C’era una volta

Il nuovo non avanza, si insegue, si stana, C’è questa insana idea che l’innovazione ci debba raggiungere comunque, ineluttabilmente come le tasse, la morte e il silenzio di Badalamenti (cit.). Invece no, e che a ricordarlo qui debba essere un tizio come il sottoscritto che ha più strada alle spalle che futuro davanti è divertente (almeno per me).
L’idea del futuro è qualcosa che ti prende alle spalle, senza un motivo apparente.
E per spiegare bene vi racconto due brevi episodi della mia vita.

Metà anni ’90, Giornale di Sicilia. Ero vice caporedattore, capo delle Cronache Siciliane, e nel quasi totale disinteresse di una redazione analogica guardavo oltre. Mi interessava questa strana macchina virtuale che metteva in comunicazione le persone del mondo con un paio di clic, ci si scambiavano esperienze, musica,  deliri notturni. Perché era di notte che vivevamo a quei tempi, noi smanettoni. Tutti gli altri ci guardavano storto, poiché il web percepito era allora legato alla clandestinità delle sensazioni: e poco importava se era scambio di files o di numeri di telefono. Noi eravamo marchiati. Al giornale eravamo in due: io e Daniele Billitteri. Parlavamo la stessa lingua, anche perché lavoravamo insieme già da oltre un decennio. E solo dopo una manciata di anni sarei riuscito a convincere l’editore che non bastava un modem semiclandestino a mettere in moto il cambiamento.
Il resto è storia. Il sito del Gds venne varato con grande successo di pubblico e poi inspiegabilmente chiuso per cinque anni. Anni in cui da spento come testimoniai su queste pagine da spento il gds.it faceva oltre tremila utenti unici al giorno. Insomma, ogni giorno tremila persone si collegavano per guardare un monoscopio. E l’editore non ne sapeva nulla, nel migliore dei casi.
Oggi il Gds sta affondando e la gestione dell’online è uno dei capitoli cruciali del “come non si fa”: roba da studiare all’università.

Agosto 2014, Teatro Massimo di Palermo. Il sovrintendente Francesco Giambrone mi chiede di riposizionare il Teatro sul web e non solo. Accetto al buio per due motivi: conosco e stimo Francesco da molti anni e soffro per come il teatro è nudo e disarmato di fronte a qualsiasi tipo di innovazione. Mi invento una web tv, accendo i riflettori dei social, metto su un sito degno di questo nome, e si va. Soprattutto mi prende alle spalle l’idea, quella idea che altrimenti avrei temuto… sì, quella : mandiamo GRATIS online tutte le prime delle nostre opere, con sei telecamere, in full hd.
Ma come? E se le diamo gratis, chi se lo compra il biglietto? Se lo chiedono molti dinosauri della burocrazia, ma non Giambrone. Che, senza battere ciglio, si fida e mi dà carta bianca. Non ne ho mai parlato prima d’ora, ma credo che la sua lungimiranza sia stato il catalizzatore ideale per la mia follia.
Oggi il Teatro Massimo ha una partnership consolidata con Google (ultimamente anche con YouTube), è finito sulla prima pagina del New York Times anche per la sua attività sul web, e ha una web tv che non sfigura in campo mondiale.

Perché vi ho raccontato queste storie?
Perché nel mio minuscolo servono a testimoniare che, anche e soprattutto nei momenti complicati, l’innovazione è un’idea che deve volare libera dai lacciuoli dell’ordinarietà. Sennò è buona amministrazione, o lucida burocrazia, altra cosa comunque.
Le migliori idee vengono sempre quando si è senza guinzaglio (o quando anche per poco al guinzaglio si è sfuggiti). E non è detto che siano buone, la percentuale di rischio dà il valore umano, professionale e intellettuale di chi le avalla. Perché farsele venire è una cosa, approvarle è un’altra.

Siamo in un’epoca difficile e per questo dobbiamo pensare a nuovi grimaldelli, nuove chiavi di lettura, nuovi parametri per catalogare gli items che ci circondano.
E se lo faccio io che, proprio in questo momento, sento per la prima volta sul groppone tutto il peso dei 57 anni accumulati spesso barando nelle mie sei-sette vite, non vorrete non farlo voi, giovani e forti?
Quindi pensate, pesate, agite.  Il mondo, oggi più che mai, è dei creativi o comunque di quelli che non hanno paura di mettersi a nudo per raccontare una storia che gli altri aspettano (anche se non lo sanno).

Sin quando ci sarà un “c’era una volta” ci sarà una volta. E una luce da spegnere su un bambino che prenderà sonno e che progetterà un mondo nuovo, con un futuro da stanare, inseguire.

Il dio pazzo del web

L’articolo pubblicato sul Foglio.

Sarà un dio e sarà pure un pazzo. Sarà burlone e ingiusto, ma è un dio che ci sa fare con gli affari. Fiuta la preda, la insegue e la fa sua: senza finirla, anzi iper-alimentandola e spingendola verso la bulimia. Più lei consuma, più il dio è soddisfatto. Più lei consuma, più lei stessa è sfiancata. Funziona così nel regno del web, nel cielo dei cieli telematici dove vive e regna nei secoli dei secoli il dio algoritmo.

Accade così che l’inspiegabile si dipani chiaro, come una pergamena srotolata, dinanzi ai nostri occhi e che Nostro Signore del bit ci reputi degni di assistere al più antico dei prodigi, quello della creazione.

Angela Chianello, da Palermo, è la raffinata esegeta degli sviluppi del contagio del Coronavirus, una via di mezzo tra la divulgatrice fai-da-te e l’opinionista da supermercato, che ha coniato il tormentone “Non ce n’è Coviddi”. Lo ha fatto dal suo privilegiato punto di osservazione – la spiaggia di Mondello nei giorni di uscita dal lockdown – scegliendo come tribuna l’agorà televisiva di Barbara D’Urso. La Chianello è l’ultima creazione del dio algoritmo, ed è stata plasmata con la sabbia del golfo di Palermo a futura memoria di un bel po’ di cose.

Non è bella, non è colta, per quel che si sa non è nemmeno cattiva (che pure è una caratteristica cruciale per farsi ricordare in questi tempi senza memoria), non ha un’arte da tramandare né un messaggio da diffondere che vada oltre le dieci sillabe. Lei esiste in funzione di ciò che non esiste, il “Coviddi” appunto, e fa discepoli senza bisogno di spezzare il pane e versare il vino (al limite può dividere un’arancina e sorseggiare una Fanta). Però fa miracoli niente male: la moltiplicazione dei followers è il più impressionante con quasi duecentomila seguaci in pochi giorni. Un suo video su Instagram dove dice semplicemente “Buongiorno” sulle note di una canzone napoletana totalizza cinquecentomila visualizzazioni in un fiat. Ha già diversi profili fake, come un Salvini di questi, e addirittura sdogana un triste oggetto di protezione come feticcio postmoderno quando, disvelando le labbra dal cupo di una mascherina, dà la buonanotte ai suoi ammiratori con sguardo ammaliante. 

Il dio, per via del suo mestiere di dio, ovviamente non si può criticare. Qualche sua opera sì. O meglio ci si può addentrare nei meccanismi della creazione per cercare di intuire se la fine del mondo è a portata di mano oppure se dobbiamo aspettarci altre rivoluzioni e/o benedizioni da Chianello et similia. Quindi con una mano snoccioliamo il rosario di grani bluetooth rincuorandoci con le parole di Vincent Van Gogh secondo cui “non bisogna giudicare il buon Dio da questo mondo, perché è uno schizzo che gli è venuto male”, e con l’altra entriamo nel backstage di una qualunque timeline di un social network come Facebook. Qui l’algoritmo non è altro che lo strumento attraverso il quale il motore del social decide, nello sterminato scenario delle combinazioni possibili, il peso di popolarità delle notizie che l’utente vede appena entra nel proprio account. Il meccanismo di funzionamento è segreto, tipo ricetta della Coca Cola (solo che qui si tratta di una lattina dalla quale bevono più di due miliardi di persone), ma qualche anno fa Adam Mosseri, ex responsabile dello sviluppo del News Feed a Facebook e oggi numero uno di Instagram, si è sbottonato in pubblico sulla logica dell’algoritmo.

In pratica Mosseri lo ha descritto come un “metodo naturale” attraverso il quale si possono prendere delle decisioni basandosi sulla storia precedente e sui dati a disposizione, facendo quindi delle inferenze- cioè delle deduzioni intese a provare o sottolineare una conseguenza logica – derivanti da questi. Domanda cruciale: quali sono i dati importanti, secondo Facebook, attraverso i quali si possono fare queste benedette inferenze?

Proviamo a spiegare senza incorrere nella blasfemia, dato che il dio del web è incazzoso e a farti passare dalla spiaggia della Chianello alla triste libreria di un qualunque Piero Angela ci mette un clic.    

Funziona così. Rispetto a tutti i post degli amici o delle pagine (Inventory) seguite da ciascuno di noi comuni mortali, l’algoritmo di Facebook verifica alcuni segnali (Signals) come per esempio chi ha postato cosa, fa delle predizioni in base alla storia passata di altri post, magari con caratteristiche simili, che sono stati commentati (Predictions) e attribuisce quindi ai singoli post un punteggio (Score).

Quindi per ogni singolo post l’algoritmo di Facebook analizza tutti i dettagli: chi ha postato, cosa, quando, che tipo di contenuto e quanto engagement, cioè coinvolgimento, ha generato finora. Al termine di questo processo, che qui è un ingombro di parole impilate ma nell’universo del dio web è lieve e istantaneo, si viene a creare un valore finale.

Questo valore è la scommessa dell’algoritmo su quanto egli crede che quel post possa piacere. Nel rispetto di quel punteggio, i post vengono messi in ordine nel News Feed del singolo utente da quello più alto a quello più basso. Ogni singolo utente si ritrova quindi un News Feed personalizzato, perché deriva sostanzialmente dalla sua interazione con le altre persone sul social network e dalla sua interazione con i diversi tipi di post. Insomma se fossimo al ristorante sarebbe un menù ad hoc coniato sulla base di ciò che abbiamo mangiato in passato, di ciò che mangiano abitualmente i nostri amici, di ciò che teniamo nel nostro frigorifero a casa, e di ciò che pensano i nostri amici del loro e del nostro cibo (e del nostro frigorifero): la qualità del cibo non ha nessuna influenza.

Nulla è per caso in questo mondo in cui persino un concetto rigido come quello di censura viene declinato a favore della pazzia del dio. Pensate alle foto di donne che allattano al seno o alla celebre immagine della ragazzina nuda che fugge al Napalm di Saigon: per il Nuovo Ordine Telecostituito si tratta di pornografia e vanno eliminate. Mentre bugie, fake news, propaganda nazista e contenuti trafugati ai legittimi autori sono ammessi e anzi in un certo senso incoraggiati poiché creano engagement, alimentano discussioni, insomma fanno tutto l’interesse dei social network e del loro mercato di interazioni. C’è un genere di errore stupido che solo le persone intelligenti possono commettere: presumere che un fatto acclarato possa sconfiggere una bugia facile e rassicurante.

Nel suo libro “The Four – I padroni” Scott Galloway, imprenditore ed esperto di marketing, spiega il successo di Google, Facebook, Apple ed Amazon con una frase secca: “Hanno sfruttato i nostri istinti”. Nello specifico Galloway affida un ruolo preciso, immaginifico ma non troppo, a ciascuna di queste quattro aziende.  “Google è il dio dell’uomo moderno. Immagina la tua faccia e il tuo nome su un libro che raccoglie tutto ciò che hai chiesto al motore di ricerca e capirai che ti fidi di Google più di qualsiasi entità al mondo”. Facebook ha invece una diversa collocazione. “È l’amore. Una delle cose meravigliose della nostra specie è che non solo dobbiamo essere amati, ma dobbiamo anche amare: Facebook soddisfa il nostro bisogno di amore”. Continua Galloway: “Amazon è il nostro intestino, e si occupa dell’istinto che forse sentiamo di più. Basta che tu apra uno dei tuoi armadi: magari hai da dieci a cento volte più di quello che ti serve. Perché? Perché la pena di avere troppo poco è molto più grande di quella di avere troppo”. Apple è il sesso, “il nostro secondo istinto più potente: scegliere il miglior seme in circolazione, per le donne, o diffonderlo, per gli uomini”. In tal senso, secondo Galloway, l’iPhone non è solo un telefono, ma è anche un goffo tentativo di affermare: “Se ti accoppi con me e non con un uomo Android, i tuoi figli avranno più probabilità di sopravvivere”.

