Professione complessista

Sto provando a star lontano dal dibattito social buoni/cattivi a proposito dell’attacco di Hamas a Israele. E non lo faccio per saggezza o per evitare di farmi il sangue marcio, ma semplicemente perché non ci può essere un dibattito su questo tema. Una strage all’arma bianca, un proposito di sterminio di un popolo solo perché è quel popolo, un attacco vigliacco e sanguinoso in cui l’obiettivo non sono militari o uomini armati ma bambini e neonati, tutto ciò non comprende il dilemma buoni/cattivi ma al contrario lo esclude categoricamente. Perché dinanzi alla violenza cieca, quella inenarrabile, quella che ci fa rabbrividire solo al pensiero, non esistono le categorie umane. Siamo nel disumano.
E non funziona neanche la narrazione “prima quelli hanno fatto questo e quest’altro”, né il distinguo “sono contro la violenza però”. Quando ci si trova dinanzi all’orrore non esistono sentimenti, geografie, biografie, analisi politiche, acrobazie religiose, espedienti giornalistici o pseudo tali che possano in qualche modo giustificarlo.
Molti talk show televisivi (ma anche molti giornali), figli delle pulsioni social che garantiscono audience, sono il luogo dell’esercizio libero di una disciplina che, dai negazionismi storici ai no-vax, dal terrapiattismo al giustificazionismo antico e recente (dalla Shoah a Gaza), costruisce piccoli fenomeni che dovrebbero essere da baraccone e che invece diventano da baraccopoli della verità.
La chiave che questi individui usano (non voglio fare nomi e cerco di rimanere sui concetti anziché sulle persone) per scardinare la serratura della credibilità è il cosiddetto complessismo. Che consiste nel mettere in mezzo uno spaventapasseri (tipo un ragionamento di parte che spacciano per assodato, diffuso, ovvio mentre è prevalentemente farina del loro sacco), sradicarlo con un colpo di teatro e poi prendere il volo, ritenendosi leggeri e liberi, al di sopra di noi pecoroni semplicisti.

Il complessismo problematizza, contestualizza, relativizza, riduce e ingrandisce, sovrappone e isola, per fabbricare la nuvola di fumo più grande e densa possibile. Anche e soprattutto quando la vicenda è semplice, il complessista si nutre di retorica e usa frasi che possono essere fraintese. Solo in tal modo può sfruttare al meglio la seconda sua caratteristica, il vittimismo.
Il complessista brama per essere insultato, si siede sulla poltroncina del dibattito con la speranza che gli si tiri un uovo addosso, arriva in uno studio tv pregando di poterlo abbandonare indignato. Perché punta a una sola cosa: non dover mai essere costretto ad argomentare logicamente la catena di minchiate sulla quale costruisce la sua vita pubblica.
Se scoprisse interiormente di avere ragione forse si suiciderebbe. Ma accanto al corpo farebbe in modo di lasciare uno spaventapasseri.  

La violenza è l’arma dei perdenti

Cerco di dirlo in maniera semplice. Provo dolore solo a immaginare bambini sgozzati, donne violentate, anziani usati come ostaggi, esseri umani oltraggiati in vita e in morte. Non c’è un “ma” o un “però” che si deve frapporre tra un errore e il suo rimedio, tra un’accusa e la sua replica. Dinanzi a fatti acclarati c’è un on e un off.

Il mondo ideale di chi fugge da quello reale – che è orribile – non è fatto da chi passa la giornata a cantare messa, a inanellare distinguo o peggio a contrapporre culture, ma molto più prosaicamente da chi scansa il prete e decide di cambiare registro, da chi ragiona dopo aver ragionato. Nella politica, nel barlume di società civile, in quel che resta dei giornali (e qui via alla fuga forsennata dei like dei miei colleghi), nell’arte (idem, come sopra), serve un giro di boa che rasenti la modestia di un ragionamento semplice. I cattivi in fondo fanno il loro mestiere. Sono gli altri che fanno la differenza, che devono spiazzare, ammazzando l’unica cosa che va sterminata in tutti i campi di combattimento: il pregiudizio. Scovando il passo falso che si tende a nascondere. Non lasciandosi ingannare dalle versioni precostiuite. Abbattendo i muri dell’ideologia da slogan.

