Velocità, cultura o incultura?

L’articolo pubblicato sul Foglio.

“Grazie al telefono la donna moderna elimina la paura delle emergenze e sa che può chiamare il suo medico o, se ce n’è bisogno, la polizia o i pompieri in meno tempo di quello che di solito impiega per chiamare la cameriera”. La nostra storia inizia nel 1905 con questa pubblicità che Claude S. Fischer racconta nel suo “America Calling”. Il telefono come tecnologia dell’emergenza, e soprattutto come elemento tranquillizzante di una famiglia, col padre che nella réclame chiama per rassicurare la moglie o l’uomo d’affari che conferma un appuntamento, irrompe nel tessuto sociale americano. Sullo sfondo il motto lanciato dalla Bell nella sua illustrazione pubblicitaria: “Poche parole e l’ansia scompare”. È l’inizio di una rivoluzione lenta che però riguarda qualcosa veloce, l’interazione mediata dalla tecnologia. Una rivoluzione scientifica e sociale che nasce da un paradosso: la cultura della velocità viene fuori da menti che hanno una sorta di idea anarchica del tempo. Scrive Pekka Himanen nel suo libro “L’etica dell’hacker” (una sorta di Gronchi rosa dell’editoria dato che attualmente le uniche copie disponibili si trovano online, usate, con prezzi oltre i 130 euro, contro i 25 di copertina) che “sin dai tempi del Mit negli anni sessanta, il tipico hacker si alzava dal sonnellino pomeridiano pieno di entusiasmo, iniziava a programmare e lavorava buttandosi a capofitto nei codici fino alle ore piccole del mattino dopo”.

Gli acceleratori delle nostre esistenze nascono pian piano, fuori dall’orario di lavoro, nelle notti nicotiniche di garage californiani. È così che a poco a poco, invenzione dopo invenzione, lo slogan di Benjamin Franklin “il tempo è denaro” diventa il link più resistente tra l’etica protestante e i capisaldi nella new economy.

Sin dall’inizio di questa storia è chiaro che il concetto di rapidità in senso Calviniano, “più tempo risparmiamo, più tempo potremo perdere”, è un fregio letterario che poco o nulla ha a che vedere con la realtà atroce e sconfinata del web. Internet ci ha posto infatti davanti a incrementi numerici inusitati per la tecnologia di appena trent’anni fa: pensate all’impennata di guadagni del boss di un social network come Facebook o alla moltiplicazione dei gangli della Rete con crescite percentuali a quattro cifre. La velocità non è uno spettacolo, ma un gioco in cui chi non corre perde.

Himanen identifica due capisaldi per cercare di spiegare il valore della sollecitudine (di idee, di decisioni, di scommesse): la legge di Clark (Jim, fondatore di Netscape) secondo cui in una accelerazione continua si è costretti a collocare prodotti tecnologici sul mercato sempre più velocemente; e la legge di Moore (Gordon, fondatore di Intel) secondo cui l’efficienza dei microprocessori raddoppia ogni diciotto mesi. Mettendo insieme le due teorie si arriva a una realtà in cui nessuno è disposto ad attendere il futuro per arricchirsi, e l’economia si inchina a questa esigenza consentendo ad alcune aziende che operano nel web di acquistare valore molto prima che il loro progetto abbia una concretizzazione reale ed evidente.

Ci sono vari modi di sfruttare la velocità nell’epoca in cui virtuale e reale si scambiano di posto giocando a nascondino.

Uno è quello di Amazon, la più grande internet company del mondo. Jeff Bezos, oggi l’uomo più ricco del pianeta, era un semplice broker e ha iniziato la sua scalata vendendo libri online, poi si è cimentato con prodotti per la pulizia e accessori domestici, scarpe e vestiti, musica, libri e televisione. Ha acquistato di tutto: dal più grande rivenditore indipendente di pannolini online al Washington Post, dalla maggiore azienda che vende fumetti in rete alla catena di cibi biologici Whole Foods Market. In una consecutio di idee semplici eppure inesplorate, Bezos ha raccolto una serie di esigenze sul suo tappeto volante: non vale vendere solo cose, ma occorre realizzarle; i suoi server non servono solo a distribuire i suoi prodotti, ma è molto conveniente affittarli a terzi; non è solo l’innovazione tecnologica a fare da volano, ma la accurata e spregiudicata gestione dei capitali. E soprattutto, come ha scritto Robinson Meyer su “The Atlantic”, “gli investitori sanno che la sua è un’azienda monopolistica. È per questo che il valore delle sue azioni è così slegato dai profitti. Il mercato riesce a cogliere una realtà che sfugge alle nostre leggi”.

