Fino a qualche tempo fa

L'illustrazione è di Gianni Allegra
L'illustrazione è di Gianni Allegra

L’attimino fuggente

di Giacomo Cacciatore

Fino a qualche tempo fa  non nutrivo un’eccessiva simpatia per Michele Santoro. Lo trovavo  istrionicamente fazioso.
Fino a qualche tempo fa non nutrivo un’entusiasmante simpatia per il quotidiano “la Repubblica”. Pur avendo a lungo collaborato con l’edizione palermitana dello stesso giornale (o forse proprio per questo), lo trovavo snobisticamente fazioso.
Fino a qualche tempo fa giuravo a me stesso che non sarei mai stato fazioso. Mi sembrava un atteggiamento da ragazzino dei centri sociali (luogo che ho spesso frequentato), legato a slogan facili e digiuno di senso critico indipendente.
Fino a qualche tempo fa non avrei mai creduto che essere faziosi potesse diventare, nel nostro paese, qualcosa di più che una posa, ovvero un’esigenza, un’urgenza, una necessità.
Fino a qualche tempo fa, non avrei mai sognato, nemmeno nei miei incubi peggiori, di sentire la voce critica del mio paese ridotta a pochi solisti testardi (e, visti i tempi, coraggiosi o incoscienti). Tra questi un giornalista televisivo, un giornalista-saggista, un vignettista satirico e una sola, agguerrita testata di giornale.
Da qualche tempo sono fazioso, ricompro “la Repubblica” e non mi perdo una puntata di Annozero.

Grande, grandissimo fratello

Poche parole
di Raffaella Catalano

Apprendo che probabilmente la Endemol deciderà di recludere in casa i partecipanti al “Grande Fratello” per cinque mesi anziché per i soliti cento giorni.
Mi chiedo quale sarà il prossimo passo. Abolire la legge Basaglia e farne un manicomio permanente?

Assicurazioni

rifiuti Palermo

Poche parole

di Raffaella Catalano

Il sottosegretario all’emergenza rifiuti Guido Bertolaso giungerà oggi a Palermo, dove presiederà in Prefettura un vertice con tutte le istituzioni interessate. Lo stesso Bertolaso ha dato assicurazione della sua presenza al sindaco di Palermo, Diego Cammarata.
Staremo a vedere se il sindaco di Palermo darà assicurazione della sua presenza a Bertolaso…

Sobrietà

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Poche parole

di Raffaella Catalano

Il correttore ortografico di Word è sobrio. Anzi astemio.
Non contempla molte voci del verbo “bere”. Provate, per esempio, a scrivere “beviamo”, “bevete”. Li segna come errori rossi.
E non gli piace nemmeno il caffè. Soprattutto non lo ama corretto (anche se in questo caso la grappa non c’entra). Tant’è che propone di scriverlo – sbagliando – con l’accento acuto.
E’ grave. Sì, quell’accento su “caffè”. Ma anche e soprattutto il fatto che un correttore funzioni così, in un programma che costa quanto costa.

Papi tutti

L'illustrazione è di Gianni Allegra
L'illustrazione è di Gianni Allegra
L’attimino fuggente