La violenza è l’ultima arma dei perdenti e degli incompetenti. Lo insegnano la storia, l’arte, il buon senso e molte altre good vibrations che non abbiamo il tempo di dipanare.
Però prima di sventolare bandiere o di aver timore di farlo, parliamone se abbiamo il coraggio

Rimodulare

C’è qualcosa che sin dalla mia infanzia mi sono fatto carico di coltivare. È qualcosa che ha a che fare con un senso atavico di irrequietudine che sta tra il pratico e l’evangelico, tra l’isolamento e il casinismo, tra l’altra guancia che attende e il pugno che si arma per reagire.
Non è stato facile puntare alla quadratura del cerchio e forse non ci si arriva mai. Perché parlo della capacità di rimodulare, di rimodularsi. Che è quasi un sentimento, qualcosa che vive e prolifera controcorrente, come certi pesci che per figliare devono scassarsi la minchia e risalire fiumi, lottare senza godimento, vincere senza trofeo.
Se non ti ci dedichi sin da piccolo, finisce che la rimodulazione la scopri quando è troppo tardi. Generalmente quando sei agli estremi: tipo quando hai stravinto e ti accorgi che stravincere può essere noioso, o quando hai macinato una tremenda sconfitta e non hai pensato a un piano B perché eri impegnato a piangerti addosso.

Imparare a rimodulare non è sempre un atto di saggezza. Io ad esempio ho pagato il mio esercizio in tal senso con una serie di errori dei quali non vado fiero neanche adesso che sono abbondantemente superati (esiste una prescrizione anche nelle cazzate). Mi ha molto aiutato la passione per la musica, per la lettura e ovviamente per la scrittura, ma questo è un dettaglio di vanteria quasi onanistica.
Ciò che davvero è stato determinante sin da ragazzo è stato il divertimento applicato allo sport. I miei sport sono sempre stati estremamente divertenti: lo sci, l’arrampicata e i cammini. La maratona no, era uno scacciapensieri pieno di tecnicismi, un modo legale di drogarsi insomma.

Pensavo a tutto ciò l’altro giorno quando sono stato raggiunto dalla tremenda notizia della morte di un mio amico – arrampicatore, torrentista e altro – e mi è toccato rispondere alla solita obiezione banale (e, diciamolo, anche fuori luogo) che il saputello di turno tira fuori quando c’è una vittima di sport potenzialmente rischiosi: ma cosa prova uno a mettersi in pericolo inutilmente?
Generalmente quando mi imbatto in obiezioni di questo tipo rischio di diventare aggressivo se non altro perché sono cinquant’anni che le sopporto e cinquant’anni che rispondo sempre alla stessa maniera. Quindi qui la prenderò diversamente.
Il segreto è tutto nella rimodulazione di cui dicevo, cioè la necessità umana di riorganizzare nuovi schemi, di inventarne di nuovi, di adattarsi e di costruire forme esclusive in cui rifugiarsi e trovare conforto.
L’alpinista non pretende di dominare il mondo, al contrario chiede di essere ammesso al suo cospetto pagando un dazio di rischio. Lo sciatore estremo non oltraggia il pendio, al contrario si adatta a esso accarezzandolo in cerca di un verso giusto (se esiste). Nessuno di loro pensa di mettersi in pericolo, al contrario cerca un riparo in quel mondo che gli altri guardano distrattamente e loro invece ammirano, esplorano, affrontano col rispetto dovuto alle entità superiori.