Il dio algoritmo vede e provvede, in ogni ambito, in qualunque frangente, incoraggiato dal comportamento dei suoi sudditi, i consumatori, che hanno fatto chiaramente capire di essere disposti di rinunciare alla privacy in cambio di uno strumento che pensi e che agisca per loro: una vita per procura. Nessuno si inquieta se la tecnologia di ascolto del rumore ambientale di Facebook può capire se sono a un concerto di un certo cantante e, conseguentemente, mostrarmi la pubblicità di un suo nuovo album o comunque di qualcosa di collegato al suo merchandising. Però se si toccano temi come la religione o l’animalismo scatta subito una agitazione collettiva. Recentemente, senza troppi clamori, la Verify, azienda della Alphabet, si è lanciata nel campo delle assicurazioni sanitarie con la sua Coefficient Insurance. Ricordare che la Alphabet è una holding a cui fa capo Google non è un dettaglio: in pratica chi conosce i dettagli più intimi della nostra vita quotidiana, i nostri contatti, la frequenza con cui interagiamo con essi, i nostri desideri che elenchiamo quotidianamente sul motore di ricerca, adesso può valutare la nostra esposizione al rischio meglio di qualsiasi altra compagnia assicurativa.

Non è la prima volta che un’azienda tecnologica entra a gamba tesa nel settore dell’assistenza sanitaria. Già in passato, ben prima dell’emergenza Coronavirus, Alexa (Amazon) e DeepMind (Alphabet) hanno iniziato a lavorare col servizio sanitario inglese, la Apple ha collaborato con la compagnia assicurativa Aetna per usare i dati degli Apple Watch e premiare gli utenti che hanno stili di vita salutari, e Facebook ha lanciato Preventive Health, uno strumento che consiglia agli utenti di sottoporsi a controlli medici in base all’età e al sesso.

Il problema non è di privacy – elemento ben pesato dai giganti del web e affrontato anche in sede legislativa in vari Paesi – ma è sociale. Se ne è occupato recentemente sul Financial Times il sociologo Evgeny Mozorov avvertendo sul rischio “delle possibili riconfigurazioni di potere tra gruppi sociali – i malati e i sani, gli assicurati e i non assicurati, i dipendenti e i datori di lavoro – che saranno innescate una volta esaurito il clamore della notizia (il riferimento è al lancio della Coefficien Insurance). Bisogna essere molto ingenui – scrive Mozorov – per credere che un sistema di sorveglianza digitale più esteso, sul luogo di lavoro ma anche a casa, in auto e ovunque ci porti il nostro smartphone, possa favorire i più deboli. Certo potrebbero esserci effetti positivi (un ambiente di lavoro più salutare, forse), ma dovremmo chiederci: chi pagherà il prezzo di questa utopia digitale?”.

La risposta ovviamente non interessa il dio algoritmo. Però un’interessante chiave di lettura la fornisce il filosofo e professore presso il Gettysburg College in Pennsylvania sulla rivista digitale Aeon, partendo da un’altra domanda: abbiamo davvero il diritto di credere in ciò che vogliamo?

Secondo DeNicola questo diritto ha dei limiti importanti.

“Credere in qualcosa significa ritenerlo vero – ragiona DeNicola – ma questo non implica in modo automatico che quella convinzione lo sia realmente. Le credenze, per la maggior parte, non sono atti volontari, ma piuttosto idee e atteggiamenti. Il problema è rifiutare questo genere di ‘eredità’ quando si tratta di una credenza eticamente sbagliata – come considerare la pulizia etnica una soluzione politica accettabile”. Continua il filosofo: “Se una convinzione è immorale è anche falsa. Sostenere, per esempio, che una razza sia inferiore a un’altra, non solo è moralmente ripugnante, ma è anche sostanzialmente falso. Le credenze inoltre hanno uno stretto rapporto con la realtà e con la sua conoscenza: attribuire a un’autorità il fatto che dobbiamo credere in una cosa, oppure negare un avvenimento certo o ancora ignorare evidenti incoerenze è un atto di irresponsabilità, somiglia piuttosto a voler abbracciare un desiderio. Per questo – conclude DeNicola – la libertà di credere deve avere dei limiti”.

Sarà un dio e sarà pure un pazzo. Sarà burlone e ingiusto, ma è un dio che ci sa fare con gli affari. L’algoritmo ha costruito la sua roccaforte decostruendo le antiche logiche: oggi la verità e la falsità palese sono del tutto ininfluenti in termini, ad esempio, di successo politico. Sempre più persone rifiutano i fatti perché minacciano l’identità che si sono costruite intorno alla loro visione del mondo.

La Chianello in tal senso è un prototipo di successo.

Elogio dello streaming

L‘articolo pubblicato su Il Foglio.

Si sa che il buio costringe ad aprire gli occhi, ma ci voleva davvero una pandemia per scoprire l’utilità dello streaming per tenere i cervelli connessi? Stando alle parole del ministro Dario Franceschini, che in pieno lockdown ha sparato l’idea della creazione di una “Netflix della Cultura”, sì. Stando alle carenze strutturali di un Paese che crede nell’innovazione tecnologica solo quando ha le pezze al culo e rischia di dover tornare ai telefoni a disco per ristabilire le comunicazioni, no: bisognava muoversi molto prima perché le idee partorite in piena emergenza sono a grande rischio di fallimento.

Il rapporto tra web e cultura in Italia risente di quelle stesse resistenze ideologiche che portarono il filosofo John Haugeland a gelare – sin dagli anni ’80 – le aspettative sull’intelligenza artificiale. “Ai computer non gliene frega niente” scrisse sulla distinzione tra la capacità di calcolo e quella di giudizio: laddove il calcolo è inteso nel suo senso etimologico originale, cioè il saper svolgere operazioni aritmetiche, e il giudizio è un impegno più complesso che richiede il coinvolgimento dell’intero sistema verso il mondo esterno. Oggi lo streaming è visto come uscita di sicurezza, come ultima spiaggia, e raramente come strumento utile anche in tempi di pace. È la stessa posizione di pregiudizio che, ben prima del Coronavirus, ha portato il mercato editoriale italiano fuori asse rispetto alle potenzialità del web.

L’errore fondamentale è tradurre tutto in una mera guerra di supporti: carta contro internet, analogico contro digitale, pagine contro byte. Soprattutto nel mondo della cultura, e nel mercato a essa connesso, dovrebbe essere chiara da tempo la diversa vocazione dei mezzi. Prendiamo l’opera lirica, uno degli spettacoli più complessi. È ben noto ad appassionati e addetti ai lavori che, a differenza di altre attività – come una partita di calcio, una serata di cabaret o persino un concerto rock – l’ambito, cioè il luogo nell’opera, conta in modo determinante sul godimento da parte dello spettatore. Il teatro come struttura fisica in questo caso è infatti parte integrante della forma di narrazione, con la sua acustica, con la sua architettura, e nessun surrogato potrà mai sostituirlo. Il web dal canto suo sollecita una componente voyeuristica che stimola altri sensi. Ripeto altri sensi, quindi non è in alcun modo un concorrente diretto. Applicando questi codici si può dimostrare, ad esempio, che generalmente la diretta streaming di un’opera non cannibalizza biglietti d’ingresso giacché non può essere inquadrata come qualcosa che sostituisce lo spettacolo dal vivo, ma al contrario assolve una funzione determinante, da manuale di marketing: crea desiderio.                

Pagare o non pagare, questo è il dilemma: lo streaming gratuito è sbagliato? Qui è questione di strategie. Innanzitutto va detto che c’è gratis e gratis. Una cosa è il non farsi pagare, un’altra è il non essere pagato. È la differenza che passa tra il dono e il furto: perché chi vuole da te una prestazione o un manufatto pretendendo di non pagare, è un mezzo ladro.

Però giudicare sbagliato lo streaming gratuito, stroncandolo senza appello, è come dare dello scemo al tale che raccoglie l’uva e, anziché mangiarsela, la mette in un tino e la pesta. Questione di prospettive. In Italia gran parte delle polemiche su questo tema vertono più sulla questione di principio (non è giusto lavorare gratis) che sulla strategia imprenditoriale (non guadagno oggi perché penso di guadagnare di più domani). Scegliere un’economia di posizione, ad esempio pasturare una fetta di pubblico ben selezionata con proposte gratuite, potrebbe rivelarsi utile soprattutto alla luce dei cali di presenze registrati dalla Siae (dati 2017-2018): meno 18,72 per cento nell’attività teatrale totale; meno 46,16 per cento nella concertistica.

“Lo streaming uccide l’arte”: è un’argomentazione riempipista. Al pari di: leggere su carta è un’altra cosa; il teatro è teatro, il web è web; si stava meglio quando si stava peggio. Lo streaming e il web non hanno mai assassinato nessuno, lo hanno fatto gli imprudenti nelle grinfie dei quali certi strumenti sono finiti e soprattutto lo ha fatto l’ignoranza, ergo l’endemica mancanza di conoscenza. Rassegniamoci: persino un libro nelle mani sbagliate può diventare un oggetto contundente. In questo campo ci sono molte varianti che raccontano dell’analfabetismo digitale italiano: il web ammazza i giornali, il web ammazza il commercio, il web ammazza le famiglie e via assassinando. In ogni forma di progresso c’è un lato oscuro, persino nei vaccini salvavita ci sono le controindicazioni. E poi diciamolo fuori dai denti: oggi, nell’anno di disgrazia 2020, lo streaming può essere la salvezza di un’arte confinata in un gigantesco sanatorio. Non sappiamo ancora se il mondo finirà per un Grande Starnuto ma, nell’attesa che i teatri tornino ad essere luoghi di cultura e non più raduni di potenziali appestati, bisogna accettare che il rapporto tra arte e web può essere cambiato: da convivenza a integrazione.

Non la pensa così la regista Emma Dante, che in piena emergenza Covid, ha spiegato su Facebook la sua linea di (non) azione: “Non farò teatro sul web o utilizzando chissà quali tecnologie pazzesche: il mio teatro non diventerà mai virtuale, è più facile semmai che mi ritroverò a fare teatro con soli due spettatori. Ribadisco, se questo deve diventare il teatro, allora meglio aspettare. Ma l’attesa non deve essere un privilegio di pochi, il tempo della ricerca non può essere il lusso di chi può permetterselo. I lavoratori dello spettacolo devono essere messi nelle condizioni di poterlo fare. Devono essere tutelati”. E sull’idea del ministro della Cultura di una piattaforma online per rilanciare il settore in crisi: “Mi dispiace che dal ministro arrivino proposte del genere e che non ci sia, invece, un dibattito serio su questi temi, sulla cultura, proprio adesso che il Paese ne ha grande bisogno”.

Da convivenza a integrazione, dicevamo. Un esempio lo fornisce il Teatro Massimo di Palermo che, per la sua riapertura in epoca di distanziamento sociale, ha scelto di ridisegnare lo spazio scenico abolendo la platea. E lo ha fatto affidandosi a un regista come Roberto Andò che conosce i codici del cinema, dell’opera e del romanzo e che ha immaginato uno spazio nuovo: a misura di spettatore, ovunque lo spettatore sia, in teatro o a casa.

Fuori dall’emergenza Covid, ma dentro il dibattito sul purismo dell’arte, il capofila della crociata contro lo streaming  è stato Steven Spielberg, che conduce da tempo una battaglia contro Netflix. “Mi auguro che tutti noi continueremo a credere che il principale contributo che possiamo fornire da registi è offrire al pubblico un’esperienza cinematografica” ha dichiarato nel discorso di ringraziamento per il Filmmaker Award tributatogli lo scorso anno dalla Cinema Audio Society a Los Angeles. “Credo fermamente che le sale cinematografiche continueranno a esistere per sempre. Amo la televisione, amo le possibilità che offre. Alcuni dei più grandi lavori di scrittura sono stati fatti per la televisione, oggi alcune delle migliori performance sono in tv. Il suono nelle case è migliore di quanto sia mai stato, ma niente può sostituire un cinema buio con persone che non hai mai incontrato prima con cui condividere l’esperienza”.

Quella di Spielberg è però una crociata per l’ortodossia del godimento del cinefilo, contro l’inscatolamento dei contenuti dal grande al piccolo schermo, alta nel suo simbolismo artistico ma stratosfericamente distante dai problemi di casa nostra. Dove spesso si ragiona per slogan. Uno di questi è: il web ci toglie lo stipendio. Vero se, come detto, lo strumento viene usato come panacea. Falso se si guarda la realtà senza pregiudizi. Di solito questa argomentazione minuscola viene usata perlopiù da un (purtroppo) maiuscolo sindacale spalmato su tutti i settori produttivi. Invece è bene ricordarlo. Ci sono categorie di lavoratori che durante il lockdown, in svariati campi, hanno vissuto solo grazie alla contestata evanescenza del web, e non ci si può arroccare in tecnicismi quando si tratta di sopravvivenza. Osteggiare per principio internet è la cosa più pericolosa che si possa fare. Studiarlo con umiltà sarebbe un dovere, come frequentare un corso estivo per ripetenti.  

