?”
“Noooo, signora non ci sto dicendo questo. Ci volevo dire che magari può capitare che nell’ora in cui mio zio se ne va e arrivo io, magari, che ne so, uno ci può strisciare lo sportello, magari uno va indietro con la macchia e ce la può investire. Io ce lo volevo dire… Quindi lei deve pagare chi trova all’uscita”.
“Quindi – chiedo e mi stupisco che con questo freddo mi escano ancora le parole dalla bocca – lei mi sta dicendo che se non pago trovo la macchina distrutta?”.
“Noooo signora. Non ci sto dicendo questo. Ci volevo dire che noi siamo venti anni che siamo qui e ci conoscono tutti.  Io ce lo volevo dire perché può capitare che la macchina resta scoperta”.
Mi faccio forza per non piangere e gli chiedo. “Scusi, ma secondo lei questo è un discorso etico? Lei lo sa cos’è l’etica? Io non sono tenuta a pagarla, né lei a controllarmi la macchina.  Le sembra giusto che io devo andare a lavorare anche per lei? Va bene. Siccome qui lei è il padrone e mi minaccia io la macchina qui non la metterò più”.
Finisco la frase e penso ai commenti dei miei amici quando racconterò l’accaduto: ”Ma che dici  al posteggiatore… se conosce l’etica?”
“Signora, faccia finta che io niente ci dissi. Lei lo sa per quanto lavoro io qui, al freddo? E poi io che ci posso fare se il sindaco Cammarata, ‘u governo, non mi dà il lavoro?”.
Mi allunga la mano. “Una buona serata”.
Fuggo via piangendo.

Biglietti a turno, signori

L’attimino fuggente

di Giacomo Cacciatore

Avevo già saputo da qualcuno tutta la faccenda, ma non ci volevo credere. Ieri ho visto e toccato con mano. La nuova attività degli abusivi palermitani è fare il turno alle poste. “Fare” non nel senso ampio del termine (leggasi: attendere, mettersi a, procedere nel turno). Ma farlo, crearlo. E cederlo. Mi spiego meglio. Se vi capiterà di andare in un qualsiasi ufficio postale in questi giorni, dopo un blitz contro i posteggiatori abusivi, scoprirete un’anomalia nei numeri del turno elettronico. Preso dal distributore il vostro biglietto che segna, che so, il numero 525, volgendo lo sguardo attorno a voi vi capiterà di constatare il seguente paradosso: solo due, tre, o al massimo una decina di utenti in attesa allo sportello. Un’occhiata al display che regola la coda, e la sorpresa, lo sconcerto, lo smarrimento aumentano: il numero luminoso sarà un 200, 225 al massimo. Ricapitolando: il biglietto che avete in mano dice 525, il display indica 200, ma in sala c’è un numero di persone che non giustifica questo buco nella fila numerica, nemmeno se ci fosse stata una migrazione di massa di utenti verso il bar più vicino. Che è accaduto? E’ entrato Silvan? David Copperfield?
Niente di tutto questo. Uscendo dalle poste, smarriti, noterete di sicuro un omuncolo che vi saluta sommessamente, con un malloppo cartaceo sospetto raccolto in una mano. Guardando meglio, saprete che si tratta di un mucchio di biglietti del turno automatico. Quest’uomo provvede a raccogliergli di buonora, per poi piazzarsi davanti alle poste e distribuirli agli ultimi arrivati. Il numero del turno è a scelta. Un benefattore? No. E’ accertato che, per avere un piazzamento vantaggioso nella fila che non ti sei curato di fare, si va dall’uno ai due euro di obolo. Arrivi bello fresco, compri il numero che ti fa sbrigare prima e sei allo sportello. Ovviamente quelli che come me e voi cercheranno di fare un turno regolare, dovranno sopportare la perdita di tempo dell’impiegato che chiama una quantità imprevedibile di numeri a vuoto, per vedersi poi sopravanzare da un furbo che è giunto all’ultimo momento con la sua monetina da un euro o due. Senza contare che tutti i tempi di previsione per l’attesa ne risultano falsati. Pare che sia una specie di epidemia: nessun ufficio postale esente. Si può anche ridere dell’arte di arrangiarsi. Noi ci riusciamo benissimo. Sempre. Troppo.