Perdonatemi una banalità: i momenti peggiori della mia vita, quelli in cui sono davvero stato in pericolo li ho vissuti sul ciglio di una strada, sul cemento di un marciapiede, sul letto di un ospedale da bambino. In montagna, sott’acqua, in un bosco sperduto con uno zaino, davanti a un fiume da guadare o a uno strapiombo da affrontare con gli sci mi sono sentito vivo e soddisfatto come al Teatro quando il mio lavoro è andato bene, o davanti a un foglio quando le parole si sono abbracciate come speravo. Perché l’esercizio della rimodulazione è la migliore ginnastica per l’immaginazione. E perché solo grazie alla fantasia, che della rimodulazione è figlia prediletta, riusciamo a godere di quel castello incantato che salva i nostri sogni, da quando siamo bambini a quando diventiamo vecchi.
Un castello che la realtà puntualmente demolisce.  

Questo post è dedicato a Fabio Valentino (con tanto di foto).    

Un (cruciale) indovinello sulla verità

Una volta, molti anni fa, mi capitò di ascoltare un indovinello alla radio. Erano gli anni ’70 e ancora non esisteva l’on demand, la possibilità di riascoltare, il podcast e altre diavolerie moderne che tolgono tempo alla scansione del tempo.
L’indovinello era questo.

Siete in una cella blindata che ha due porte, una rossa e una nera: una di queste vi dà la possibilità di uscire, l’altra invece no, è una porta finta. Le porte sono identiche e ovviamente voi nulla potete intuire guardandole. Accanto a ognuna di queste porte c’è un guardiano. Quindi due guardiani su cui avete un’informazione cruciale: uno dei due mente sempre, l’altro dice la verità. Ma voi non sapete quale dei due è un mentitore.
Avete la possibilità di uscire dalla cella facendo una sola domanda a uno dei due guardiani: solo così avrete la certezza matematica di sapere qual è la porta giusta, quella che vi conduce alla libertà.
Qual è la domanda?

A quei tempi accadde una cosa incredibile: al momento di svelare la risposta, la trasmissione si interruppe. Ebbene, rimasi a pensarci per anni. Non c’era internet, non c’era la possibilità di scambiare su scala globale informazioni (anche banali come quelle sulla risposta a un indovinello).
La soluzione – lo giuro – mi arrivò una notte insonne di 25 anni dopo, come un’illuminazione. Non ve la dico, magari ci pensate anche voi o chissà googlate pigramente.
Però vi rivelo quale fu il principio che mi condusse al traguardo: la verità è fatta anche di bugie.
A quest’indovinello ho ripensato oggi dopo che, in una chiacchiera oziosa, si evocava l’antico rito del gioco della verità. Che, se ci pensate, è il gioco più fuorviante che esista giacché pretende di inserire in un ambito ludico il concetto meno ludico che esista. C’è una meravigliosa serie tv di qualche anno fa, Big Little Lies, che mette le mani a forza (e con immensa arte) nelle acque torbide delle verità illusorie e delle bugie salvifiche.
Il gioco della verità anche quando non è un gioco e quando si trasforma nel “ti dico tutto in faccia perché io sono così” diventa il più grande alibi per la peggiore delle ipocrisie. Quella in cui credi di guardarti allo specchio dinanzi al quale hai piazzato la tua controfigura.

P.S.
A proposito di
Big Little Lies mi piace linkare qui la canzone che accompagna il finale (meraviglioso) della seconda e ultima stagione.

I nuovi arroganti e il fattore Van Halen

Nella dialettica quotidiana, che sia politica, che sia sociale, che sia lavorativa c’è un frangiflutti col quale devono avere a che fare le onde del cambiamento. Uno che arriva e dice “così non mi piace”. Che è l’irruzione del sentimento nella scienza, dell’egoismo nell’arte, della grettezza nella lungimiranza.
Cambiare e innovare sono attività complesse praticamente anarchiche. Non si impone un cambiamento, lo si accompagna, lo si sollecita, lo si stimola. Anche tra le quattro mura di casa, pensateci bene, quando uno dice “basta, da domani si fa come dico io” ha già firmato la sua sconfitta.