Se esistesse un culto religioso della velocità, Jeff Bezos sarebbe il suo profeta. O il suo angelo nero. Prima di lui la procedura prevalente per affrontare il futuro tecnologico del commercio era quella di costruire una bella pagina web e sbatterci dentro i prodotti da piazzare, in un catalogo più o meno ordinato, più o meno ammiccante, più o meno facile da consultare. La nuova via la indica nel 1999 Michael Saul Dell nel libro “Direct from Dell”: “La velocità, o la compressione del tempo e la distanza all’indietro fino alla catena dell’approvvigionamento e in avanti fino al consumatore, sarà la fonte suprema del vantaggio competitivo. Si usi internet per abbassare il costo di sviluppo dei legami tra produttori e fornitori, e tra produttori e clienti. Ciò renderà possibile ottenere prodotti e servizi da commercializzare più velocemente di quanto sia mai accaduto prima”.

Su questa scia Amazon ripensa l’intero procedimento della vendita, nonché della produzione, brandendo un imperativo che è una delle chiavi di questa storia: i prodotti devono restare il meno possibile nei magazzini giacché nell’agone dell’ipervelocità, peggio della lentezza c’è solo l’immobilità. Tutto ciò ha un prezzo, che non è quello stampato sulla confezione del prodotto, ma quello che riguarda il lavoro dei dipendenti. Qualche anno fa un’inchiesta del “New York Times” ha messo in campo un “esperimento per capire quanto Bezos può ‘spingere’ sugli impiegati per soddisfare le sue sempre più grandi ambizioni”. Nell’articolo, un ampio campionario di testimonianze: c’è chi giura di aver visto scoppiare in lacrime il collega sfinito e chi ricorda di aver lavorato per quattro giorni senza dormire, chi parla di ambulanze parcheggiate fuori dai magazzini pronte a portare via chi cede, e chi testimonia di lavoratori cacciati via solo perché non reggevano il ritmo delle 80 ore settimanali. Il reportage, contestato da Bezos al punto da scrivere che “in una società come quella descritta dal ‘New York Times’ io per primo non ci lavorerei”, ha un valore incontrovertibile: mettere a nudo il cuore del problema, cioè l’ossessione del cliente.

Tutto è stratosfericamente veloce nel mondo fatato di Amazon, cioè nel mondo visto da chi decide di comprare con un clic: la guida alla scelta, l’acquisto con un semplice sfioramento di dito cioè il paradiso (o l’inferno?) per ha il demone dell’acquisto compulsivo, il servizio clienti che ti richiama appena hai o pensi di avere un problema, il meccanismo dei resi e dei rimborsi. E soprattutto la consegna, tra due e cinque giorni lavorativi, di articoli che spesso arrivano dagli antipodi con una rapidità che sfida le leggi della fisica.

C’è un altro capitolo importante nella nostra storia e riguarda proprio il modo di raccontare una storia. Cioè come la cultura della velocità ha condizionato i metodi di narrazione televisiva. Le nuove serie tv in streaming sono forse il simbolo più evidente del cambiamento per accelerazione. La differenza è due termini: cliffhanger e binge-watching. Nelle serie tv dell’era pre-streaming, cioè quelle in cui un episodio veniva rilasciato ogni settimana si usavano i cliffhanger (dall’inglese cliff, dirupo). Alla fine di un episodio doveva accadere qualcosa che lasciava appesa la storia al “dirupo”: un personaggio in pericolo, un tradimento cruciale. Tutto finiva prima che si scoprisse l’esito dell’azione e lo spettatore aveva una settimana di tempo per interrogarsi, per condividere con gli amici i suoi sospetti, insomma per mantenere vivo l’interesse per la serie.

