Siamo un popolo che si ritiene salvo dalle conseguenze dei suoi misfatti solo compiendo un rito annuale: percorrere a piedi (senza manco un tempo stabilito) meno di quattro chilometri verso un santuario grossolanamente ignorato per 364 giorni all’anno, come la montagna su cui sorge.
Chiedere il massimo facendo il minimo è una comoda livella social: tutti insieme, politici, borghesi, poveracci, giovani, fedeli, scippatori, giornalisti svogliati, aspiranti influencer, candidati a qualcosa, vittime di qualcuno, scalzi, runner, biruote, soli, accompagnati, questuanti, insoddisfatti, giudici, condannati, felici per grazia ricevuta e infelici per grazia mal utilizzata.
Solo che Rosalia è una tipa strana. Io lo so perché sono il migliore/peggiore dei miracolati, cioè quello preso a caso nel mazzo degli indolenti che della religione ne aveva piene le scatole e che l’unico Padre Nostro che conosceva lo aveva imparato dai gesuiti che detestava. Lei mi ha preso e mi ha tirato fuori dal buio in cui ero già per metà. Così, dal nulla: lasciandomi nudo e imbarazzato nel mondo di fallaci certezze che mi ero costruito intorno a mo’ di fortino. È come il coma, il miracolo. Solo chi ci è passato ha una voglia di urlarlo al mondo pari all’incapacità di farlo.
Quello che so è che Rosalia è una solitaria, odia essere assillata. Per dire, l’hanno messa in una grotta e lei ci ha fatto piovere dentro, nel regno della siccità. È una che si è rotta i coglioni ante litteram e questo me l’ha resa simpatica.
Ora tutta questa folla di follower che scala il suo account ingrottato è sicuramente un bell’effetto sulla parete della montagna sfregiata dal fuoco dei malvagi. Ma per quanto ne so la grazia non si elemosina con meno di quattro chilometri all’anno. Non si guadagna sfumacchiando vista mare, col cellulare nella mano libera e la testa all’auto lasciata sulle striscie pedonali.
No, ti prende alle spalle quando meno te lo aspetti. E ti sussurra nell’orecchio: uuuh, sorpresa…
Come la morte. Ma con più ironia (almeno con Rosalia).
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L’impossibile
Molte persone hanno la fortuna di avere un luogo del cuore, un posto in cui andare, o sognare di andare, quando si cerca un’evasione, un po’ di tranquillità, il senso di qualcosa o più semplicemente se stessi. Io sono superfortunato perché ne ho diversi, di posti così. Ma uno è primo al traguardo dei miei sogni realizzati. È Monte Pellegrino, la montagna di Palermo, mica una roba esotica. Ne ho parlato spesso qui e altrove sui giornali, alla radio, ovunque ci fosse spazio per raccontare qualcosa di me e delle mie fughe. L’ho frequentata sin da ragazzino, prima con lo skateboard, poi con la moto, e ancora con l’attrezzatura da arrampicata, con la bici e ovviamente a piedi con le scarpette da running. Una volta con un amico più pazzo di me ipotizzammo di buttarci con gli sci dalla pietraia di nord-ovest, in una adolescenza di istinti forsennati: ma forse questa storia ve l’ho già raccontata o comunque ve la racconto un’altra volta
Insomma io a Monte Pellegrino ci vado spesso: per correre, per respirare un po’ di cose mie (ci sono pensieri che si affrontano solo a pieni polmoni), per abbandonarmi a due ore di fatica e musica a palla nelle orecchie, per ringraziare. Stamattina mentre scendevo da quelle curve dove si apre una vista inaudita su Mondello (è un peccato che la strada sia chiusa al traffico per problemi di frane e robe varie) mi sono fermato in un tornante. Lì ci sono un guard-rail squarciato e un nastro rosso che avverte del pericolo. È il punto in cui nel giugno scorso un’auto con due ragazzi è uscita fuori strada precipitando in un vuoto che è impressionante al solo pensarci. Mi sono seduto, fermando quel benedetto Garmin che mi ricorda feroce e inflessibile l’impegno di rispettare un tempo nella corsa, e ho immaginato l’inferno in quel posto che per me è un paradiso. Com’è possibile che il mio luogo del cuore custodisca il mistero di una tragedia così grande? Esiste un’oggettività del dolore che si insinua nella terra di una montagna come nella carne di un essere vivente? Come può l’infinitamente bello sconfinare così facilmente nell’urlo muto della morte. Questo non è l’Himalaya o il Nanga Parbat che nella loro bellezza disperata racchiudono, come un cristallo di allucinogeno, il segreto sommo di un inizio che può essere fine. Questo è Monte Pellegrino, la montagna che guardo ogni mattina da casa con la tazzina del caffè in mano e lo smartphone a distanza di sicurezza. È il conforto dei ricordi e l’eccitazione di una corsa a perdifiato mentre il sole tramonta e la città, sotto, macina impegni che in quel momento non ti riguardano.