Negli anni ’80 fece scalpore un famoso contratto dei Van Halen in cui c’era una clausola, tra mille altre, che imponeva agli organizzatori dei loro concerti una ciotola di M&M’s da cui erano stati tolti tutti i confetti marroni: una cosa perentoria, della serie se ne becchiamo uno solo di quelli del colore sbagliato vi facciamo un culo così. Un decennio dopo nella sua biografia David Lee Roth spiegò, in modo a dir vero poco convincente, che data la complessità delle richieste tecniche della rock band a quei tempi la clausola serviva come cartina di tornasole per capire se gli organizzatori avevano davvero letto tutto il contratto.

La storiella serve per farci capire la fallacità delle soluzioni imposte senza un ragionamento. Che si ritorcono contro chi ci costruisce una legittimazione a prescindere. Per dire, coi Van Halen l’utilità degli M&M’s come test era facilmente aggirabile data la vistosità della richiesta: niente confetti marroni proprio per far finta di aver letto il contratto con attenzione. Insomma, alla fine il totem diventava un possibile rifugio sotto il quale nascondere la polvere ramazzata sul palcoscenico e i cavi non passati correttamente.

Il “così non mi piace” senza motivazione che non sia il proprio gusto ha molto a che fare con questa storiella. Perché ci dice che il nuovo – ogni tipo di nuovo – non si costruisce con i gusti di chi non ha gusto (altrimenti non direbbe “così non mi piace”, ma “hai provato così?”), bensì col rispetto delle competenze: del resto l’innovazione è la trovata di uno che se ne fotte e grida a tutti “io non so, ma credo che così possa davvero piacere!”.

Mi è capitato molte volte di trovarmi davanti a persone che usano il passato come alibi o, ancora peggio, come mezzo di ricatto: non conosco un nemico del nuovo in buona fede. Sono sempre fuggito e, per mia fortuna, mi sono sempre ritrovato su una scialuppa mentre la loro nave alla fine affondava: affondava sempre. Non ne ho mai gioito, però ho sviluppato una certa insofferenza verso chi usa il sentimento, cioè la parte meno attendibile di noi, per giudicare un lavoro, un decreto, un’opera, un parere. È il grande problema di oggi. Viviamo in un’epoca in cui tutti si sentono Van Halen e nessuno ne ha il talento. Quanta pietà (nostalgia?) per gli M&M’s marroni.

Rosalia e i suoi follower

Siamo un popolo che si ritiene salvo dalle conseguenze dei suoi misfatti solo compiendo un rito annuale: percorrere a piedi (senza manco un tempo stabilito) meno di quattro chilometri verso un santuario grossolanamente ignorato per 364 giorni all’anno, come la montagna su cui sorge.
Chiedere il massimo facendo il minimo è una comoda livella social: tutti insieme, politici, borghesi, poveracci, giovani, fedeli, scippatori, giornalisti svogliati, aspiranti influencer, candidati a qualcosa, vittime di qualcuno, scalzi, runner, biruote, soli, accompagnati, questuanti, insoddisfatti, giudici, condannati, felici per grazia ricevuta e infelici per grazia mal utilizzata.
Solo che Rosalia è una tipa strana. Io lo so perché sono il migliore/peggiore dei miracolati, cioè quello preso a caso nel mazzo degli indolenti che della religione ne aveva piene le scatole e che l’unico Padre Nostro che conosceva lo aveva imparato dai gesuiti che detestava. Lei mi ha preso e mi ha tirato fuori dal buio in cui ero già per metà. Così, dal nulla: lasciandomi nudo e imbarazzato nel mondo di fallaci certezze che mi ero costruito intorno a mo’ di fortino. È come il coma, il miracolo. Solo chi ci è passato ha una voglia di urlarlo al mondo pari all’incapacità di farlo.
Quello che so è che Rosalia è una solitaria, odia essere assillata. Per dire, l’hanno messa in una grotta e lei ci ha fatto piovere dentro, nel regno della siccità. È una che si è rotta i coglioni ante litteram e questo me l’ha resa simpatica.
Ora tutta questa folla di follower che scala il suo account ingrottato è sicuramente un bell’effetto sulla parete della montagna sfregiata dal fuoco dei malvagi. Ma per quanto ne so la grazia non si elemosina con meno di quattro chilometri all’anno. Non si guadagna sfumacchiando vista mare, col cellulare nella mano libera e la testa all’auto lasciata sulle striscie pedonali.
No, ti prende alle spalle quando meno te lo aspetti. E ti sussurra nell’orecchio: uuuh, sorpresa…
Come la morte. Ma con più ironia (almeno con Rosalia).