Alla luce di tutto questo proviamo a rileggere la proposta della “Netflix della Cultura” lanciata da Franceschini. In un Paese che per aumentare la sua alfabetizzazione digitale ha avuto bisogno di una pandemia – basti pensare all’esplosione dello smartworking e del telelavoro, per non parlare dello choc collettivo della didattica digitale con insegnanti che non distinguevano un computer da una caffettiera costretti a prendere lezioni di chat dai loro alunni – non serve creare nuovi portali nel deserto. Basterebbe usare i mezzi che ci sono: le reti Rai ad esempio, che hanno una ramificazione territoriale e una dotazione tecnologica ben rodata. E soprattutto tenere d’occhio i grandi cambiamenti del web che in questo momento è di fatto nelle mani di quattro grandi aziende private statunitensi (Google, Facebook, Apple e Amazon). La Cina si è fatta avanti per imporre un nuovo modello di protocollo internet centralizzato che, di fatto toglie il pallino dalle mani dei privati e lo dà ai governi: una sorta di brace dopo la padella insomma. Il Financial Times ha visto in anteprima il progetto presentato nel settembre scorso agli uffici dell’Unione internazionale delle telecomunicazioni a Ginevra, un’agenzia dell’Onu che definisce gli standard mondiali per le tecnologie, dalla squadra cinese che si compone essenzialmente di ingegneri in forza al colosso Huawei. E lo ha descritto come una “architettura calata dall’alto” che nelle intenzioni dei creatori dovrebbe favorire progetti di condivisione tra governi “per metterli al servizio dell’intelligenza artificiale, della raccolta dati e di ogni altro tipo di applicazione”. In pratica è più di una larvata ipotesi che con questo nuovo tipo di Rete i fornitori di accesso a internet sarebbero generalmente di proprietà statale e avrebbero il controllo totale di tutti i dispositivi collegati. Insomma, con questi chiari di luna quando si accoppiano le parole “internet” e “cultura” bisogna stare molto attenti giacché si maneggia un materiale come la conoscenza che ha valore in quanto trasmissibile, cioè soggetto a scambio, a movimento. Se c’è una cosa che il lockdown ci ha insegnato è che da una difficoltà si esce solo con un cambiamento, e che non c’è tempo per perdere tempo. Il Darwinismo applicato agli enti culturali, come teoria di sopravvivenza dei più forti e soprattutto adattabili, può risultare crudele ma appare come una strada obbligata.          

La finestra e un film super 8

L’articolo pubblicato su la Repubblica Palermo.

Volevamo esplorare il mondo, siamo finiti a sbirciarlo dal chiuso delle nostre case. Noi e tutto il resto, separati da una finestra che non è metafora di nulla – manco a sforzarsi, da Alfred Hitchcock a Tano Festa da Henri Matisse a Joseph Conrad – ma solo netto, non ingiusto confine.

La mia finestra è ampia e racconta una storia stretta e lunga, come il budello che si faceva stradina tra le case popolari di un quartiere figlio del Sacco di Palermo e che oggi ha l’ardire di dirsi zona residenziale. Resuttana – San Lorenzo fu una distesa di agrumeti e di cemento abusivo fino a  quando, col salvacondotto dei Mondiali del ’90, gli agrumeti diventarono abusivi e il cemento diventò distesa. Oggi la mia finestra è inutilmente luminosa, quasi che il sole rimbalzi e si amplifichi sui palazzoni che stanno attorno, quasi che la meteorologia burlona ci possa riscattare dalla nostra ansia motoria, giri e giri per casa, giorni feriali in salotto e weekend in cucina (o viceversa, dipende dalle pulsioni e dalle ispirazioni a cui decidiamo di cedere) in un “cricetismo” che è una beffarda metafora di ciò che abbiamo (de)costruito: siamo ciò che percorriamo.

Quel che vedo fuori stride con quel che vedo dentro. Io ci sono cresciuto in questo quartiere, ma adesso è come se mi ci avessero paracadutato da un cielo che non è spazio, ma tempo. È come se mi mancasse un pezzo di realtà, di racconto.

Per cercare di risolvere questo arcano di sensazioni monche mi sono lasciato trasportare da una bellissima serie televisiva, The Man in the High Castle”, tratta da un romanzo ad alta gradazione distopica di Philip K. Dick, che racconta di un mondo alla rovescia: un mondo dove però c’è una pellicola cinematografica clandestina che raddrizza la storia e la porge al lettore/spettatore come dovrebbe essere, coi crismi di una realtà non farneticante.

Anche io ho un film clandestino. Una bobina che sulla celluloide di un super 8 vetusto incolonna i pezzi mancanti. Da ragazzini io e il mio amico Gianni, che viveva nell’appartamento sullo stesso mio pianerottolo, avevamo il vizio di sognare insieme a mezzo cinepresa. Con una vecchia Kodak abbiamo girato ore e ore di materiale pressoché inutile, ergo fondamentale per noi: appassionati di film horror mettevamo su, set improbabili coinvolgendo fratelli, sorelle e altri amici del palazzo, che finivano puntualmente ammazzati con gran dispendio di salsa di pomodoro e di rossetti trafugati alle nostre mamme. E poi c’era la nostra finestra. Da lì giocavamo a spiare l’umanità, immaginando di poter essere testimoni di chissà quale crimine, di filmare tutto e diventare famosi. L’umanità ci fece attendere un po’ e qualche anno dopo, sotto casa nostra, spararono a un meccanico. Ma per fortuna noi eravamo cresciuti e avevamo abbandonato la cinepresa per dedicarci ad attività più socializzanti, come andare al cinema con le ragazzine o impennare col Vespino. Un giorno ancora più avanti nel tempo, dalla stessa finestra, con la serranda socchiusa, sentii un rumore sconosciuto, come di dieci saracinesche che cadevano giù violentemente. Avrei avuto tempo di imparare rapidamente che quel rumore orribile proveniva dai kalashnikov che avevano massacrato il commissario Ninni Cassarà e l’agente di scorta Roberto Antiochia. 

Riavvolgendo la pellicola mi accorgo che il panorama di oggi è cambiato non tanto per il cemento e per il fatto che Monte Pellegrino non si vede quasi più (un tempo, quando ero un freeclimber, mia madre mi osservava col binocolo mentre ero in parete per sapere se ero vivo e per capire quando sarei sceso, in modo da poter calare la pasta in tempo). Manca un tassello fondamentale della socialità di noi ragazzi dell’epoca: il calcio per strada. Quello che oggi è un marciapiede mediamente sconnesso, nella mia memoria in formato super 8 era uno slargo in cui auto e ragazzini si contendevano senza spargimenti di sangue una fetta di spazio. Si giocava al pallone dove era possibile, bastavano un Super Santos e quattro maglioni da ammonticchiare per fare le porte. Mai nessuno di noi è stato investito, mai nessun pallone è sopravvissuto: la partita terminava quasi sempre perché il Super Santos si bucava, o veniva tagliato, o finiva nel balcone di qualcuno. Ma questa è la parte della storia che si diluisce nella leggenda.

Oggi dalla mia finestra vedo spazi inusitati per un quartiere come Resuttana – San Lorenzo, ma è un deserto artificiale circondato da una popolazione che, come uccelli appollaiati sui cavi della luce, aspetta dall’alto dei balconi. Aspetta un fischio di inizio o di fine, a seconda dei punti di vista. O un pallone che nessuno calcerà più.   

Odio, fenomenologia del contagio

L’articolo pubblicato sul Foglio.

Attenzione alle parole: “Non dormo più la notte da quando mi sono resa conto di cosa ho fatto, non dovevo insultare in quel modo su Facebook il capo dello Stato”. E ancora: “Era un periodo molto caldo, in cui gli animi erano surriscaldati da alcuni parlamentari dei Cinque Stelle di cui ero simpatizzante. Mi sono lasciata contagiare stupidamente da questi fatti. Io che sono madre, nonna, amante della pittura e degli animali”.

Sono alcune frasi pronunciate davanti ai magistrati di Palermo da Eliodora Elvira Zanrosso, 68 anni, una degli scriteriati che scrissero oscenità sui social network sul presidente Mattarella dopo che questi, nel maggio 2018, aveva respinto la nomina di Paolo Savona come ministro dell’Economia. La signora in questione è un prototipo perfetto dell’hater moderno giacché fornisce con la sua testimonianza tutti gli elementi che servono a identificare una fenomenologia dell’odio e del suo contagio.

In mezzo agli infiniti interrogativi su come sia possibile che una tranquilla persona “madre, nonna, amante della pittura e degli animali” si trasformi in una guerrigliera della volgarità, che al confronto “Napalm51” di Crozza è un monaco benedettino, scrivendo a Mattarella “Ti hanno ammazzato il fratello, cazzo… non ti basta?”, sorgono due certezze. La prima è che nulla di tutto ciò nasce in rete. La fonte dell’odio è sempre esterna al web ed è legata a un vento di irrazionalità e di incoscienza che soffia sul mondo delle cose reali, analogiche, sulle promesse della politica, sulle disparità di economie dissennate. Qualcosa di molto simile a una moda che si diffonde orizzontalmente calpestando culture, religioni, identità nazionali. Prendiamo il piercing, una pratica antichissima, addirittura preistorica, che serviva per marcare le differenze, i ruoli, tra i componenti di una tribù e che oggi, al contrario, è simbolo di omologazione: averlo significa essere nella tribù, aderire alla convenzione, vivere appieno il tempo in ci si è catapultati. Il piercing è una moda che è contagio fine a se stesso, senza ragione, senza storia. Esattamente come accade con l’odio.

La seconda certezza è che l’anonimato non più ha alcuna influenza sulla fabbrica della violenza verbale. Sembrano passati millenni dalle vecchie lettere minatorie, da quei messaggi costruiti con i ritagli dei giornali, simbolo di un artigianato della minaccia che ormai appare grottescamente desueto. Oggi tutto è in chiaro, esplicitamente vomitato. Pudore e paura – pudore nell’esporsi in una nudità di cattiveria, paura per le conseguenze che l’atto offensivo può innescare – sono seppelliti dall’impeto del clic: il mouse come una bomba molotov, la tastiera come la P38. I nuovi odiatori si mostrano col loro volto, sorridenti nel tinello, col gatto sulle ginocchia e il nipotino che dorme accanto. La pulsione li coglie alle spalle, senza quasi che se ne rendano conto.

Nel 1977 Don Siegel girò un film intitolato “Telefon”, il cui soggetto era tratto da un romanzo di due anni prima di Walter Wager. Si raccontava di un nutrito gruppo di spie sovietiche infiltrate negli stati Uniti, durante l’epoca della Guerra Fredda. Queste persone però non sapevano realmente di essere agenti segreti poiché erano state condizionate mediante lavaggio del cervello. Agivano e pensavano come perfetti cittadini statunitensi pur essendo inconsapevolmente pronte a svolgere il ruolo per cui erano state manipolate. L’impulso che attivava la loro volontà criminale arrivava per telefono ed erano alcuni versi di una poesia di Robert Frost, “Stopping by Woods on a Snowy Evening”: “I boschi sono belli, oscuri e profondi, ma ho promesse da mantenere e molte miglia da percorrere prima di dormire… molte miglia da percorrere prima di dormire”. In tal modo cittadini apparentemente innocui si trasformavano in sabotatori suicidi, che nulla ricordavano sin quando era troppo tardi.

Ora rileggiamo le dichiarazioni della signora Zanrosso: “Non dormo più la notte da quando mi sono resa conto di cosa ho fatto”: la sabotatrice che si risveglia.

“Era un periodo molto caldo, in cui gli animi erano surriscaldati da alcuni parlamentari dei Cinque Stelle di cui ero simpatizzante”: il meccanismo di attivazione.

“C’era Grillo che gridava da una parte, Di Battista dall’altra. Dicevano: prepariamoci a scendere in piazza. Buttiamo giù tutto il governo”: la paradossale chiamata in correità.

Tutto nel rispetto delle regole irregolari del contagio dell’odio. Ma il vero colpo di teatro non è il risveglio tardivo dell’”agente Zanrosso”, bensì il suo uno e due, il suo essere se stessa e un’altra.