Com’è possibile che la morte di quei due quei ragazzi ora la traduco come un tradimento della mia montagna?
Non trovo risposta o forse non c’è.
So soltanto che al nostro posto del cuore chiediamo l’impossibile, perché se ci accontentassimo del possibile non saremmo lì.
Chi osa dare la colpa a Monte Pellegrino?
Un estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.
La montagna ce la mette tutta pur di fare il suo mestiere. Sovrasta, abbraccia, svetta, minaccia. Ogni tanto lascia cadere un masso, altre volte sutura da sola le sue ferite. La montagna odia essere ignorata dall’uomo e il suo mestiere è ricordarglielo.
Monte Pellegrino sta lì da prima che qualcuno di noi se ne accorgesse. Per molti palermitani è solo un enorme piedistallo per antenne e ripetitori televisivi, per altri è un aggrovigliato nastro di strada che non porta da nessuna parte, per altri ancora è un gruviera di grotte preistoriche e gallerie dell’amore clandestino. Sul dorso sconnesso del gigante che attentò alla lucidità del freddo Goethe c’è pure un santuario di cui gli abitanti di Palermo si ricordano solo quando hanno un debito di riconoscenza da saldare con la Santuzza o col suo Principale. E poi i pic-nic tra lecci e carrubi, con le sedie sdraio ben allineate sui rifiuti che ormai non sono più semplicemente abbandonati, ma stratificati. (…)
Ora ci si accorge che da Monte Pellegrino cadono le pietre, ignorando che per una montagna quasi in riva al mare non cedere sarebbe come non esistere. I massi da quelle pareti sono sempre caduti, lo sanno bene i cacciatori, i villeggianti che su quelle stesse pietre hanno eretto centinaia di villette, gli arrampicatori che lì negli ultimi decenni hanno mappato falesie note a tutto il mondo fuorché ai palermitani.
Quindi più che limitarsi a chiudere una strada, bisognerebbe aprirsi a una considerazione: il problema di una frana non è solo chi ci sta sotto. Ma soprattutto a che titolo.
Il mio aldilà
Non so se a voi capita mai di pensare a come sarà il vostro aldilà.
No, fermi: non cominciate a toccare ferro (o altro)! Non vi sto chiedendo di pensare alla morte, ma al “luogo” nel quale svernerete dopo aver lasciato la vita terrena.
Io ad esempio so dove andrò a finire.
E’ un posto che non è né inferno, né paradiso e nemmeno quella mezza cosa del purgatorio. E’ una montagna come Monte Pellegrino, che i palermitani conoscono bene (gli altri si possono documentare qua).
Una volta abbandonato il mio corpo, osserverò il mondo dai tornanti della strada che si arrampica sulle pendici del monte. Raccoglierò le cartacce che certe anime non proprio candide hanno lasciato dopo il picnic del fine settimana. Farò jogging in pineta la mattina presto e prenderò il sole su un prato incolto. Passando dalle gallerie farò finta di non vedere i diavolacci che dentro le loro auto parcheggiate s’intrattengono con le signorine diavolesse. Mangerò tutte le schifezze che voglio, tanto il corpo l’ho lasciato sottoterra. E la sera, su una sedia a sdraio e con un paio di Ceres accanto, mi godrò il cielo visto da vicino. Sperando che là sotto, nella città dei vivi, la gente si comporti meglio possibile: in vita ho sempre odiato la calca e il traffico, e nel mio aldilà non vorrei sovraffollamento.