La pecora solitaria

Se c’è una cosa che lo stare soli per scelta ti aiuta a valorizzare, è la conoscenza delle cose. Non è che se vai in eremitaggio o ti chiudi in casa per un mese poi, alla fine, sei più colto. Però è probabile che sia più consapevole.
Vi faccio il mio esempio. Dopo un mese di Cammino portoghese, bellissimo e che consiglio, mi sono beccato per la prima volta il Covid. Da quattro giorni sono murato in casa e solo oggi sono in grado di scrivere due righe incatenate poiché sono stato con 38,8 fisso mattina e sera con rincoglionimento totale.
Quindi quest’estate ho sperimentato due tipi di solitudine, molto diversi tra loro eppure complementari: quello del Cammino tutto fatica e larghi orizzonti e quello del Covid tutto brividi da fermo e vista confinata. Senza il primo non avrei valorizzato il secondo, ve lo confesso.

Perché il Covid che mai avevo conosciuto – sono un iper vaccinato e iper anti-antivaccinisti, tifoso della medicina e nemico delle scemenze – mi ha fatto conoscere qualcosa di me e delle mie reazioni. Sono uno che vive da solo, quindi i momenti di malattia sono una bella prova: se non stai bene solo con te stesso quando sei in forze, figuriamoci appena hai un problema di salute. La febbre non era quella dell’influenza, parlo di sensazioni eh. Era come un motore di grossa cilindrata costretto e contenuto: si capiva che voleva rombare, ma qualcosa lo costringeva, lo soffocava. Era questo che non mi faceva dormire la notte: sentire questo rombo persistente, fisso, che non cala mai e che ti dice “se fosse per me esploderei”.
È lì che ho valorizzato la conoscenza dei vaccini. Non per quel virus dentro di me, ma per il sistema di contagio mondiale che è stato depotenziato grazie alle vaccinazioni. Insomma quel brutto motore dentro di me è domato grazie ai vaccini di tutti voi e se fosse stato per quegli imbecilli della dittatura sanitaria di ‘staminchia, quelli del microchip (che a loro un microchip servirebbe davvero, ma nel cervello), io magari a quest’ora sarei boccheggiante in un ospedale o chissà. Invece sono qui a scrivere, deboluccio, ma con la luce e l’umore giusti.

La conoscenza è anche saper mettere in fila le cose nel modo adeguato. Durante i miei cammini ad esempio ho imparato che i muscoli si allenano, quindi poi hanno meno bisogno di riposo, ma i tendini e le ossa sono quelli più a rischio, e che metterli a riposo è complicato (solo oggi, dopo quattro giorni di completa inattività i miei talloni e le mie caviglie tornano a darmi confidenza). Durante il Covid invece ho imparato che non si può usare una pubblicità di oltre un decennio fa di Dolce&Gabbana per stigmatizzare un crimine come lo stupro. È una stupidaggine anzi peggio è una scorciatoia dei social che rende chi la prende credulone: tipo uno che crede di raccontare una barzelletta nuova quando quella storiella la raccontava Gino Bramieri, 40 anni fa, meglio di lui ovviamente. La storia la scrivono gli storici, non l’utente456 di Facebook.
Non si può ignorare di ignorare.
Ecco perché un po’ di solitudine aiuta. Perché ti toglie l’alibi di condividere i passi che non sono tuoi, ti insegna a sperimentare sulla tua pelle, toglie potere ai polpastrelli e lo dà a sensi che normalmente usi poco, come l’olfatto (anche se durante il Covid…). Perché ti obbliga a smettere per una volta di essere pecora in un gregge di cui manco sai chi è il pastore.