Con l’avvento di produzioni come quelle di Netflix, in cui gli episodi di una serie vengono rilasciati tutti insieme, entra in gioco il binge-watching (dall’inglese binge, abbuffata). Se cambia il modo in cui un’opera viene guardata, goduta, ingurgitata, deve necessariamente cambiare il modo in cui viene scritta. E allora il flusso ipnotico della narrazione deve catturare lo spettatore senza bisogno di tormentoni che durino mesi. I primi episodi non necessitano di effetti speciali o colpi bassi che inchiodino alla poltrona per una settimana, basta che abbiano ritmo e appeal per riempire un weekend o una vacanza. Nel segno della velocità, ovviamente. Non a caso l’opzione “guarda il prossimo episodio” è di default su Netflix. Scoprire il colpevole diventa una gara social con gli amici, vince chi arriva primo, chi dorme meno, chi viaggia come una saetta nel tempo in cui anche il tempo libero si espande per inerzia. Spesso si guarda la serie come se fosse un videogame in cui c’è un livello successivo da sbloccare, o una strada dal panorama tranquillizzante in cui non ci si cura delle stazioni di servizio o degli svincoli e si va avanti perché è il fluire stesso che diventa lo scopo del viaggio. Sotto questa luce sembra appartenere alla preistoria uno dei più famosi cliffhanger della televisione, quando la tv era lenta. Nel 1980 la CBS produceva la serie Dallas e alla fine della seconda stagione mostrò un personaggio misterioso che sparava al cattivo, J. R Ewing. Per otto mesi la frase “Chi ha sparato a J.R.?” divenne un tormentone e finì addirittura in una dichiarazione del presidente Jimmy Carter, che disse che non avrebbe avuto problemi a finanziare la sua campagna per la rielezione se solo avesse saputo “chi ha sparato a J.R.”.

Quando Milan Kundera scrisse ne “La lentezza” che “la velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo” evidentemente non aveva considerato la possibilità del deragliamento non già dell’estasi, ma della buona creanza. Il tempismo, non più come qualità ma come smania, chiude gli orizzonti anziché aprirli. Come dimostra l’uso improvvido del più veloce dei social network, Twitter, da parte di ministri della Repubblica che in 280 battute bruciano sul tempo persino il più accanito dei troll cinguettando controvento e contro-logica. Risultato, una fiumana di fake news che promana dai loro account.  

Nessun problema però. Questa è l’epoca in cui le dichiarazioni più che leggersi, si contano, si misurano in ettari nelle lande sconfinate delle timeline. La bibliografia diventa bibliometria. E in una sorta di “ateismo dello sconforto” – con Hobbes che si rivolta nella tomba di frasicelebri.it  – la politica figlia della (in)cultura della velocità vive abbozzolata nella certezza che le misure contano, sì. E sghignazza, magari mandando bacioni, come la lumaca di Pirandello che gettata nel fuoco sfrigola, pare che ride e invece muore.     

Le quattro vedove

Una breve storia vera. Breve purtroppo in quanto X, il suo protagonista, se n’è andato che era ancora giovane. Era un mio ex compagno di scuola, divertente e imprevedibile, uno di quelli che potresti definire tranquillamente dolce mascalzone, che vorresti accanto per un viaggio indimenticabile, per una cena all’una di notte, per una rimpatriata alcolica, per sanare un momento difficile, per scacciare un mostro che solo tu vedi. Ecco, X era uno scacciamostri. Era talmente bravo che i suoi (mostri) manco li lasciava materializzare. Una volta finì nei guai con la giustizia per questioni economiche e si presentò al giornale in cui lavoravo. Io, che ovviamente avevo la notizia, gli dissi “Non cominciamo, non ci posso fare niente!”, pensando che mi volesse chiedere chissà quale sconto giornalistico. In realtà la questione era davvero di poco conto ed era finita in fondo alle pagine della Cronaca di Palermo. X mi fermò subito: “Tranquillo, non chiedo sconti, ma un’edizione di Enna”.

Diavolo di un demonio, il suo piano era sopraffino e prevedeva un solo obiettivo: che i suoi anziani genitori non venissero a sapere dell’infortunio giudiziario.

Quindi cosa fece X? Attese che io gli sfornassi l’edizione di Enna che non conteneva la notizia che lo riguardava e andò a casa dei suoi. Che l’indomani si svegliarono col giornale sul tavolo della cucina e un bigliettino affettuoso del dolce mascalzone: “Ieri sera sono stato da Gery che vi omaggia il giornale di oggi”.

Gery omaggia il giornale.

Problema risolto.