Se fosse un film sarebbe trama poco plausibile, ma è la realtà e ci si butta senza rete. “Ti hanno ammazzato il fratello, cazzo… non ti basta?”, ringhia la nonna sui social. Ma dopo l’interrogatorio in Procura si materializza il suo alter ego: “Io li ho vissuti gli anni Ottanta, so chi era Piersanti Mattarella, il fratello del capo dello Stato. Voglio andare dal Presidente, voglio chiedere scusa”.

Dobbiamo ancora imparare a riconoscere i danni provocati da questo virus contagioso, però abbiamo piena contezza del sintomo principale: lo sdoppiamento di personalità.    

La domanda cruciale è: da dove origina tutto ciò?

Per cercare di capire dobbiamo andare indietro nel tempo, almeno sino al 1922 quando Walter Lippmann, premio Pulitzer, pubblica un saggio dal titolo “Public Opinion” in cui spiega come le idee dell’opinione pubblica possano essere distorte con relativa facilità. La sua tesi è che l’opinione il più delle volte non rispecchia la realtà, troppo complicata per essere capita. Inoltre questa dipende dallo pseudo-ambiente esterno che ogni individuo si costruisce in base a pregiudizi e in maniera più emotiva che razionale. Il concetto cardine di Lippman è lo stereotipo sociale, cioè una visione distorta e semplificata della realtà, una galleria di immagini mentali che ci costruiamo per semplificare il mondo e per renderlo a noi comprensibile. Che sfoci nel ciclone Black Friday o nel  dichiarazionismo forzato della Giornata contro la violenza sulle donne, il contagio della mobilitazione a mezzo social può contare su un abbassamento delle difese immunitarie del nostro libero arbitrio. Facciamo cose senza crederci: condivido ergo sum.

Col tempo affiorano nuove tecniche, sempre più raffinate, per plasmare come creta l’opinione pubblica. Si arriva così al grande inganno della sondocrazia, cioè quel falso modello di democrazia in cui la politica finge di governare per cambiare la società basandosi su “quello che la gente vuole”. È il modello demagogico attualmente in voga su Facebook e similari, che insegue persino le pulsioni più insane dell’opinione pubblica, stimolandole, per poi svolgere il vero ruolo, quello diabolico, di persuasore occulto.

Bobby Duffy, professor of Public Policy, direttore del Policy Institute presso il King’s College di Londra e soprattutto ex direttore generale della società di ricerche Ipsos, ha lavorato a lungo per studiare i rischi della distanza tra percezione e realtà (ci ha scritto anche un libro, “The perils of perception”) e lo scorso anno ha scoperto che gli italiani sono quelli che stanno peggio al mondo. “Hanno ipotizzato che il 49 per cento dei connazionali in età lavorativa fosse disoccupato, mentre in realtà si trattava del 12 per cento. Hanno valutato che gli immigrati fossero il 30 per cento della popolazione, quando la cifra reale era del 5 per cento. Hanno ipotizzato che il 35 per cento delle persone in Italia avesse il diabete, quando in realtà è solo il 5 per cento”, ha scritto. Ma non finisce qui. In Italia tendiamo a sovrastimare anche il tasso di criminalità, i livelli di obesità, perfino la percentuale degli ultrasessantacinquenni tra noi.

Con un’opinione pubblica così, tutto è più complicato. O più semplice. Dipende dai punti di vista. Complicato per chi cerca di rimanere aggrappato ai fatti, semplice per chi li gestisce tramite la sondocrazia magari per sfruttare percezioni più utili per i suoi scopi.

Il quadro eziologico del nostro contagio adesso è più chiaro.    

C’è un virus dell’odio che giova a una certa classe dirigente.

C’è un vettore social dell’infezione, tipo zanzara con la malaria.   

Ci sono gli untori, cioè gli spargitori (o spammatori?) del male.

E poi c’è il precario stato di salute del corpo nel quale si diffonde l’infezione, un Paese gravemente fiaccato dall’analfabetismo funzionale: i dati della più importante indagine di settore, lo studio Piaac, collocano l’Italia al quarto posto di questa triste classifica mondiale con il 28% della popolazione adulta “incapace di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere da testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità”.

Schematizzando. Siamo un Paese in cui molte persone hanno pochi strumenti, o se li hanno non li sanno usare, per barcamenarsi in una realtà oggettivamente complessa, e che quindi cercano una scorciatoia per sentirsi adeguate: vanno a caccia di short-version magari condite con un’abbondante dose di emotività, che le aiutino a sentire quel che non sono in grado di capire. Ciò al netto del famoso effetto Dunning-Kruger, un bug cognitivo secondo il quale meno le persone sanno più presumono di sapere, causa di danni irreparabili soprattutto in sovrapposizione col dilagare di un’incompetenza talmente profonda e radicata da non arrivare neppure alla soglia della consapevolezza.

C’è infine la questione controversa della filter bubble cioè della bolla di filtraggio: gli algoritmi dei social media ci porgono prevalentemente contenuti che potrebbero piacerci, e che quindi confermano le nostre opinioni. Ma su questo fenomeno esiste una fronda di osservatori del web che tende a minimizzare gli effetti del filtro rinviando ai comportamenti della vita reale: in fondo anche quando la sera usciamo a cena scegliamo di andare con persone scelte sempre nella stessa cerchia di amici e conoscenti.

Quando Manlio Cassarà, un altro degli odiatori di Mattarella sotto inchiesta a Palermo, ebbe il suo “risveglio” dalla trance di violenza verbale che gli aveva ispirato un “hanno ucciso il fratello sbagliato”, la prima cosa che disse fu: “Ho scritto senza riflettere”. Confermando un concetto di libertà applicato ai social secondo il quale un’opinione è tale solo se esce dall’orifizio giusto. 

Anche la nonna emula di Napalm51 nel suo “risveglio” ha usato un simile argomento a sua discolpa: “Ho quasi 70 anni, faccio parte di quella generazione che non è certo composta da geni della tastiera, ho la terza media, sono istintiva. È stata la mia inesperienza, eravamo tutti su di giri in quel momento”.

L’idea di far passare per frasi buttate così, pseudo-argomentazioni violente e offensive è purtroppo un effetto secondario, ma non meno pernicioso del virus. Perché non esistono scuse che possano far rimarginare la ferita quando è il contagio che determina il destino di una teoria, anche la più balzana, non la sua validità.

Dani che corre

Quindici anni fa – era appena uscito il mio “Di nome faceva Michele” – l’Unità mi chiese un racconto per la loro raccolta “Invito alla festa con delitto“. Scrissi questo “Dani che corre”, una strana storia d’amore, di sangue e di ketchup. Se avete tempo e voglia dateci un’occhiata.

Qui il pdf.

Dani che corre

di Gery Palazzotto

Dani ha una passione per i furti. È svelta e furba. Ogni volta che arraffa qualcosa le si accendono gli occhi. Chi la conosce, come me, sa leggere quel luccichio e allora è bene mettere le ali e trovare subito una via di fuga prima che si finisca tutti nei guai.

Siamo una banda di strada. Siamo una banda di strada a Palermo, mica a Topolinia. Non so se mi spiego.

Tipi tosti fatti apposta.

Oltretutto, Dani è una che quando corre non si riesce a starle appresso. Galoppa, macina asfalto, allunga le falcate come se artigliasse il terreno. Ed è in quei momenti che mi sembra bellissima. La sua indole selvaggia tradisce una passione che lei stessa, secondo me, non riesce a confessarsi: più che il bottino, la eccita la fuga.

L’unico che riesce a starle dietro, ma solo per i primi – diciamo – due, tre chilometri è Matteo. Matteo è il capo, insomma il piccolo boss del nostro sodalizio gangsteristico. Come Dani, è un crogiuolo di razze: papà tedesco e mamma orientale, credo cinese. Lei invece è figlia di un afgano e di una siciliana.

Io sono orfano e comunque di sangue siculo. A parte gli attacchi di bruttoanatroccolite, che – lo confesso – tendo a enfatizzare quando mi sento messo in disparte, non ho mai fatto tragedie. Mi sono abituato alla vita di strada.

C’è nel nostro nomadismo quel po’ di snob che rende la vita eccitante. I ricchi sono poveri di avventura e prevedibili. Certo, se io fossi ricco non mi cagherei di striscio, ma mi invidierei se mi vedessi per strada con la bella Dani che mi sfiora il naso con la lingua (che è il suo modo, neanche troppo subliminale, di comunicare una voglia con scadenza inderogabile).

Il resto della gang è formato da Carlo, Raoul, e Pino che, chiamandosi come me, è detto Pinodue.

I tre sono assimilabili a un unico archetipo fisico-caratteriale: forti e asciutti, determinati e di poche parole. Si dice che siano fratelli, ma l’assoluta mancanza di prove documentali assieme alla loro allergia al raccontare i cazzi propri ci hanno convinti ad accettarli come un’offerta “tre per uno” al supermercato: un prodotto conveniente.

Il truce trio traina la tribù come tre tir.

Detta così sembrerebbe un’atmosfera perfetta per sei esistenze sregolate, ma oggi pomeriggio è successa una cosa grave. Dani è sparita e con lei una cosa alla quale Matteo è patologicamente affezionato.

Eravamo sotto i portici di via Ruggero Settimo, il salotto della città dove i palermitani passeggiano mollemente e dove i più danarosi acquistano merce che, solo un chilometro prima, potrebbero pagare la metà. Ci piace albergare su quei marciapiedi, magari urtare le belle signore eleganti e odorose e vivisezionarle con lo sguardo. Siamo proprio cattivi quando le fissiamo negli occhi mentre si aggrappano con disagio al braccio del partner. Avvertiamo queste eccitate vibrazioni e ci inebriamo dell’odore delle perle di sudore che rotolano sulle loro schiene fresche di creme alle proteine estratte dal pancreas di un invertebrato asiatico semi-estinto.

Comunque Dani l’ha fatta grossa.

Matteo ha atteso fino a sera e si capisce che ce l’ha pure con me. Dal momento che ho un dirompente trasporto sessuale per lei, mi ritiene corresponsabile di ciò che è accaduto. Ho provato a calmarlo, ma non c’è verso.

Stavolta gliela faccio pagare, ha detto.

So quanto riesce ad essere violento quando si ritiene vittima di un torto, so che il sangue che gli gonfia le vene del collo adesso irrora la parte più rabbiosa del cervello, so che va orgoglioso di quella crudeltà che non vede l’ora di mostrare.

So che ha già ucciso.

La rude rabbia arroventa il ruvido rancore.

Tentare di fermarlo è impresa impossibile. A parte la forza, c’è nella sua determinazione un autocompiacimento dell’incazzatura da Trattamento Sanitario Obbligatorio. In teoria, il trio potrebbe aver ragione dei suoi muscoli, ma occorrerebbe prima disconnettere i neuroni del sistema nervoso centrale e collegarli a una centrale atomica: contro la succube demenza, l’energia pulita è acqua fresca.

Ci muoviamo dai portici che è già sera. Fila indiana in ordine gerarchico: Matteo, io (anche se sarebbe gradita un’autoretrocessione per responsabilità oggettiva nel furto), Raoul, Carlo e Pinodue. Lungo via Libertà c’è una coda di automobilisti sfiancati dal caldo. Raoul manifesta fastidio per un tubo di scappamento che gli alita addosso e prova a incazzarsi all’unisono con gli pseudo-fratelli. Guardano il guidatore che, con l’impianto stereo a tutto volume, riproduce a colpi di acceleratore i ritmi di una canzone inglese di cui, c’è da giurarci, non capisce un’acca. Se potessero staccargli di netto quel piede, riceverebbero le congratulazioni dal ministero dell’Ambiente.    

Ma si va. Stasera non c’è tempo per perdere tempo.

Matteo ha in mente la destinazione, non devia, non disturba i passanti, ignora i semafori rossi. Di solito lui si trastulla con qualunque essere animato, basta che abbia un soffio vitale da intercettare e da disturbare. Di solito. Non oggi, non adesso. 

Passato l’incrocio con piazza Croci, incontriamo degli amici davanti al chiosco dei gelati che sta per chiudere. Sono gli scampoli di un’altra banda palermitana che si godono un fresco immaginario all’immaginaria ombra di un immaginario ficus. Poco importa se ci siano 40 gradi, se ormai il sole infligga le sue mazzate a un altro emisfero e se l’albero resta in piedi solo perché gli hanno piantato un palo della luce tra le radici marce. Questi stanno qui per presidiare il territorio. Matteo saluta silenziosamente e tira dritto. Siamo ospiti e sfiliamo tutti facendo un cenno con la testa.

Attenti saluti silenti.       

Pochi passi e una consapevolezza mi afferra per la collottola.
Il Giardino Inglese, il Festival dell’Unità.

Se Dani avesse potuto costruirsi un Eden, lo avrebbe progettato lì, con tutti gli stand, i concerti, le luci, gli odori di cibo che si mischiano ad ogni metro, le bandiere rosse (il suo colore preferito).