Inquieti e infelicemente felici

C’è una cosa contro cui combatto ogni giorno che il Signore manda in terra. E cioè l’assioma che anche senza inquietudine si può fare romanzo: ergo che non è vero che belli tranquilli e sereni non si crea un tubo. Una verità anti-storica. Si vada a rileggere i grandi, a studiare le biografie di artisti, scienziati, filosofi eccetera. Dal comodo della nostra scrivania, con coniugi e conti in banca sorridenti, senza alcol, piccoli vizi, riti trasversali o additivi emozionali (come i sentimenti), in linea col politicamente sterilizzato nessuno potrà mai partorire un’idea degna di attenzione al di sopra della cintola dei social.
Ok, tutto normale sin qui.

Il problema è quando – ed è fenomeno abbastanza recente – tutta la narrazione* che parte dalla cronaca e che inesorabilmente lambisce la storia (anche minima) risente di questo mood.
E allora nel mondo dell’informazione si programma in modo tranquillizzante, si racconta col più rassegnato dei cronisti, si ravana negli account Facebook dei protagonisti e delle comparse, si recluta il passante per farne il testimone ideale di qualcosa di eterno (di Zapruder ce n’è uno solo).

Il concetto fondamentale, drammaticamente dirimente, che non deve passare è che le cose belle si fanno sempre canticchiando, che la creatività sia una autostrada tipo la Palermo-Catania, gratuita e senza responsabilità.
Non è così.
Anzi: non – è – così!
I romanzi, veri e metaforici (ognuno di noi ha il suo anche se non è di carta e di parole), sono atti di coscienza. Sono prese di responsabilità in cui uno si alza e dinanzi a una folla distratta ha l’ardire di battere un pugno sul tavolo e gridare: volete ascoltare una storia che non è vostra ma che potrebbe esserlo?
E se sarà fortunato – se lo sarà – qualcuno metterà da parte il telefono, chiederà un altro bicchiere di vino, si metterà comodo, magari abbraccerà la persona che gli sta a fianco. E dirà: dai, racconta.
E sarà un giorno per cui quelli come me, come noi, saranno felici di essere quello che sono. Inquieti e felici. 

*narrazione è parola irritante lo so, ma in questo caso non me ne viene una migliore.      

Quarantadue ghiaccioli

Caldas de Reis – Padron
Padron – Santiago

Ogni volta che concludo un viaggio avventuroso, che per me significa faticoso, mi ritrovo sempre più ricco di una cosa che viene sottovalutata e che si chiama fatalismo. Mi dico, anche stavolta è andata, nonostante la mia pericolosa (al limite del patologico) tendenza ad alzare l’asticella quando, come età anagrafica impone, dovrei invece ipotizzare una strategia opposta. Poi mi chiedo: fin quando potrò dar sfogo alla mia curiosità in questo modo non troppo ordinario? E lì entra in campo il fatalismo, forte anzi rinvigorito: il migliore modo di rispondere a certe domande è non porsele. 

Questo Cammino Portoghese, ancora più degli altri, non è stato solo un affare muscolare. Anche se senza allenamento 700 chilometri con 11 chili in spalla (acqua esclusa) ti portano a Santiago solo se fai il giro largo da Lourdes ed esce il tuo nome nella lotteria dei miracolati. Un coach parlerebbe di motivazione, io molto più semplicemente tiro in ballo l’atto più egoistico che dovremmo imparare a considerare senza timidezza, la determinazione. E non si tratta banalmente di voglia di vincere: qui non si vince un cazzo e anzi gli amici ti prendono affettuosamente per il culo dai loro ritiri vacanzieri umanamente normali, indecisi se trattarti da squilibrato o inserirti come pastorello ramingo in un quadretto naif.
La determinazione non è che funziona solo nei massimi sistemi cinematografici dove c’è quello\a che ce la fa nonostante tutto, e più il nonostante tutto è poderoso, più l’effetto sorpresa funziona. Nossignori, c’è una determinazione ordinaria che sta nelle piccole anzi minuscole cose e che si annida in preziosi angoli di resistenza.
Ad esempio sto scrivendo da un mese su una tastiera collegata al mio iPad mini che sovverte i canoni di una tastiera normale (nella posizione delle lettere, nell’uso di tasti funzione, nella dimensione e dinamica dei tasti). Per chi scrive per mestiere è come cambiare il martello a un fabbro, i fornelli a un cuoco, l’auto a un pilota. La pazienza non basta, serve determinazione. Ma questo è niente.

