Professione complessista

Sto provando a star lontano dal dibattito social buoni/cattivi a proposito dell’attacco di Hamas a Israele. E non lo faccio per saggezza o per evitare di farmi il sangue marcio, ma semplicemente perché non ci può essere un dibattito su questo tema. Una strage all’arma bianca, un proposito di sterminio di un popolo solo perché è quel popolo, un attacco vigliacco e sanguinoso in cui l’obiettivo non sono militari o uomini armati ma bambini e neonati, tutto ciò non comprende il dilemma buoni/cattivi ma al contrario lo esclude categoricamente. Perché dinanzi alla violenza cieca, quella inenarrabile, quella che ci fa rabbrividire solo al pensiero, non esistono le categorie umane. Siamo nel disumano.
E non funziona neanche la narrazione “prima quelli hanno fatto questo e quest’altro”, né il distinguo “sono contro la violenza però”. Quando ci si trova dinanzi all’orrore non esistono sentimenti, geografie, biografie, analisi politiche, acrobazie religiose, espedienti giornalistici o pseudo tali che possano in qualche modo giustificarlo.
Molti talk show televisivi (ma anche molti giornali), figli delle pulsioni social che garantiscono audience, sono il luogo dell’esercizio libero di una disciplina che, dai negazionismi storici ai no-vax, dal terrapiattismo al giustificazionismo antico e recente (dalla Shoah a Gaza), costruisce piccoli fenomeni che dovrebbero essere da baraccone e che invece diventano da baraccopoli della verità.
La chiave che questi individui usano (non voglio fare nomi e cerco di rimanere sui concetti anziché sulle persone) per scardinare la serratura della credibilità è il cosiddetto complessismo. Che consiste nel mettere in mezzo uno spaventapasseri (tipo un ragionamento di parte che spacciano per assodato, diffuso, ovvio mentre è prevalentemente farina del loro sacco), sradicarlo con un colpo di teatro e poi prendere il volo, ritenendosi leggeri e liberi, al di sopra di noi pecoroni semplicisti.

Il complessismo problematizza, contestualizza, relativizza, riduce e ingrandisce, sovrappone e isola, per fabbricare la nuvola di fumo più grande e densa possibile. Anche e soprattutto quando la vicenda è semplice, il complessista si nutre di retorica e usa frasi che possono essere fraintese. Solo in tal modo può sfruttare al meglio la seconda sua caratteristica, il vittimismo.
Il complessista brama per essere insultato, si siede sulla poltroncina del dibattito con la speranza che gli si tiri un uovo addosso, arriva in uno studio tv pregando di poterlo abbandonare indignato. Perché punta a una sola cosa: non dover mai essere costretto ad argomentare logicamente la catena di minchiate sulla quale costruisce la sua vita pubblica.
Se scoprisse interiormente di avere ragione forse si suiciderebbe. Ma accanto al corpo farebbe in modo di lasciare uno spaventapasseri.  

La violenza è l’arma dei perdenti

Cerco di dirlo in maniera semplice. Provo dolore solo a immaginare bambini sgozzati, donne violentate, anziani usati come ostaggi, esseri umani oltraggiati in vita e in morte. Non c’è un “ma” o un “però” che si deve frapporre tra un errore e il suo rimedio, tra un’accusa e la sua replica. Dinanzi a fatti acclarati c’è un on e un off.

Il mondo ideale di chi fugge da quello reale – che è orribile – non è fatto da chi passa la giornata a cantare messa, a inanellare distinguo o peggio a contrapporre culture, ma molto più prosaicamente da chi scansa il prete e decide di cambiare registro, da chi ragiona dopo aver ragionato. Nella politica, nel barlume di società civile, in quel che resta dei giornali (e qui via alla fuga forsennata dei like dei miei colleghi), nell’arte (idem, come sopra), serve un giro di boa che rasenti la modestia di un ragionamento semplice. I cattivi in fondo fanno il loro mestiere. Sono gli altri che fanno la differenza, che devono spiazzare, ammazzando l’unica cosa che va sterminata in tutti i campi di combattimento: il pregiudizio. Scovando il passo falso che si tende a nascondere. Non lasciandosi ingannare dalle versioni precostiuite. Abbattendo i muri dell’ideologia da slogan.

La violenza è l’ultima arma dei perdenti e degli incompetenti. Lo insegnano la storia, l’arte, il buon senso e molte altre good vibrations che non abbiamo il tempo di dipanare.
Però prima di sventolare bandiere o di aver timore di farlo, parliamone se abbiamo il coraggio