Un anno fa avevamo trascorso una serata indimenticabile.

Eravamo arrivati, io e lei da soli, nel primo pomeriggio. Ancora si stava montando l’amplificazione e il palco era uno scheletro informe. Quando mi aveva chiesto di accompagnarla, mi ero raccomandato al Cielo poiché avevo un nascente mal di pancia e la prospettiva dell’ennesima fuga a perdifiato mi stringeva le budella con una gassa d’amante.    

Poi, vedendola incantata, e soprattutto quieta, il nodo si era sciolto. Avevamo girato per ore, esplorato ogni angolo del giardino. Improvvisamente, all’ottavo passaggio davanti allo stand dei panini imbottiti, ci era venuta fame. La gassa era tornata a serrarsi mentre Dani aveva afferrato una mafalda col salame. Io avevo mentito dicendo che non mi andava di mangiare.

Il dopo. Il dopo era il problema.

La signora che armeggiava dietro il bancone era troppo impegnata ad esplorarsi la narice sinistra (o forse era la destra, talmente deformata da sembrare pure la sinistra) davanti alla tv per accorgersi di noi. Insomma, grazie alla incresciosa combinazione muco-catodica, non c’era stato nemmeno bisogno di oliare i muscoli e fuggire. Con placida sensualità Dani aveva piluccato il suo panino allontanandosi di poco dallo stand.  

Masticava e mi guardava. Aveva gli occhi accesi.

Quanto era bella.

Al culmine dell’estasi clepto-gastrica aveva allungato la lingua sul mio naso. La più bella, dolce, vigorosa lingua che mi abbia mai sfiorato.

Era il segnale che aspettavo.

Come si dice, col favore delle tenebre (e mai buio mi fu più complice, amico, paraninfo) avevamo raggiunto un angolo isolato del giardino e avevamo fatto quello che c’era da fare. Quanto era sensuale Dani.

Questo mi ricordo del Giardino Inglese.

Matteo, al quale ho improvvidamente raccontato tutto, sa che il Festival dell’Unità è un richiamo per Dani. E si ferma davanti all’ingresso.

Il trio, secondo una tattica che ha qualcosa di militare, si dispone dietro di noi.             

Un’occhiata a un gruppo di poliziotti che scherza con due fanciulle che brandiscono i propri vent’anni come un’arma impropria, un’altra ai giovani capelluti che distribuiscono volantini il cui destino è quello di insozzare un ettaro di terreno.

Matteo varca il cancello, noi con lui.

Uno degli agenti ci nota e ci grida qualcosa che assomiglia a un “dove andate voi?”. È il più brutto e quello che, per selezione naturale, è il più isolato dal gruppo. Non ha un cazzo da fare e se la prende con noi, naturalmente.

Acceleriamo senza fuggire. Perché mai dovremmo scappare? Gli unici che potevano impedirci di venire qui non hanno distintivi e li abbiamo salutati con deferenza, prima.

Ci mescoliamo tra la folla. Il poliziotto fa due passi dentro il grande catino immaginario che raccoglie migliaia di persone e poi, come se avesse trovato l’acqua troppo fredda, si ritira.

Lo vedo con la mano alla fondina mentre gira sui tacchi. Mi acchiappa un brivido.

Matteo impartisce gli ordini, diretti e indiscutibili.

Io e lui, anzi lui ed io, da un lato. Il trio dall’altro.

Scovare Dani, recuperare il maltolto.

Non detta, la certezza di una punizione medioevale.

Mi sento male e vorrei trovarla io per primo e dirle “scappa, scema, scappa con tutta la forza che hai, muoviti con la grazia selvaggia che adoro, o anche senza, muoviti e basta, come sei bella, come sei incosciente, scappa scema, poi io ti raggiungo, tu mi lecchi e io ti imbottisco, e scappiamo insieme”. Sì, certo: il tempo di farle ‘sto pippone e magari quelli ci sono addosso. No, le dico solo “vattene subito”, è un fiat e lei sparisce. Meglio così.

Matteo mi guida con la presunzione di chi non ha bisogno di voltarsi per controllare che gli stai appresso. C’è un casino infernale. Come l’anno scorso.

Bordeggiamo una tenda che sembra un circo, da dove filtrano parole incomprensibili. Matteo ficca la testa dentro e la ritira subito. Ha centrato il culone di una attivista di non so quale organizzazione non governativa che combatte contro la fame nel mondo. Mi sfiora il pensiero che se la signora si mettesse a dieta, potrebbero licenziare la metà dei suoi colleghi.

Arriviamo davanti a un banchetto dove due tizi barbuti confezionano magliette con scritte e immagini stampate ad hoc. Mi colpisce che siano entrambi mancini, un valore aggiunto dato l’ambito. Matteo si incuriosisce, o almeno così mi sembra dal momento che molte delle sue sensazioni viaggiano su un canale satellitare criptato. Lo vedo fissare il logo di una squadra di basket americana con un voluminoso pallone rosso.

Senza la palla, questo sballa.

Senza la…

Un bimbo gioca con un adulto in un corridoio virtuale tra le mandrie di esseri umani. Non c’è troppa luce, mi sembra di intravedere qualcosa tra le sue mani che assomiglia a una soluzione.

Mi avvicino con discrezione. Se sapessi fischiettare, lo farei.

Non assomiglia, é una soluzione.

Il bambino trotterella nell’orbita di un pallone, un Super Santos. Ora che sono vicino ho la conferma che l’uomo che gli sta di fronte è il padre: anche senza la palla, potrebbero giocare agli spadaccini, coi nasi che si ritrovano.        

Il piccolo manifesta più perizia nei calci. Il papà è affannato e si ostina a correre azzannando un panino che gronda trigliceridi sotto forma di ketchup. A suo modo, adotta una tattica dieteticamente corretta poiché la metà del pasto gli finisce sì sul voluminoso stomaco, ma non dentro: sulla camicia.       

Matteo è ancora immerso tra le opere dei mancini pelosi.

Il trio si affaccia all’orizzonte.

Il pallone è vittima di un lancio troppo lungo.

Matteo non si scolla.

Pinodue mi avvista e corregge la rotta.

Il Super Santos rotola verso l’angolo della gastronomia locale.

Sciabolo con lo sguardo. Ma due occhi non mi bastano. Pallone, Matteo, Pinodue più gli altri, bimbo, papà, gastronomia, panini, Dani.

Dani?

Dani e pani, avvertimenti vani.

Sta sgranocchiando una mafalda che già so essere col salame e di provenienza furtiva. Con una mezza piroetta laterale mi immergo in una fiumana di giovani che lasciano una scia di fumo dolciastro. Ora non mi chiedete com’è una piroetta laterale: è un movimento rapido tipo acrobazia che però non sono capace di fare, infatti ho detto che ne ho fatta mezza.

Dani è sola, almeno così mi sembra mentre la vedo ingrandirsi attraverso la nube cannabinoide che mi guida e mi protegge. Non devo chiamarla, quella è talmente pazza che mi verrebbe incontro facendo un casino.

Quando mi vede sembra sorpresa: la fulmino con gli occhi. E con uno starnuto, cazzo di fumo.

La spingo dietro un cespuglio. Lei accenna una protesta perché per poco non le faccio cadere il panino.       

Dovrei dirle “scappa, scema, scappa con tutta la forza che hai, muoviti con la grazia selvaggia che adoro…” con quel che ne consegue. Invece, in un miracolo di concretezza, la avverto: sparisci o questo è l’ultimo panino che mangi.

Sparire uguale scappare, correre. Ho pizzicato le corde giuste e, insieme al paventato addio all’adorata mafalda, viene fuori un accordo magico.

Dani accende gli occhi e si smaterializza.

Fffum!

Sfugge in un soffio sfidando la sfiga.   

Pinodue e l’ovvio seguito non devono averla vista se si avvicinano con calma.

Il pallone.

È sotto il tavolo dei panini. Una curiosità, che fa a pugni col frangente in cui si manifesta, mi spinge a guardare oltre: chissà se c’è sempre la scaccolatrice teledipendente.

Col briciolo di ragione che mi rimane, accantono la questione.

Il trio si è fermato. Alle spalle avanza Matteo.

Mi avvento sul Super Santos. Devo bucarlo, prima che i miei orifizi subiscano trattamenti contronatura.

Fsss. È fatta.

Lo brandisco come un trofeo.

Tutto andrà bene. La gang sanerà le sue fratture. Può succedere, le incomprensioni sono fisiologiche quando si vive ventiquattro ore insieme. Ma le crisi si superano, sì…

Matteo è dritto davanti a me. Intorno tutto è improvvisamente diverso.

Siamo io, lui e un mondo al rallentatore.

I suoni ovattati, le luci cremose, gli odori risucchiati da un gigantesco aspiratore che qualcuno ha acceso sulle nostre teste.

Gli porgo il Super Santos, ecco è il tuo.

Mi spennella di diffidenza e non lo raccoglie.

Per sfizio mai sazio senza sangue sparso.        

Oltre al mondo, ci siamo fermati anche noi. È la tua palla, vedi? Ha gli stessi buchi, proprio qui, vicino alla valvola. Dani non c’è, l’avrà lasciata per te. Magari, vedrai, domani si scuserà. Anzi ne sono certo.

Matteo continua a scrutarmi. Sta valutando se uccidermi subito o se, in nome della nostra antica amicizia, farlo più tardi, a pancia piena. Chi è capo ha i suoi privilegi.

Nell’istante in cui distolgo lo sguardo da quegli occhi che indagano il mio destino sento una mano scostarmi.

Uno sfarfallio.

È il bambino che prende la palla e grida: l’hanno bucata!

No, scusa, l’ho bucata io. Lui non c’entra.

Il piccolo ha già due lacrimoni che penzolano.

Ti prego, bambino caro, tutto si risolve. Ora prendi la tua palla e sgomma.

Per grazia di non so quale santo, quello si allontana. E, mentre ho la certezza che morirò digiuno, nell’arena qualcuno disattiva l’effetto ralenti, toglie la sordina e spegne l’aspiratore.

Matteo scatta.

Persino Raoul, Carlo e Pinodue sono sbalorditi.

In una sequenza troppo veloce, il padre consola il figlio, raccoglie il Super Santos, mi guarda con astio, getta per terra la carta del sandwich, si passa la mano sui pantaloni, accarezza la nuca del piccolo, probabilmente rutta e ci urla qualcosa.

La sagoma di Matteo si materializza alle sue spalle. Un balzo, due e gli è addosso.

L’uomo è travolto e cade con un tonfo degno della sua stazza.

Merda, sferra la guerra per terra.  

La palla sfugge. Matteo scende dal corpulento papà e afferra il suo trofeo sgonfio. Si volta verso il rudere umano che ha abbattuto con le narici dilatate: aspira avidamente un senso di vittoria.

Nel frastuono ingarbugliato di musica rock, risate lontane, applausi, dibattiti accesi, televisori mai spenti, nel suono complessivo di una moltitudine di esseri viventi e di arnesi da loro ideati per produrre rumore, comunicazione verbale, comunque vita ascoltabile, un colpo secco si fa largo.

Uno sparo.

Matteo distende il collo, guarda il cielo nero e s’immerge in quel buio immane e lontanissimo che raggiunge, abbraccia e nel quale si perde.

Si affloscia nel centro del ring.

Il poliziotto sta rimettendo la pistola nella fondina, circondato da migliaia di sguardi che sembrano punti esclamativi, e si china sull’uomo dalla camicia chiazzata.

L’agente urla di chiamare un’ambulanza perché “quest’uomo è ferito”. La presunta vittima lo tranquillizza: no, è salsa e pure buona.  

Il trio si avvicina al corpo di Matteo.

Cani di merda, ringhia il poliziotto allargando le braccia e trovando supporto nel piccolo esercito di astanti che brandisce bastoni di bandiere, coltelli, mestoli, scope e qualche forchetta di plastica.

 “Via, bestiacce, sciò! Via, cagnacci schifosi!”

Il trio batte in ritirata al suono di un unico guaito.

Chino la testa e quasi mi appiattisco al suolo, striscio tra i cespugli e mi graffio pure.

Mi volto un’ultima volta per guardare Matteo che stringe ancora tra i denti la palla non sua.

Poi sbatto contro qualcosa o qualcuno.

Al buio riconosco la lingua di Dani.  La più bella, dolce, vigorosa lingua che mi abbia mai sfiorato.

Piedi, selfie e altra fuffa dei social

L’articolo pubblicato su Il Foglio.