In queste ventotto tappe ho dormito (tranne che a Porto) ogni sera in un posto diverso. Mi sono trovato in alberghi affollati e in pensioni sperdute, ho dormito in antiche dimore nobiliari e in residenze per anziani dove ero il più giovane della compagnia, ho cenato in resort e in bettole, ho combattuto con gli scarafaggi in stanza e ho dormito in letti inutilmente grandi, ho bevuto grandi vini e per evitarne di pessimi mi sono strafatto di Coca Zero. 
Ho succhiato 42 gelati “Solero” (quasi uno e mezzo al giorno) e non mi chiedete perché. Io che detesto i gelati ho trovato la mia convergenza perfetta tra caldo, stanchezza e cazzi miei in questa specie di ghiacciolo dal gusto esotico indefinito: quando il cammino si faceva pesante e mi trovavo a corto di energie, al primo bar o emporio a tiro mi facevo un “Solero” (1,60 euro di succoso colorante). Ho svuotato e riempito lo zaino ogni sera e ogni mattina, come se sgranassi un rosario, cercando di smarrire solo il superfluo: alla fine ho perso solo un pezzo di sapone di Marsiglia e non ci ho dormito una notte come se fosse un’esclusiva del supermercato sotto casa mia. Un’altra volta ho dimenticato il portafoglio nell’unico taxi che ho preso e l’ho ritrovato senza che il conducente se ne fosse accorto.  
Nelle pieghe del mio corpo ho assorbito tanta di quella vaselina che per i prossimi mesi dovrò cenare con le cinture di sicurezza per non scivolare dalla sedia. Ho lavato magliette, calze, pantaloncini, mutande ogni santo giorno (per la precisione ogni santo pomeriggio) con la diffidenza di uno che, da single, a casa fa tutto-proprio-tutto ma che guarda la lavatrice come Salvini un senegalese: calze e mutande (tre e tre) pur essendo uguali ormai li riconosco e li chiamo per nome come una mamma coi suoi gemelli. Ho attuato un temerario e a volte complicatissimo piano di ricariche di aggeggi tecnologici (iPad, smartphone, iPods, orologio, tastiera, eccetera) in stanze che a stento avevano una lampadina e un interruttore. 
Ho cercato di rispondere a tutti i messaggi arretrati (al netto delle rotture di coglioni). Ho aggiornato quasi quotidianamente questo blog che ha fatto il suo discreto numero di lettori (grazie grazie!). Ho raccolto idee creative per l’anno che verrà e che sarà cruciale professionalmente. Ho resistito al contagio – nei rari momenti di connessione con la mia realtà – dalle miserie umane e fastidiosi affini. Ho tenuto pochi contatti costanti, ma buoni. Ho rivalutato i rami secchi che hanno un’utilità quando muoiono definitivamente, bruciando.

Ma soprattutto ho imparato che c’è un’importante eccezione per noi dilettanti della determinazione che tendiamo a impegnarci in tutto, anche in ciò che ci fa male. Dobbiamo imparare a lasciar correre: è inutile far bene qualcosa che non ci piace. Lì non servono né pazienza né determinazione: serve fermarsi, scegliere una destinazione e andare. 
Perché? Perché il miglior modo per rispondere a certe domande è non porsele. O al limite metterle in fondo a uno zaino e sperare di seminarle per strada, come un pezzo di sapone di Marsiglia.