Ma il motivo per cui vi racconto la storia di X non è questo. Potrei dirvi di quella volta in cui chiacchierando al telefono mentre giocava con un fucile da caccia di suo padre gli scappò un colpo che riempì una parete di pallettoni: parete che in un’ora ricoprì di quadri orribili acquistati al volo da un suo amico graffitaro, il tempo che i suoi genitori rientrassero a casa. O di quell’altra in cui decise di fare il pane solo con acqua e farina perché lui aveva una ricetta segreta, e soprattutto degli amici come noi talmente rincoglioniti da credergli, e partorì un paio di schiacciate di cemento armato mandandoci a fare in culo perché noi non capivamo niente dell’arte della panificazione eccetera. O di quando, giocando a nascondino (eravamo ragazzini sì), scelse il nascondiglio più impenetrabile, almeno fino a quando non arrivò il treno: una galleria sulla strada ferrata Palermo-Messina.  

Invece no.

Vi racconto di quando morì, il mio adorabile, detestabile, meraviglioso, impresentabile X. Al suo funerale si presentarono quattro ragazze, con devastata discrezione.
Erano tutte fidanzate ufficiali. Tragicamente nessuna di loro sapeva dell’altra. E, grazie a un drammatico lavoro di incastri e di strategia mio e di un altro paio di amici, nessuno di loro ha mai saputo dell’altra. Furono tutte allocate, nel loro dolore, nei primi posti della chiesa. Le baciamo e le abbracciamo con un’intensità dalla precisione millimetrica. Ci inventammo astruse geometrie davanti alla bara, al cimitero, pur di garantire a ciascuna di loro il diritto esclusivo alla pietà. Dimenticammo persino le lacrime in quel frangente – è una storia di quasi trent’anni fa – e ci dedicammo alla complicatissima salvaguardia della memoria trasversale del dolce mascalzone.

Me la sono tenuta fino a ora, questa storia. Perché la prescrizione non è solo un istituto giuridico, ma una maniera di prendere un ricordo, passargli sopra una mano di vernice e far finta che sia oggi e che sia tutto finito prima ancora di cominciare. Per riderci su, per scrivere sulla nostra lavagnetta personale “tutto andrà bene” anche quando non c’è un solo indizio che deponga in tal senso, per prendere la rincorsa verso il futuro con la base più solida che abbiamo, quella della memoria. Oggi X sta di certo seduto in consiglio di amministrazione da qualche parte lassù, del resto il Creatore non è uno che si lascia scappare uno così, che tappa buchi di proiettile in mezzo pomeriggio, che s’inventa il cibo dove non c’è, che non ha paura del buio quando c’è un treno che arriva. E soprattutto che aveva capito che il miglior modo di prevedere il futuro è inventarselo. Pace all’anima sua, caro e dolce maledetto X, e un pensiero alle quattro vedove il cui dolore genuino non è mai stato scalfito dall’insincerità di un indimenticabile spirito burlone.

Nuova malvagità democratica

L’articolo pubblicato sul Foglio.

Ha viaggiato dal Regno Unito alla Norvegia, dagli Usa alla Russia e al Libano. Ha incontrato, tra gli altri, un uomo che minaccia di uccidere gli immigrati, una ragazza che ce l’ha a morte con Lady Gaga, un sostenitore di Trump che vorrebbe Hillary Clinton in cella e una russa secondo la quale c’è un piano dei gay per conquistare il mondo. Kyrre Lien, giornalista che vive a Oslo, ha indagato per tre anni sull’odio in rete. Coi risultati della sua inchiesta ci ha fatto un documentario intitolato “The internet warriors” cercando di discutere con “persone che passavano ore e ore a scrivere commenti online” una delle quali, una sorta di recordman, ne aveva postati più di mezzo milione. Da questa esperienza Lien ha tratto due profili di haters: “Quelli che odiano perché sono disoccupati e hanno tanto tempo a disposizione o perché hanno un livello culturale molto basso, e quelli che in qualche modo si sentono trascurati”.
Sin qui tutto straordinariamente normale, come normale è la trazione cardanica delle frustrazioni nell’anno di grazia 2018 e straordinario è il boost di carburazione dei social network.

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La rivincita dell’analogico

L’articolo pubblicato su Il Foglio.