C’è qualcosa di utile in ciò che è perfettamente inutile: e cioè che lo si può usare come cattivo esempio. Almeno nella vita reale, al di qua del moderno specchio delle nostre brame, ergo lo smartphone. Dall’altro lato, nell’universo virtuale, tutto cambia. L’utile e l’inutile si diluiscono in una marea oleosa nella quale persino il cattivo esempio annega anonimo e umiliato dal non essere più né cattivo né esempio. È il trionfo di una lanugine del pensiero che avvolge e non ripara, sovrasta e non copre, ingombra e non riempie: la fuffa dei social.

Tutto è iniziato quando abbiamo rivolto verso di noi l’obiettivo del cellulare e da cultori più o meno scafati di un voyeurismo innocente e casereccio che alimentava l’interesse per le immagini degli altri, siamo diventati indefessi produttori di immagini da far guardare agli altri. E in questa rivoluzione, che è tecnologica, di costume e di linguaggio, abbiamo sovvertito una serie di regole che originariamente tendevano a raffinare il prodotto, a centellinare i risultati.

Nel passaggio dall’autoscatto al selfie si modifica un fattore determinante come quello del tempo: oggi il risultato è subito visibile, non è più un investimento che potrà essere riscosso dopo sviluppo e stampa, bensì una astrazione di realtà ripetibile, duplicabile e modificabile all’infinito. Quel braccio teso nei selfie è un invito a oltrepassare la cornice del ritratto e a entrare in comunicazione. Ma con chi? Non certo con l’individuo che si è autoritratto poiché nulla è più insondabile di un’immagine ciclostilata a uso e consumo di milioni di occhi. Entriamo in comunicazione col coro degli “adoratori della fuffa”, di cui quell’immagine è parte infinitesimale, ci lasciamo accogliere nelle echo chambers dove ciascuno vede solo ciò in cui si riconosce e che si aspetta di trovare.

L’autoselezione, cioè il volontario intruppamento in una conventicola di followers, è un elemento determinante per il proliferare incolto della fuffa nei social network.

Il caso dei tramonti è prezioso per spiegarne le dinamiche.

Non c’è nulla di più falso della foto di un tramonto. Perché già nell’attimo stesso in cui lo smartphone la cattura, un sistema elettronico ha colorato e alterato l’immagine (che è un controluce per antonomasia) uniformandola a parametri che la renderanno simile a milioni di altre immagini scattate davanti a milioni di altri tramonti. Non è tema di esclusiva pertinenza tecnologica, basti pensare alle ripercussioni sulla filosofia che divide i fotografi tra “albisti” e “tramontisti”. Giacché un’alba si cerca e un tramonto si trova, con quel che ne consegue in termini di fatica, dedizione e competenza, una semplice opzione sulla app di qualsiasi telefonino è in grado di trasformare un sole caldo in un sole freddo e viceversa: risultato, la moltiplicazione infinita di immagini nate e morte false. Eppure l’oppio delle echo chambers produce la reazione opposta a quella che ci si dovrebbe aspettare. In un tripudio di cuori, pollici alzati, faccine sbalordite, sale il coro dei “bellissimo/a”, come se contasse davvero quella macchia di colore rossastra, come se Zanzibar e Ustica avessero davvero un sole diverso, come se quel bicchiere in primo piano (la foto dell’aperitivo al tramonto è una pratica che ha più a che fare con l’onanismo che con la socialità tecnologica) raccontasse davvero una situazione unica.

L’applauso all’emozione contumace premia la conventicola stessa, è più pacca sulla spalla agli amici del gruppo che complimento all’autore. Più effetto che affetto.

Sarà per questo che ormai non ci curiamo nemmeno di apparire al meglio della nostra forma, di metabolizzare raffiche di selfie che non ci soddisfano, che non cestiniamo il brutto per valorizzare almeno il passabile. Che addirittura ci ridicolizziamo con evidente orgoglio mediante stickers o adesivi virtuali, ci mettiamo orecchie da coniglio, nasi da topo, che ci deturpiamo gioiosamente i volti con effetti visivi da casa degli orrori, che accettiamo di metterci in mostra nel luna park del web come non siamo mai stati e come in fondo non vorremo mai essere.

Perché l’applauso non è per noi, e lo sappiamo pur senza essercelo mai confessato, ma è per il circo che ci gira intorno e che usa gli stessi codici per blandirci e rassicurarci: smorfiette, emoji, pollici, cuori.

La fuffa rassicura e scaccia ogni forma di ansia perché droga ogni forma di giudizio.  

Persino il metodo più naturale di narrazione, quello che inquadra il divenire nel suo tragitto inesorabile tra punto di partenza e punto di arrivo, viene stravolto senza che si ridesti in noi il sistema immunitario sociale del senso del ridicolo. È il caso dell’“effetto boomerang”, una applicazione che crea delle brevi gif, ossia scatta una serie di foto in sequenza e le mette insieme formando un video pochi secondi. Il risultato è una galleria nevrotica di smorfie in loop, piedi barcollanti, cucchiaini che affondano nel gelato senza ferirlo, di corpi che resuscitano dalle acque: un panorama tremolante e ossessivo che fa dell’effetto (manco troppo) speciale il mezzo per raccontare una storia troppo breve per essere storia e troppo lunga per essere tollerata senza un sorriso.  

Nel 2014 lo psicologo ed economista ambientale Dan Ariely definì sul Wall Street Journal le cinque ragioni psicologiche per spiegare il fenomeno dei selfie: “1) ci serve a fermare l’attimo; 2) ci permette di continuare a vivere il momento (se dovessimo fermarci a chiedere a un’altra persona di scattarci una foto, smetteremmo per un attimo di viverlo); 3) condividiamo l’esperienza del momento con altri; 4) non ci preoccupiamo troppo del nostro aspetto; 5) lo fanno tutti”.
Era stato fin troppo ottimista dal momento che non aveva aggiunto il punto 6: ci fa godere nell’apparire terribilmente ridicoli.

Ma liquidare la fuffa dei social come mero riempitivo di esistenze che si riverberano nelle timeline, sarebbe sbagliato. Basta fermarsi e guardare con più calma ciò che ogni giorno passa sullo schermo del nostro smartphone. Fondamentalmente un tripudio di gambe e piedi. Ma attenzione, nel messaggio tramandato da questi arti in bella mostra c’è una porta nascosta e la chiave che la apre va cercata nei dettagli.

Nello specifico è una questione di centimetri. Il selfie che svela un paio di gambe adagiate su un divano con il loro corredo di filtri, effetti, sfocature strategiche ci rivela un’intenzionale manomissione che stavolta non interessa la foto in sé, bensì l’effetto che essa vuole provocare. Insomma c’è un curioso meccanismo di doping dell’attenzione altrui su quelle cosce che si mostrano per quello che sono (un paio di cosce) ma che, grazie all’inquadratura ampia quanto basta, promettono un dettaglio inguinale che non c’è. In quell’immagine ci si mostra liberi e al contempo pentiti di tale libertà, come se improvvisamente un freno avesse bloccato, per miracolo, la mano che conduce il gioco dell’autoscatto (che non a caso, negli anni Settanta, era una rubrica di alcuni giornali porno), in un rigurgito di pudore. Anzi di semi-pudore, che è la cifra dominante dei maggiori produttori di fuffa social. Cioè di tutti quegli utenti che sussurrano all’orecchio di ciascuno dei propri followers “vorrei tanto, ma non posso” e intanto alimentano l’antica forma di “ferocia” del feticista visto da Marx, che inquadrava una relazione ossessiva con una parte del corpo come più significativa rispetto a una relazione misurata con l’intero. Si dice: misero è il feticista al quale è offerta una donna, quando ciò che vuole è una scarpa. Ecco, il semi-pudore è una declinazione di furbizia social che non offre in realtà nulla, ma riscuote come se fosse.

Nei suoi lavori su media ed etica, l’israeliano Hagi Kenaan sostiene che l’occhio ha ormai raggiunto uno “stato di morte clinica” a causa di ciò che definisce “estetica dell’appiattimento”. La sua tesi è che “passiamo la maggior parte delle nostre vite di fronte a schermi, di modo che la profondità, il tempo, gli errori, le crepe sono interamente eliminati. In quanto vedenti funzioniamo come drogati, allo stesso tempo bramanti e dissanguati da ciò che usiamo per prevenire il nostro impegno nel mondo”. Così come generalmente accade nella dipendenza, la responsabilità etica tende ad essere la prima vittima dell’appiattimento, afferma Kenaan: dal pudore al semi-pudore è solo un passaggio tecnico, nel rispetto del dio algoritmo che regola l’effetto sul web dei nostri pensieri, parole, opere e omissioni. 

Alla luce di questi cambiamenti climatici nel pianeta delle emozioni, l’antologia della fuffa ha eletto il suo organo di riferimento. Che, come si può supporre, non è più l’occhio, ma il dito. Non a caso l’universo nel quale galleggiamo, più incoscienti che incolpevoli, è quello digitale. E le dita toccano, regolano, scattano, modificano, pubblicano i contenuti che alimentano le echo chambers.  Il paradosso è che proprio il tatto, quel senso che dovrebbe essere penalizzato nel mondo virtuale, è il protagonista di questo nuovo fenomeno cognitivo.

La tecnologia non sta a guardare, non indugia e nel suo perverso tentativo di rendere l’uomo strumento del suo stesso strumento, piazza il suo colpo basso: l’ultimo iPhone 11 Pro ha tre telecamere per inquadrare una stessa scena con un grandangolo, un ultra-grandangolo e un teleobiettivo. Avremo la fuffa in 3D. 

L’ultimo tribunale

L’articolo pubblicato sul Foglio.

Quando il 4 ottobre 1994 presso Corte d’Assise di Caltanissetta si aprì il primo processo per la strage Borsellino neanche la più pessimista delle Cassandre giudiziarie poteva prevedere il groviglio di procedimenti che ne sarebbero scaturiti per i decenni a seguire. Tra ordini e contrordini, rivelazioni e allucinazioni, gradi di giudizio e tormenti di pregiudizio, di processi sull’eccidio di via d’Amelio se ne sono contati, sino a oggi, dieci. Ma il dato è ovviamente provvisorio, come solo gli errori perduranti promettono di essere. Le ultime indagini sui presunti depistatori – poliziotti o magistrati che siano – arrivano talmente in ritardo da far sì che il sentimento prevalente dinanzi a questo accatastarsi di verità sia quello della delusione.     

Per questo, maneggiando la storia dei misteri delle stragi del ’92 abbiamo scelto di inventarci una sorta di tribunale di fantasia. E di raccontarla, quella storia, nel posto che secondo noi, meglio di altri, poteva contenerla con i suoi drammi, le sue deviazioni, i suoi risvolti grotteschi, le sue fiamme raggelanti. Abbiamo scelto un teatro, un teatro lirico, il più grande d’Italia: il Teatro Massimo di Palermo.

L’opera-inchiesta scritta insieme con Salvo Palazzolo – s’intitola “I traditori” ed è recitata da Gigi Borruso, con le musiche di Marco Betta, Fabio Lannino, Diego Spitaleri e la regia di Alberto Cavallotti – è un’indagine sul palcoscenico che parte da un presupposto: nel luogo dell’arte, cioè nel tempio in cui si celebra il primato della fantasia, si può trovare la libertà che serve per provare a evadere dalle prigioni delle versioni preconfezionate. Spesso la verità del dubbio è più utile della certezza di uno slogan. E i dubbi nelle indagini sulle stragi di Capaci e di via D’Amelio non mancano. A cominciare da ciò che accade nell’immediatezza degli eccidi.

Passano poche ore dall’attentato in cui è morto Paolo Borsellino con gli agenti della scorta, e l’agenzia Ansa batte un take in cui c’è scritto che “fonti della polizia di Stato” sanno che l’autobomba è una Fiat di piccole dimensioni: “Una 600, o una Panda, o una 126”. Solo che ancora il blocco motore della macchina imbottita con novanta chili di tritolo non è stato recuperato (il ritrovamento avverrà l’indomani). E soprattutto ci vorrà un esperto della Fiat, fatto arrivare apposta dallo stabilimento di Termini Imerese, per capire che quell’ammasso di ferraglie appartiene proprio a una Fiat 126.  

I dubbi e le certezze. I primi ci accompagnano da ventisette anni, le seconde sono subito brandite da chi, come l’allora capo della Squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, sa troppo e non si capisce perché. Come fa la polizia di La Barbera ad avere identificato in anticipo il tipo di auto usato per la strage quando l’unica traccia che resta di quel veicolo è un blocco motore che non è stato ancora recuperato?   