P.S.
Per coincidenza arrivo (e torno) a Santiago nello stesso giorno in cui esattamente nel 2019 concludevo il Cammino del Nord. Quattro anni che sono un’era geologica con tutto quello che c’è stato nel mezzo. A chilometri esauriti mi piace pensare che le avversità siano un doping nella determinazione. Ma magari ne riparliamo più avanti quando acido lattico e vaselina saranno smaltiti…

25 – fine

Le precedenti puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Fantascienza

Pontevedra – Caldas de Reis

Cominciamo dalla foto di questo post. È la tovaglietta di carta di una trattoria in cui ceno stasera. Sono a Caldas de Reis, in Galizia, a meno di quaranta chilometri da Santiago. La tovaglietta racconta i Cammini Compostelani e senza mezzi termini ci tramanda che il turismo è una cosa seria. Lo scorso anno vi avevo raccontato della mia esperienza sulla via Francigena e avevo dichiarato chiuso ogni rapporto coi cammini italiani. Troppa sciatteria, troppa disorganizzazione, troppi rischi (un paio di volte ho avuto paura di finire arrotato). La tovaglietta non è nulla di che, persino in Italia se ne trovano sui tavolini di bar e ristoranti. Ma questa è diversa. È un’idea territoriale, il puzzle completo di cui poi scegli le tessere. Ve l’immaginate nelle nostre lande la sfilza di fisime snervanti dietro un simile pezzo di carta: e chi la disegna? E perché lui? E chi la stampa? E chi la paga? E il mio logo? E perché quello è scritto più grande?

Io non lo so come fanno qui, solo solo che in molte località turistiche siciliane non riescono a mettersi d’accordo manco per le cartine geografiche 20 centimetri per 20. Quando arrivai al Teatro Massimo come direttore della Comunicazione e del Marketing, un po’ di tempo fa, ci misi un anno per fare arrivare regolarmente manifesti e brochure della Stagione ai centri di informazione turistica pubblica. E anche lì domande: e chi li porta? E chi li espone? E chi li appende? 
Lasciamo perdere.
Torniamo ai Cammini e al loro valore economico (che spagnoli e portoghesi hanno ben chiaro). La via Francigena in tal senso, se solo un giornale decidesse di fare un’inchiesta, è uno scandalo tutto italiano. Ma in tal senso io già dato. 
Invece vi dico cosa ho visto in questi giorni in Galizia. È chiaro che mi trovo nella zona calda del Cammino, più ci si avvicina a Santiago più cresce l’afflusso di pellegrini. I pellegrini sono gente strana, non a caso sto in disparte (non ho bisogno di importare stranezze altrui): dormono in mandria per pochi euro a notte, usano bagni e docce comuni, deglutiscono cibi da menù fisso, vanno a letto presto. Insomma spendono poco. È chiaro che c’è un che di intensivo in questa modalità di sfruttamento turistico. Però è l’offerta che mi colpisce. In città come Pontevedra ci sono negozi di abbigliamento, pedicure, erboristerie, barbieri, ristoranti per pellegrini. Identificato il target, l’offerta si adegua senza puntare a strozzare il turista, perché altrimenti lo perdi per sempre e queste sono terre in cui si torna dato che il pellegrino è religiosamente reiterante: sgrana passi tipo rosario e il rosario non è che si butta quando finisce.
Immaginate quanto fantascientifica può apparire una serata d’agosto chessò a Mondello, dove solo lo slalom tra posteggiatori abusivi e questuanti di vario genere è una roulette russa.
E poi la viabilità. Il Cammino portoghese, così come il Cammino del Nord, è coccolato dalle comunità perché è comunque un flusso economico importantissimo e inesauribile: non teme crisi economiche, inquinamento, riscaldamento globale. Bar accoglienti con sedie e ombrelloni ovunque possibile. Passerelle e vie pedonali per centinaia e centinaia di chilometri, senza soluzione di continuità (tipo per quasi tutta la Senda Litoral). Semafori intelligenti tarati sui pedoni con le auto che si fermano a distanza e non sulle tue caviglie. Nelle zone “calde” pattuglie di polizia sui sentieri e sui rarissimi attraversamenti di strade ad alto traffico: quando un pedone arriva, l’agente lo prende in consegna e lo conduce all’approdo dall’altro lato della carreggiata. Ditemi se non vi sembra fantascienza. 

24 – continua

Tutte le altre puntate le trovate qui.