Per molto tempo il rapporto tra digitale e analogico è stato visto come una contrapposizione: smartphone o telefono a conchiglia, iPad o carta, mp3 o vinile. Bianco o nero, prima o dopo, una logica viziata proprio dalla rigidità del codice binario, cioè da un alfabeto composto da due soli simboli (zero e uno), una logica nemica delle complessità e delle sfumature della vita reale. Partiamo da qui per capire il senso di una controrivoluzione lenta ma costante che sta riportando il mondo nella carreggiata dell’analogico: non si tratta di contrapposizione, ma di equilibrio instabile.
Il 21 aprile scorso si è celebrata in tutto il mondo la decima edizione del Record Store Day, una giornata dedicata ai negozi di dischi e in quell’occasione la Federazione industria musicale italiana ha reso noti i numeri del vinile in Italia: oggi il mercato vale quasi 13 milioni e mezzo di euro, una crescita vertiginosa se pensate che nel 2012 ne valeva poco meno di due. E le prospettive appaiono rosee se è vero che il 23 per cento dei consumatori di musica ha acquistato almeno un disco in vinile nel 2017 e il trend è già salito al 31,8 nel primo trimestre di quest’anno.
Il 33 giri è il simbolo del bene analogico e della sua ingiusta sottovalutazione nel lungo periodo dell’abbaglio ipertecnologico con conseguente strapotere dell’mp3. Basti pensare al mito del file immortale che umiliava il vinile, i suoi fruscii e la sua deteriorabilità. Ebbene, se volete chiarirvi le idee una volta per tutte fate un esperimento. Ripescate qualche vecchio floppy disc, provate a trovare un apparecchio in grado di leggerlo o a farlo funzionare col vostro computer: probabilmente non ci riuscirete. Poi tirate fuori il vecchio ellepì dei Pink Floyd “The dark side of the moon” (da tempo il più venduto dei vinili in Italia), mettetelo sul piatto di un giradischi degli anni ’70, accendete l’amplificatore degli anni ’80 e ascoltatelo con casse del 2000. Vedrete che non ci saranno intoppi. Continua a leggere La rivincita dell’analogico

Il grande guardone

L’articolo pubblicato sul Foglio lo scorso fine settimana.

Secondo una battuta che circola negli Stati Uniti, ormai per farsi finanziare un qualsiasi progetto dal governo basta aggiungere la parola cyber al titolo del progetto stesso. Il motivo è semplice: quando si parla di rischi legati alla tecnologia, e più in generale di criminalità informatica, pochi conoscono esattamente qual è l’effettivo “campo di gioco” con le sue regole e i suoi trucchi.
La gran parte delle agenzie di intelligence soffiano sul fuoco del pericolo imminente probabilmente perché devono in qualche modo attestare la propria esistenza in vita (con relativi costi). Inoltre è sempre forte l’eco di quella che il ricercatore di Harvard Ben Buchanan chiama la “leggenda della sofisticazione”: ogni attacco viene descritto sui giornali come estremamente sofisticato, quando spesso non lo è affatto e si è propagato solo per l’inefficienza delle infrastrutture informatiche.
Insomma, il vero problema in tempi così drammaticamente moderni è la diffusione dell’analfabetismo digitale. Da un’inchiesta del New Yorker emerge un dato su tutti: fino a qualche anno fa gran parte dei giudici della Corte Suprema degli Usa, il massimo organo giudiziario del Paese chiamato a dirimere anche questioni di tecnologia, non aveva mai usato la posta elettronica.

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Gli incappucciati del web

L’articolo pubblicato ieri sul Foglio.

Sino a qualche anno fa il dilemma del web era: nickname o nome e cognome? Cioè libertà di opinione senza i laccioli delle questioni anagrafiche (il valore di un commento prescinde da chi lo esprime) oppure certificazione blindata dell’autore (un commento senza maschera vale di più)?
Non si era ancora scatenata la pandemia delle fake news e la rivista statunitense The Atlantic s’interrogava sull’alchimia giusta per “far emergere i contenuti di valore isolando il rumore di fondo” ed evitare di cadere nel tranello secondo il quale i commenti anonimi sono scadenti mentre quelli firmati sono un surrogato dei versetti della bibbia. Era il 2011 e il sito del New York Times metteva in campo i cosiddetti trusted commenters, cioè “commentatori affidabili” che avevano licenza di dire la loro senza passare dalle forche caudine della moderazione.
Oggi le cose sono cambiate, come se fossero passati vent’anni. L’antica maldicenza, che aveva già trovato megafono nei blog, ha invaso intere lande di internet come una malapianta che accerchia e soffoca. Mentre lo sfogo del frustrato ha perso il volto del suo autore nel cammino senza pietà verso la gogna mediatica.
Benvenuti nell’èra degli incappucciati del web. Continua a leggere Gli incappucciati del web

Gli untori del web

L’articolo pubblicato ieri sul Foglio.