La Fiat 126 è importante nella nostra ricostruzione poiché è su di essa che poggia gran parte dell’impalcatura del depistaggio grazie al sistema dei falsi pentiti. Poco meno di un mese dopo la strage di via D’Amelio, una nota riservata dei servizi segreti riferisce alla direzione del Sisde che “la Polizia avrebbe acquisito significativi elementi informativi per l’identificazione degli autori del furto dell’auto, nonché del luogo in cui la stessa sarebbe stata custodita prima di essere utilizzata nell’attentato”.

Ancora lo stridere di dubbi e certezze.  Se i falsi pentiti Salvatore Candura ed Enzo Scarantino ancora non sono stati arruolati, come fanno la polizia e il Sisde a sapere dove è stata rubata la 126? E soprattutto com’è possibile che Candura e Scarantino siano a conoscenza del fatto che la macchina è stata prelevata dalle parti di via Oreto a Palermo, circostanza vera, se loro in realtà non c’entrano nulla con la strage?

Tenete conto che i dettagli che smaschereranno l’impostura del depistaggio, li svelerà il vero autore del furto della macchina, Gaspare Spatuzza. Ma lo farà solo quindici anni dopo l’attentato, nel 2008. Fino ad allora il circo dei veggenti metterà in scena, indisturbato, quello che i giudici di Caltanissetta hanno definito uno dei più gravi depistaggi della storia italiana. Ufficialmente, almeno sino alle latitudini giudiziarie a noi note, nessun magistrato tra quelli che hanno gestito le prime dichiarazioni di Candura e Scarantino (con l’eccezione di Ilda Boccassini), ha mai avuto sentore di imbroglio. La macchina della menzogna ha visto girare i suoi ingranaggi senza che mai qualcuno muovesse un dito. Oggi, ventisette anni dopo il boato, sappiamo che Scarantino, finto pentito inaffidabile per indole, per storia criminale, per physique du rôle, sta accusando del suo vergognoso indottrinamento solo un gruppuscolo di poliziotti a processo, come se i magistrati a quei tempi non ci fossero o stessero tutti a bocca aperta a tracannarsi l’intruglio allucinogeno preparato da La Barbera (che è morto da tempo e che quindi incarna l’essenza del colpevole perfetto). Fatto salvo il rito ecumenico dei rimbalzi di competenze giudiziarie che passa la palla da Palermo a Caltanissetta, a Catania, a Messina – in un gioco di fratelli coltelli dove scarseggiano i parenti e abbondano le armi da taglio – e che adesso con una sorpresona attesa ventisette anni vede indagati per calunnia due dei fulgidi pm di allora, Anna Maria Palma e Carmelo Petralia.

Certo se non ci fosse di mezzo una ferita al cuore dell’Italia, quella delle stragi del ’92 sembrerebbe una storia scritta apposta per essere raccontata. Del resto con i colpi di scena al momento giusto, con una galleria di personaggi dalla doppiezza cinematografica, con il succedersi serrato dei nodi della trama, la solidità del plot è assicurata.

Poche ore dopo la morte di Giovanni Falcone, due magistrati della procura di Caltanissetta entrano nella sua stanza al ministero della Giustizia, mettono i sigilli e fanno ciò che nessuno si aspetterebbe: lasciano lì i due computer all’interno dei quali ci sono tutti gli appunti del collega appena assassinato. Manco li degnano di uno sguardo. Ma non basta. Una settimana dopo, gli stessi magistrati tornano in via Arenula e dissequestrano tutto: (o)missione compiuta. Anzi stavolta l’effetto della loro disattenzione è ben più grave, dal momento che lasciano i pc incustoditi, alla mercé di tutti.

Stesso modus operandi a Palermo, dove a casa del magistrato in via Notarbartolo un computer portatile viene ignorato con pervicacia quantomeno sospetta.

Nella nostra messinscena siamo entrati nelle cartelle telematiche di Falcone e abbiamo constatato ciò che purtroppo era annunciato: qualcuno è entrato in quei file già il primo giugno del 1992 ed è tornato nei giorni seguenti, facendo quel che voleva. Tanto i computer non erano più sotto sequestro. Oggi sappiamo che da quei pc sono spariti i diari di Falcone.

Da un colpo di scena all’altro.

Per l’agenda rossa di Paolo Borsellino, un totem dei misteri italiani, la forma d’arte più adeguata sarebbe il balletto. Un balletto tragico magari con uno sfondo di seta tempesta rosso sangue. Perché le figure note e meno note che si aggirano attorno alla borsa che contiene l’agenda sembrano muoversi tutte sotto le direttive di un coreografo: del resto l’inganno è anche arte di movenze. Quel pomeriggio del 19 luglio 1992 poliziotti, carabinieri e funzionari dei servizi segreti mettono le mani sulla borsa, tirandola fuori dalla blindata in fiamme nella quale l’aveva riposta il magistrato, aprendola e rimettendola nel posto da cui l’avevano presa: cioè l’auto in fiamme.

Nella concitazione di quei momenti – lo scenario di via D’Amelio dopo l’esplosione è un inferno di lamiere, carne, fuoco, – due, tre, quattro persone, ognuna col suo distintivo, prendono la borsa dalla blindata che brucia, la aprono, rovistano, e chiamano in causa l’ex magistrato Ayala che era sul luogo: lui smentisce di avere mai avuto un ruolo in questo mistero inanellando però troppe versioni diverse, almeno secondo Fiammetta Borsellino.

Quanti danzatori oscuri nel cratere di Palermo.

La finzione teatrale per raccontare gli infingimenti dietro i quali la verità gioca a nascondino. Tra i mille rivoli in cui questa storia si disperde, un espediente narrativo che può essere utile nella sua trasversalità è quello del cambio di soggettiva. Perché non provarci? Sinora avevamo raccontato la storia da un punto di vista classico: i buoni e le vittime da un lato, gli assassini di Costa nostra dall’altra. Poi abbiamo deciso di cambiare inquadratura, scegliendo di guardare le cose con gli occhi dei mafiosi. Ecco cosa ha detto Gioacchino La Barbera, già componente della task force criminale che si è  occupata di preparare la bomba da piazzare sotto l’autostrada di Capaci poi diventato collaboratore di giustizia: “Mentre stavamo mettendo da parte l’esplosivo per l’attentato a Falcone, in una villetta di Capaci, notai una persona che non avevo mai visto, un estraneo. Questo tale arrivò con Antonino Troia, il capomafia di Capaci, parlò pure con Raffaele Ganci, il capomafia della Noce. Evidentemente lo conoscevano. Rimase in tutto dieci minuti, un quarto d’ora. Avevamo spostato l’esplosivo sul telone steso sotto la veranda. Non l’ho più vista quella persona. Penso che l’individuo non fosse di Cosa nostra perché poi non lo vidi più”.

Anche Gaspare Spatuzza, il mafioso che 16 anni dopo l’autobomba di via d’Amelio ha raccontato i misteri della strage Borsellino, ha fornito spunti interessanti. Il 18 luglio 1992 sta guidando la Fiat 126 (quella delle preveggenze di La Barbera e sodali) che dovrà essere imbottita di tritolo. “Non so dove dobbiamo andare. Io guido l’auto che mi avevano fatto rubare, la notte fra l’8 e il 9 luglio. Seguo Fifetto Cannella che fa da staffetta”. A un certo punto arriva in un garage dove si deve preparare l’autobomba. “All’interno vedo due uomini, uno è Renzino Tinnirello, della famiglia di Corso dei Mille, che mi viene incontro. L’altro è una persona sulla cinquantina, che io non conosco, perché non l’avevo mai visto. Intanto, arriva anche Ciccio Tagliavia, di Brancaccio, che in quel momento è latitante”. Un altro uomo misterioso sul luogo cruciale in cui si prepara il “botto” e per giunta in presenza di un latitante. “Non era un uomo d’onore, non era un mafioso, non l’avevo mai visto prima”, assicura Spatuzza, che ha dalla sua l’attendibilità di chi ha svelato l’impostura del falso pentito Scarantino.

I dubbi e le certezze. Le domande sulla reale identità di queste sagome misteriose fanno parte di un copione che sembra scritto anche per altri delitti eccellenti, precedenti alle stragi Falcone e Borsellino: Dalla Chiesa e i suoi diari scomparsi, i documenti trafugati a Peppino Impastato, il commissario Cassarà e la sua l’agenda rossa (un’altra agenda rossa!) che si volatilizza, gli appunti sottratti all’agente Agostino dopo che era stato massacrato assieme alla moglie sposata da un mese e incinta da due. La certezza è che c’è stato un metodo del delitto a Palermo.

All’antimafia non sono mai mancati i palcoscenici e anzi, in decenni che poi si sono rivelati cruciali per la credibilità di alcuni suoi protagonisti, si è assistito a una moltiplicazione di essi. Dal corteo alla tv, dallo slogan per strada all’articolo sul giornale militante, dal volontariato alla carriera, il treno movimentista della santa guerra (a parole) contro i boss si è lanciato a tutta velocità contro un obiettivo che si è rivelato sbagliato: dovevano essere i mafiosi, invece è stata una generazione sociale. Anche negli effetti è andata peggio del previsto: poteva essere binario morto, invece è stato deragliamento.

Forse è il destino delle storie storte, generare cantori sbilenchi. Forse c’è una luce piccola e seminascosta nell’abbagliante ribalta dell’eterno protagonismo istituzionale: i temi e i dipinti dei ragazzini che hanno visto “I traditori” con la scuola e che scrivono al teatro – sì al teatro –  come si fa a un familiare, “grazie, ora ne sappiamo di più”. Forse da qui si potrebbe immaginare il nuovo incipit di un’antimafia che è stata frutto da addentare dimenticandosi di dover essere seme.     

Il “tribunale del teatro” con la sua indagine sul palcoscenico non è argine né corrente. Non si sostituisce a nessuno né agisce per delega di alcuno. Brandisce l’unica certezza che si scorge, come terra emersa, da un mare di domande senza risposta. La verità del dubbio.

Velocità, cultura o incultura?

L’articolo pubblicato sul Foglio.

“Grazie al telefono la donna moderna elimina la paura delle emergenze e sa che può chiamare il suo medico o, se ce n’è bisogno, la polizia o i pompieri in meno tempo di quello che di solito impiega per chiamare la cameriera”. La nostra storia inizia nel 1905 con questa pubblicità che Claude S. Fischer racconta nel suo “America Calling”. Il telefono come tecnologia dell’emergenza, e soprattutto come elemento tranquillizzante di una famiglia, col padre che nella réclame chiama per rassicurare la moglie o l’uomo d’affari che conferma un appuntamento, irrompe nel tessuto sociale americano. Sullo sfondo il motto lanciato dalla Bell nella sua illustrazione pubblicitaria: “Poche parole e l’ansia scompare”. È l’inizio di una rivoluzione lenta che però riguarda qualcosa veloce, l’interazione mediata dalla tecnologia. Una rivoluzione scientifica e sociale che nasce da un paradosso: la cultura della velocità viene fuori da menti che hanno una sorta di idea anarchica del tempo. Scrive Pekka Himanen nel suo libro “L’etica dell’hacker” (una sorta di Gronchi rosa dell’editoria dato che attualmente le uniche copie disponibili si trovano online, usate, con prezzi oltre i 130 euro, contro i 25 di copertina) che “sin dai tempi del Mit negli anni sessanta, il tipico hacker si alzava dal sonnellino pomeridiano pieno di entusiasmo, iniziava a programmare e lavorava buttandosi a capofitto nei codici fino alle ore piccole del mattino dopo”.

Gli acceleratori delle nostre esistenze nascono pian piano, fuori dall’orario di lavoro, nelle notti nicotiniche di garage californiani. È così che a poco a poco, invenzione dopo invenzione, lo slogan di Benjamin Franklin “il tempo è denaro” diventa il link più resistente tra l’etica protestante e i capisaldi nella new economy.

Sin dall’inizio di questa storia è chiaro che il concetto di rapidità in senso Calviniano, “più tempo risparmiamo, più tempo potremo perdere”, è un fregio letterario che poco o nulla ha a che vedere con la realtà atroce e sconfinata del web. Internet ci ha posto infatti davanti a incrementi numerici inusitati per la tecnologia di appena trent’anni fa: pensate all’impennata di guadagni del boss di un social network come Facebook o alla moltiplicazione dei gangli della Rete con crescite percentuali a quattro cifre. La velocità non è uno spettacolo, ma un gioco in cui chi non corre perde.

