Il Ponte

Dopo l’incidente sullo Stretto di Messina c’è chi invoca il Ponte come unico rimedio contro queste tragedie. E’ il sintomo di una dietrologia, tutta italica, che deve per forza impiegare cerotti usati su ferite sanguinanti. Il Ponte contro gli incidenti di navigazione e, perché no?, contro quelli aerei, ferroviari, condominiali, domestici. Il Ponte è quello che ci vuole! Sono d’accordo, a patto che sia quello che auspicava Bufalino negli anni Settanta: un ponte di libri.

Antimafia

Nei giorni scorsi è riemersa la polemica sui “professionisti dell’antimafia”. Sul Corriere della sera Tano Grasso ha ammesso che Leonardo Sciascia non aveva torto in quell’articolo del 1987. Lo stesso giorno su Repubblica un ex componente del coordinamento antimafia palermitano ha raccontato come e perché – proprio a seguito dell’articolo incriminato -si decise a bollare lo scrittore di Racalmuto come quaquaraquà.
Sono sempre stato d’accordo con quanto scrisse Sciascia in quell’editoriale. Senza temere di scalfire alcuna corona, lo scrittore rappresentò – dicendola tutta – una tendenza del tempo che poi sarebbe divenuta epidemia. Fondamentalmente c’era un eccesso di presenzialismo, di cerimonie, di parole ad effetto. Sciascia fece i nomi di Orlando e Borsellino, non certo per esporli o per ferirli: sacrificò qualcosa di se stesso (fare quei nomi allora significava mettersi più che in gioco) nel segno della chiarezza. Servivano due esempi, lui li fece: a torto o a ragione. Si poteva aprire un dibattito nell’antimafia, proprio perché lo scossone non arrivava da un nemico politico né da un nemico in genere. Invece si scelse lo scontro aperto, “il chi non è con noi è contro di noi”, il pintacudismo, il matrimonio con una certa giustizia militante, la trincea.
Erano anni difficili e molte di quelle persone rischiavano la pelle. Al dibattito si preferì l’attacco, confondendo spesso le parole con i macigni, i mafiosi con i dissenzienti, la fretta con l’urgenza. Sul fronte della cronaca andò malissimo. Cosa nostra tentò di riaffermare il suo ordine col tritolo e i proiettili e, per qualche anno, ci riuscì.
L’esperienza della stagione antimafia è una grande eredità, con tutti i suoi limiti ma anche con i suoi atti di eroismo. Ciò che indigna oggi è la sopravvivenza di una classe di medio-alto livello che ha navigato in tutti i mari, usando ogni genere di imbarcazione, infrangendo più di un codice, strigendo patti ora pirateschi ora pilateschi. E’ un ampia squadra di politici, imprenditori, giornalisti, magistrati, avvocati che facendosi scudo di Sciascia ha tratto spunto per azzannare il nemico e per imbastire affari trasversali. Raramente questi signori si sono esposti in prima persona, hanno sempre mandato a dire anziché dire. Sono geni del trasformismo, galleggianti umani, coscienze deboli, forti di idee che cambiano a seconda del vento. Non sono mafiosi, sono quelli che, vent’anni fa, erano i professionisti dell’anti-antimafia.

Amarcord

Parte come una discussione oziosa, arriva come un problema dei nostri tempi. Il tempo pazzo, il caldo d’inverno. I meteorologi, che pure sciorinano statistiche per non cadere in crisi d’astinenza, dicono che questo è l’inverno più incredibile da quando esistono rilevazioni attendibili. Nel mio piccolo, ricordo l’infanzia col cappotto e i maglioni a collo alto, la neve sulle montagne in questo periodo dell’anno, la pioggia che mi impediva di giocare a pallone per strada, le scarpe inzaccherate. Quando telefonava un parente da Milano, gli si chiedeva quasi gridando (effetto psicologico per annullare la distanza): che tempo fa da quelle parti?
Anche le pubblicità erano in linea con l’andamento meteorologico. Auto col “tigre nel motore” sgommanti in curve bagnate, amari serviti in biccheri scolpiti nel ghiaccio, famiglie raccolte intorno al camino. Oggi il miglior superalcolico è quello “servito nei peggiori bar di Cuba”, nelle stazioni di benzina si va per lasciarsi cullare (e addormentare) dal gestore, le famiglie pranzano all’aperto tutto l’anno.
La scomparsa delle mezze stagioni era solo un avvertimento. Le hanno rapite tutt’e quattro.