Questa è una storia di guasti moderni e di tecnologie avanzate che in sé ha poco o nulla di nuovo e di avanzato. Una storia di untori del web che agiscono con metodi medioevali, forti di un concetto tolemaico di democrazia e della sua verità decotta (o appena impastata) al centro di un universo che, pensate un po’, dovrebbe brillare di luce riflessa.
È una storia che inizia nel 1992 quando si diffonde per la prima volta il termine post-verità (dall’inglese post-truth) per stigmatizzare l’informazione distorta sulla Guerra del Golfo. Ventiquattro anni dopo, quando il web ne avrà ridisegnato i connotati, l’Oxford Dictionary lo eleggerà parola dell’anno. E l’Accademia della Crusca parlerà di una dimensione “oltre la verità”: “Oltre è il significato che qui sembra assumere il prefisso ‘post’ (invece del consueto ‘dopo’), si tratta cioè di un ‘dopo la verità’ che non ha niente a che fare con la cronologia, ma che sottolinea il superamento della verità fino al punto di determinarne la perdita di importanza”. Continua a leggere Gli untori del web

Buon compleanno

Undici anni fa “Progetto Legalità”, la fondazione costituita in memoria di Paolo Borsellino, mi chiese un racconto: me ne ero quasi dimenticato sino a oggi, quando cercando una cosa nel mio computer mi sono imbattuto in questo file. Che evidentemente si era scocciato di sonnecchiare tra appunti, fatture, articoli, aborti di idee, e voleva essere tirato fuori. Il racconto si intitola “Buon compleanno”.

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                                              Palermo, 30 settembre 2005

Buon compleanno, Paolino.
Sette anni sono un traguardo importante. E tu, figlio mio, sei destinato a grandi cose. Si capisce dagli occhi, dall’avidità di conoscere, dal sorriso, persino dai capricci.
Ormai leggi benissimo e questa lettera voglio che la conservi.
La Playstation nuova sarà già vecchia il prossimo anno, i tuoi vestiti durano una stagione, come lo zaino per la scuola e certi amici. Invece ci sono cose che non passano, per questo ti chiedo di ascoltarmi: metti questo foglio in un cassetto – magari il terzo del tuo comodino, sotto quello delle mutande, dove solitamente getti la carta delle merendine che hai mangiato di nascosto – e lascialo lì. Stanotte ho fatto un sogno che ti devo raccontare.
Ho in mano un telecomando, come quello della nostra televisione grande, quello con la gomma intorno e con una dozzina di opzioni che nessuno conosce. Questo aggeggio ha un tasto speciale che lo rende unico al mondo, anzi in tutto l’universo. È in grado di fermare il tempo!
Io premo questo tasto.
Clic.

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Storia di Filippo, morto prima di Facebook

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Filippo era un riassunto di varie perfezioni. Era bello, era colto, era furbo, era affettuoso, era divertente, era altruista. E aveva il più ironico senso del tragico che abbia mai conosciuto. La sua storia l’ho sempre avuta dentro, ma chissà perché non l’ho mai raccontata. È vero, a Filippo ho dedicato un libro, ma la sua storia è rimasta nella mia memoria e in quella di chi lo ha conosciuto e lo ha amato. Come la mia amica Manuela che l’altro giorno ha postato una sua foto su Facebook. Ed è proprio grazie a quell’immagine che mi è venuto in mente ciò che mi era passato di mente: la storia di Filippo è rimasta di pochi perché lui se n’è andato troppo presto, in una notte di febbraio nel 1994, quando ancora gli unici social network erano i telefoni di casa e i citofoni.
Allora ve la racconto, questa storia. Mettetevi comodi.
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La spiaggia, l’amore e il vortice dei social

Ciao Ada, ieri ti ho rivista dopo più di trent’anni. Eri sdraiata in spiaggia a Mondello e parlavi al telefono con una tua amica: ti lamentavi della tata inglese che dovrebbe insegnare le lingue ai tuoi due figli e invece se ne sta tutto il pomeriggio davanti alla tv. Come lo so? Me lo hai detto tu, anzi ce lo hai detto tu a tutti quanti, nel raggio di duecento metri, dato che il volume della tua voce non era certo da bisbiglio. Volevo avvicinarmi per salutarti ma, visto che eri impegnata, ho preferito rimanere in disparte. Continua a leggere La spiaggia, l’amore e il vortice dei social