Himanen identifica due capisaldi per cercare di spiegare il valore della sollecitudine (di idee, di decisioni, di scommesse): la legge di Clark (Jim, fondatore di Netscape) secondo cui in una accelerazione continua si è costretti a collocare prodotti tecnologici sul mercato sempre più velocemente; e la legge di Moore (Gordon, fondatore di Intel) secondo cui l’efficienza dei microprocessori raddoppia ogni diciotto mesi. Mettendo insieme le due teorie si arriva a una realtà in cui nessuno è disposto ad attendere il futuro per arricchirsi, e l’economia si inchina a questa esigenza consentendo ad alcune aziende che operano nel web di acquistare valore molto prima che il loro progetto abbia una concretizzazione reale ed evidente.

Ci sono vari modi di sfruttare la velocità nell’epoca in cui virtuale e reale si scambiano di posto giocando a nascondino.

Uno è quello di Amazon, la più grande internet company del mondo. Jeff Bezos, oggi l’uomo più ricco del pianeta, era un semplice broker e ha iniziato la sua scalata vendendo libri online, poi si è cimentato con prodotti per la pulizia e accessori domestici, scarpe e vestiti, musica, libri e televisione. Ha acquistato di tutto: dal più grande rivenditore indipendente di pannolini online al Washington Post, dalla maggiore azienda che vende fumetti in rete alla catena di cibi biologici Whole Foods Market. In una consecutio di idee semplici eppure inesplorate, Bezos ha raccolto una serie di esigenze sul suo tappeto volante: non vale vendere solo cose, ma occorre realizzarle; i suoi server non servono solo a distribuire i suoi prodotti, ma è molto conveniente affittarli a terzi; non è solo l’innovazione tecnologica a fare da volano, ma la accurata e spregiudicata gestione dei capitali. E soprattutto, come ha scritto Robinson Meyer su “The Atlantic”, “gli investitori sanno che la sua è un’azienda monopolistica. È per questo che il valore delle sue azioni è così slegato dai profitti. Il mercato riesce a cogliere una realtà che sfugge alle nostre leggi”.

Se esistesse un culto religioso della velocità, Jeff Bezos sarebbe il suo profeta. O il suo angelo nero. Prima di lui la procedura prevalente per affrontare il futuro tecnologico del commercio era quella di costruire una bella pagina web e sbatterci dentro i prodotti da piazzare, in un catalogo più o meno ordinato, più o meno ammiccante, più o meno facile da consultare. La nuova via la indica nel 1999 Michael Saul Dell nel libro “Direct from Dell”: “La velocità, o la compressione del tempo e la distanza all’indietro fino alla catena dell’approvvigionamento e in avanti fino al consumatore, sarà la fonte suprema del vantaggio competitivo. Si usi internet per abbassare il costo di sviluppo dei legami tra produttori e fornitori, e tra produttori e clienti. Ciò renderà possibile ottenere prodotti e servizi da commercializzare più velocemente di quanto sia mai accaduto prima”.

Su questa scia Amazon ripensa l’intero procedimento della vendita, nonché della produzione, brandendo un imperativo che è una delle chiavi di questa storia: i prodotti devono restare il meno possibile nei magazzini giacché nell’agone dell’ipervelocità, peggio della lentezza c’è solo l’immobilità. Tutto ciò ha un prezzo, che non è quello stampato sulla confezione del prodotto, ma quello che riguarda il lavoro dei dipendenti. Qualche anno fa un’inchiesta del “New York Times” ha messo in campo un “esperimento per capire quanto Bezos può ‘spingere’ sugli impiegati per soddisfare le sue sempre più grandi ambizioni”. Nell’articolo, un ampio campionario di testimonianze: c’è chi giura di aver visto scoppiare in lacrime il collega sfinito e chi ricorda di aver lavorato per quattro giorni senza dormire, chi parla di ambulanze parcheggiate fuori dai magazzini pronte a portare via chi cede, e chi testimonia di lavoratori cacciati via solo perché non reggevano il ritmo delle 80 ore settimanali. Il reportage, contestato da Bezos al punto da scrivere che “in una società come quella descritta dal ‘New York Times’ io per primo non ci lavorerei”, ha un valore incontrovertibile: mettere a nudo il cuore del problema, cioè l’ossessione del cliente.

Tutto è stratosfericamente veloce nel mondo fatato di Amazon, cioè nel mondo visto da chi decide di comprare con un clic: la guida alla scelta, l’acquisto con un semplice sfioramento di dito cioè il paradiso (o l’inferno?) per ha il demone dell’acquisto compulsivo, il servizio clienti che ti richiama appena hai o pensi di avere un problema, il meccanismo dei resi e dei rimborsi. E soprattutto la consegna, tra due e cinque giorni lavorativi, di articoli che spesso arrivano dagli antipodi con una rapidità che sfida le leggi della fisica.

C’è un altro capitolo importante nella nostra storia e riguarda proprio il modo di raccontare una storia. Cioè come la cultura della velocità ha condizionato i metodi di narrazione televisiva. Le nuove serie tv in streaming sono forse il simbolo più evidente del cambiamento per accelerazione. La differenza è due termini: cliffhanger e binge-watching. Nelle serie tv dell’era pre-streaming, cioè quelle in cui un episodio veniva rilasciato ogni settimana si usavano i cliffhanger (dall’inglese cliff, dirupo). Alla fine di un episodio doveva accadere qualcosa che lasciava appesa la storia al “dirupo”: un personaggio in pericolo, un tradimento cruciale. Tutto finiva prima che si scoprisse l’esito dell’azione e lo spettatore aveva una settimana di tempo per interrogarsi, per condividere con gli amici i suoi sospetti, insomma per mantenere vivo l’interesse per la serie.

Con l’avvento di produzioni come quelle di Netflix, in cui gli episodi di una serie vengono rilasciati tutti insieme, entra in gioco il binge-watching (dall’inglese binge, abbuffata). Se cambia il modo in cui un’opera viene guardata, goduta, ingurgitata, deve necessariamente cambiare il modo in cui viene scritta. E allora il flusso ipnotico della narrazione deve catturare lo spettatore senza bisogno di tormentoni che durino mesi. I primi episodi non necessitano di effetti speciali o colpi bassi che inchiodino alla poltrona per una settimana, basta che abbiano ritmo e appeal per riempire un weekend o una vacanza. Nel segno della velocità, ovviamente. Non a caso l’opzione “guarda il prossimo episodio” è di default su Netflix. Scoprire il colpevole diventa una gara social con gli amici, vince chi arriva primo, chi dorme meno, chi viaggia come una saetta nel tempo in cui anche il tempo libero si espande per inerzia. Spesso si guarda la serie come se fosse un videogame in cui c’è un livello successivo da sbloccare, o una strada dal panorama tranquillizzante in cui non ci si cura delle stazioni di servizio o degli svincoli e si va avanti perché è il fluire stesso che diventa lo scopo del viaggio. Sotto questa luce sembra appartenere alla preistoria uno dei più famosi cliffhanger della televisione, quando la tv era lenta. Nel 1980 la CBS produceva la serie Dallas e alla fine della seconda stagione mostrò un personaggio misterioso che sparava al cattivo, J. R Ewing. Per otto mesi la frase “Chi ha sparato a J.R.?” divenne un tormentone e finì addirittura in una dichiarazione del presidente Jimmy Carter, che disse che non avrebbe avuto problemi a finanziare la sua campagna per la rielezione se solo avesse saputo “chi ha sparato a J.R.”.

Quando Milan Kundera scrisse ne “La lentezza” che “la velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo” evidentemente non aveva considerato la possibilità del deragliamento non già dell’estasi, ma della buona creanza. Il tempismo, non più come qualità ma come smania, chiude gli orizzonti anziché aprirli. Come dimostra l’uso improvvido del più veloce dei social network, Twitter, da parte di ministri della Repubblica che in 280 battute bruciano sul tempo persino il più accanito dei troll cinguettando controvento e contro-logica. Risultato, una fiumana di fake news che promana dai loro account.  

Nessun problema però. Questa è l’epoca in cui le dichiarazioni più che leggersi, si contano, si misurano in ettari nelle lande sconfinate delle timeline. La bibliografia diventa bibliometria. E in una sorta di “ateismo dello sconforto” – con Hobbes che si rivolta nella tomba di frasicelebri.it  – la politica figlia della (in)cultura della velocità vive abbozzolata nella certezza che le misure contano, sì. E sghignazza, magari mandando bacioni, come la lumaca di Pirandello che gettata nel fuoco sfrigola, pare che ride e invece muore.     

Le quattro vedove

Una breve storia vera. Breve purtroppo in quanto X, il suo protagonista, se n’è andato che era ancora giovane. Era un mio ex compagno di scuola, divertente e imprevedibile, uno di quelli che potresti definire tranquillamente dolce mascalzone, che vorresti accanto per un viaggio indimenticabile, per una cena all’una di notte, per una rimpatriata alcolica, per sanare un momento difficile, per scacciare un mostro che solo tu vedi. Ecco, X era uno scacciamostri. Era talmente bravo che i suoi (mostri) manco li lasciava materializzare. Una volta finì nei guai con la giustizia per questioni economiche e si presentò al giornale in cui lavoravo. Io, che ovviamente avevo la notizia, gli dissi “Non cominciamo, non ci posso fare niente!”, pensando che mi volesse chiedere chissà quale sconto giornalistico. In realtà la questione era davvero di poco conto ed era finita in fondo alle pagine della Cronaca di Palermo. X mi fermò subito: “Tranquillo, non chiedo sconti, ma un’edizione di Enna”.

Diavolo di un demonio, il suo piano era sopraffino e prevedeva un solo obiettivo: che i suoi anziani genitori non venissero a sapere dell’infortunio giudiziario.

Quindi cosa fece X? Attese che io gli sfornassi l’edizione di Enna che non conteneva la notizia che lo riguardava e andò a casa dei suoi. Che l’indomani si svegliarono col giornale sul tavolo della cucina e un bigliettino affettuoso del dolce mascalzone: “Ieri sera sono stato da Gery che vi omaggia il giornale di oggi”.

Gery omaggia il giornale.

Problema risolto.

Ma il motivo per cui vi racconto la storia di X non è questo. Potrei dirvi di quella volta in cui chiacchierando al telefono mentre giocava con un fucile da caccia di suo padre gli scappò un colpo che riempì una parete di pallettoni: parete che in un’ora ricoprì di quadri orribili acquistati al volo da un suo amico graffitaro, il tempo che i suoi genitori rientrassero a casa. O di quell’altra in cui decise di fare il pane solo con acqua e farina perché lui aveva una ricetta segreta, e soprattutto degli amici come noi talmente rincoglioniti da credergli, e partorì un paio di schiacciate di cemento armato mandandoci a fare in culo perché noi non capivamo niente dell’arte della panificazione eccetera. O di quando, giocando a nascondino (eravamo ragazzini sì), scelse il nascondiglio più impenetrabile, almeno fino a quando non arrivò il treno: una galleria sulla strada ferrata Palermo-Messina.  

Invece no.

Vi racconto di quando morì, il mio adorabile, detestabile, meraviglioso, impresentabile X. Al suo funerale si presentarono quattro ragazze, con devastata discrezione.
Erano tutte fidanzate ufficiali. Tragicamente nessuna di loro sapeva dell’altra. E, grazie a un drammatico lavoro di incastri e di strategia mio e di un altro paio di amici, nessuno di loro ha mai saputo dell’altra. Furono tutte allocate, nel loro dolore, nei primi posti della chiesa. Le baciamo e le abbracciamo con un’intensità dalla precisione millimetrica. Ci inventammo astruse geometrie davanti alla bara, al cimitero, pur di garantire a ciascuna di loro il diritto esclusivo alla pietà. Dimenticammo persino le lacrime in quel frangente – è una storia di quasi trent’anni fa – e ci dedicammo alla complicatissima salvaguardia della memoria trasversale del dolce mascalzone.

Me la sono tenuta fino a ora, questa storia. Perché la prescrizione non è solo un istituto giuridico, ma una maniera di prendere un ricordo, passargli sopra una mano di vernice e far finta che sia oggi e che sia tutto finito prima ancora di cominciare. Per riderci su, per scrivere sulla nostra lavagnetta personale “tutto andrà bene” anche quando non c’è un solo indizio che deponga in tal senso, per prendere la rincorsa verso il futuro con la base più solida che abbiamo, quella della memoria. Oggi X sta di certo seduto in consiglio di amministrazione da qualche parte lassù, del resto il Creatore non è uno che si lascia scappare uno così, che tappa buchi di proiettile in mezzo pomeriggio, che s’inventa il cibo dove non c’è, che non ha paura del buio quando c’è un treno che arriva. E soprattutto che aveva capito che il miglior modo di prevedere il futuro è inventarselo. Pace all’anima sua, caro e dolce maledetto X, e un pensiero alle quattro vedove il cui dolore genuino non è mai stato scalfito dall’insincerità di un indimenticabile spirito burlone.