Ustica

Certe volte non arrivo subito al dunque. Ci metto del tempo, ore, giorni. Specialmente in questo periodo di febbre cavallina ho dei pensieri che restano incagliati in un angolo di cervello. Poi una lettura, una parola ascoltata, un semplice colpo di tosse e… vengono fuori.
Mi scuso quindi del ritardo col quale affronto, nelle consuete poche righe quotidiane, un argomento importante come la strage di Ustica. Sapete che la Cassazione ha chiuso definitivamente il procedimento penale senza colpevoli. Dobbiamo farcene una ragione, quel disastro aereo (81 morti di cui 13 bambini) non fu colpa di nessuno. Bomba o missile? Colpa dei francesi, degli italiani o degli americani? Zampino di servizi segreti e aiutino della P2? Macché, ricostruzioni da film! Quel DC9 era semplicemente stanco di volare anche se i suoi passeggeri non lo erano di vivere. I tracciati radar cancellati? E vabbé, ogni tanto bisogna pur fare un po’ di pulizia.
Ho seguito passo per passo questa vicenda per motivi personali e professionali. Non c’è mai stato un solo esponente politico capace di intestarsi una battaglia di verità. E non parliamo di risarcimenti. Ai parenti delle vittime e a quelli che tra noi si sono autoeletti amici-tifosi-sostenitori dei parenti delle vittime non interessa dei soldi. Di questa storia sappiamo praticamente tutto, com’è finita, com’è cominciata, conosciamo personaggi, comparse e registi. Ci vuole soltanto un parlamentare che trovi il coraggio di salire su un palco, con le carte in mano, per raccontarcela per filo e per segno.

L’erba del vicino

Di minuto in minuto le notizie che arrivano sulla strage di Erba danno un’idea sempre più incredibile di ciò che è accaduto. I vicini di casa hanno confessato. Quattro morti. Il bimbo sgozzato dalla donna. Gli altri massacrati dal marito.
Non credo che stavolta ci possano essere ammortizzatori mediatici. Vespa può ricostruire quanto vuole il delitto nel suo salotto. Qualche altro sanguinario dei canali televisivi specializzati scomoderà psichiatri ed esperti criminali. Io, e qualche altro con le scatole piene di questa dietrologia psico-catodica, vorremmo assistere a un programma fantasy sul tema “cosa fareste a questi schifosi assassini?”.
Solo questo ci interessa.

Elogio di un programma che non mi piacque

Stasera tornano in tv Cochi e Renato. A 34 anni dall’esordio de “Il poeta e il contadino”, quella che un tempo era nota come la “coppia del Derby” si ripresenta al pubblico televisivo. Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto sono il simbolo di un umorismo nordico e nonsense che ho poco apprezzato. Ricordo che da piccolo preferivo Franco e Ciccio, forse per questioni campanilistiche, forse per una maggiore propensione alla risata grassa. Eppure la coppia padana ha saputo conservare, nel suo spopolare come nel suo rarefarsi, nel suo perdersi come nel suo ricostituirsi, un garbo e uno stile d’altri tempi. “Il poeta e il contadino” era, per come lo ricordo, uno spettacolo noiosissimo eppure civile, elegante. Battute e allusioni non ne mancavano, ma tutto era avvolto in una confezione di gran dignità. Era la tv di Bernabei quella, dove i centimetri delle Kessler spostavano milioni di telespettatori. Era una tv dove c’era chi, come Cochi e Renato, faceva cantare all’Italia intera: “E la vita, la vita… la vita l’è bela. Basta avere l’ombrela…”
Una grande illusione. Ma elegante.

Avete letto qualcosa?

In rete spunta un altro filmatino di Saddam morto stecchito ed è di nuovo indignazione generale. Ci mancherebbe! L’indignazione e la protesta però sono voci di civiltà e come tali non possono risentire di doppiopesismo. La civiltà, intesa come insieme di conquiste materiali e culturali dell’intero genere umano, è una sola, da qualunque parte la si guardi, pesi, calpesti. Allora ai nostri cori di sdegno per l’omicidio e il successivo oltraggio del dittatore aggiungiamo una voce definitiva per ciò che da tempo accade in Cina. Questo Paese ammazza nel nome dello Stato ogni anno più persone che il resto del mondo. Sono 86 i reati punibili con la pena di morte, tra cui la contraffazione, l’evasione fiscale e lo spaccio di denaro falso.
Avete letto qualcosa in merito?
Quello della Cina è l’unico primato dinanzi al quale il presidente Bush deve arretrare anche se negli Stati Uniti l’eliminazione fisica dei condannati è prevista in 38 stati. A proposito, il New Jersey lo scorso anno aveva introdotto una moratoria sulle esecuzioni che doveva restare in vigore fino al gennaio 2007, cioè praticamente oggi.
Avete letto qualcosa in merito?

I cadaveri dell’Ariston

Parlare male del Festival di Sanremo è come criticare la manifestazione di Miss Italia o come maledire il governo mentre il cielo si rabbuia di nuvole: un luogo comune, uno sfogo umano, una scemenza. Parlarne bene però è difficile, eh.
La rosa dei big riesumata da Baudo e i suoi commilitoni non deve suscitare scandalo: la canzone italiana – quella vera, quella che gli italiani ascoltano a casa, in auto, alla radio o che scaricano col pc – è sempre rimasta ben distante dal teatro Ariston. Tranne rare eccezioni, il palco di Sanremo è servito negli anni ai seguenti scopi:
1) Riesumare cadaveri per dimostrare che la decomposizione si può combattere con un po’ di cerone e qualche applauso telecomandato.
2) Confezionare megacompilation, trainate da uno-due brani al massimo, per battere il record delle copie piratate.
3) Portare alla vittoria sconosciuti e far sì che restino tali per l’eternità: un caso per tutti, i Jalisse.
4) Offrire la possibilità alle più crudeli major discografiche di sfogare i propri istinti: sacrifici di ugole, scambi di ostaggi tra musicisti, ricatti e riscatti.
5) Manipolare il mercato italiano con una tecnica di ipnosi collettiva: Al Bano, Nada, Gianni e Marcella Bella… ripetete con me… Al Bano, Nada, Gianni…
6) Far ingrossare il fegato agli appassionati di canzonette.

Insomma anche quest’anno avremo di che parlare male per qualche sera, sbuffando davanti alla tv e ricordando improbabili edizioni del Festival in cui “la musica era musica”. Perché Sanremo è Sanremo.

Influenza

Fiaccato da un’influenza feroce, assisto allo scorrere di alcune immagini alla tv. Quando ho la febbre mi piace tenere il televisore acceso. E’ una questione di incoscienza, già oltre i 37 gradi mi sento (più) rimbecillito. La programmazione mattutina è quella che meglio si attaglia al mio status di malato esagerato: rubriche di cucina, di salute, di sport, di animali, tutte imbastite con una tecnica che le rende praticamente identiche. Se uno si distrae e riprende il collegamento dopo dieci minuti, non si perde niente perché non c’è un briciolo di diversità. Ieri sono passato da Giurato a Magalli attraverso Licia Colò senza distinguere un programma dall’altro. Insomma, ho mandato il cervello in vacanza. Come dimostrano queste righe.

Fantozzi e la scienza


Uno studio del professor Wayne Hochwarter dell’università della Florida ha accertato che, in un ufficio qualunque, è l’arroganza del capo la causa principale della fuga dei dipendenti vessati. Non so chi abbia finanziato questa bizzarra ricerca, ma ho qualche idea per le prossime inchieste. Come mai il netturbino pigro lascia le strade sporche? Perché le persone brutte, malate e povere sono in prevalenza più tristi di quelle ricche, belle e sane? Chi sono i genitori di Qui Quo Qua? E’ nata prima la frittata o il brodo di gallina?
Chiunque lavori in un’azienda che non sia quella del professor Hochwarter conosce i difetti che nella maggior parte dei casi affliggono chi ricopre un ruolo di comando. Nella mia esperienza non basterebbe un’enciclopedia multimediale per contenere la tabella introduttiva all’argomento. Dare un rigore scientifico all’arroganza del potente (spesso improvvisato tale) corrisponde a includere Fantozzi nel collegio dei docenti di un’università. Fossi Paolo Villaggio querelerei.