di Giacomo Cacciatore

Non avrei voluto scrivere di Berlusconi e Noemi allegate. Se ne discute già tanto (non dico troppo, questo no: la faccenda promette di essere un vaso di Pandora non ancora del tutto rotto), lo fa chiunque, e chi non lo fa se ne sente in dovere. L’impulso a sfiorare la questione mi è dato dalla lettura di un saggio piacevole (e a mio parere illuminante) che si intitola “Dancing Days. 1978-1979. I due anni che hanno cambiato l’Italia”. L’autore, il giornalista e docente Paolo Morando, tocca un nervo della recente (ma sembrano passati secoli) storia italiana che ho sempre considerato scoperto ancorché sottovalutato. 1977. Fine dei movimenti. Probabilmente, fine dell’impegno politico su larga scala. Ferite fresche: la rivoluzione delle P38. Ferite in fieri: la lunga mano della P2. La gente non vuole più rientrare presto la sera sotto un cielo di piombo. Voglia di innamorarsi. Voglia di “individuale”. Allontanamento dalle pubbliche virtù e ripiegamento su umanissimi vizi privati. Ad accontentare gli italiani arrivano le lettere di passioni tormentate sulla prima pagina del Corriere della Sera (un fatto inaudito per via Solferino) e John Travolta. La parola che riassume il tutto: riflusso. Resta da stabilire se preteso o indotto. Soglie degli anni ottanta. L’era di che cosa e di chi lo sappiamo tutti: da allora abbiamo spento pochissimo la televisione. Ma per farvi un’idea, leggete il libro. Io mi limito a un breve cappello sulle parole del sociologo Sergio Fabbrini. Che offre a Morando un concetto sul quale riflettere: “Il populismo esprime il sentimento di una piccola borghesia insoddisfatta (…) che ha delle ambizioni sproporzionate rispetto ai talenti di cui dispone. Non c’è distinzione tra governanti e governati. L’élite si comporta come il popolo e viceversa. Tutti sono indistintamente allenatori della Nazionale. Nessuno dirige o decide e nessuno rende conto per ciò che ha fatto o non ha fatto”. E Morando gli fa eco: “Ecco perché l’Italia si innamora regolarmente di eroi piccolo-borghesi, come Mussolini o Berlusconi. Priva di una cultura moderna, l’Italia non sa distinguere tra pubblico e privato. I due coincidono, si sovrappongono. E allora che senso ha parlare di conflitto d’interesse?”.
Se il discorso è chiaro a noi, non penso che sia mai stato oscuro per Silvio Berlusconi e chi lo appoggia. Pubblico e privato: una biforcazione che si unisce in un sentiero verso il culto della personalità. Forse la chiave del successo del Cavaliere nella sua versione politica. Onori e oneri, però. Presidente operaio e Noemi. Quirinale ma anche Casoria. Famiglia modello con sfondo di caminetto e Veronica-Clitennestra. Una volta tracciato il sentiero non è più possibile invocare la biforcazione. Non a convenienza, almeno. Assisteremmo a un ennesimo, sconvolgente miracolo italiano.

Mondello

mondelloStorie minime
di Roberto Puglisi

Il mare di Mondello lascia sulla spiaggia una scia di conchiglie che sembra neve. Sono bianche e intatte. Ne abbiamo raccolte due e ce le siamo scambiate come una promessa, in un vincolo di sguardi. E’ il nostro “per sempre” marino. Poi abbiamo camminato, fino a inzaccherarci il cuore di sabbia. E più si inzaccherava, più diventava lieve a dispetto di tutte le regole che gli uomini hanno inventato per definire peso e leggerezza.
Dalla sabbia di Mondello, ti viene voglia di spiccare il volo. Le ali dei piccioni  sembrano braccia distese di cigni, lassù. Sono gli scherzi del tramonto. Abbiamo visto uomini di sabbia e donne di alga entrare in una libreria. Ho comprato il libro di un poeta. Si chiama Umberto Fiori e cantava per gli Stormy Six. Ha scritto: “A volte invece, quando rivedo tutto stare in te come deve,  quando ripenso la tua pace e guardo questa conca di acqua e sale macerarsi alla  luce di un sole nero io mi dispero, mi sporgo sopra ogni muro per ritrovarti”.
Ma io so già come evitare futuri smarrimenti. So già come ritrovarti. Ho una  conchiglia bianca nella tasca sinistra della giacca. Dalla parte delle ali.

Cavolo a merenda (o a Sanremo?)

pfm

L’attimino fuggente

di Giacomo Cacciatore

Nessuno potrà negare che una regola di vita del bravo cerimoniere, organizzatore di serate in compagnia o di menù da cena in piedi, sia innanzitutto il buonsenso negli accoppiamenti. Chi si impegna a creare una situazione conviviale valuterà, prima ancora del tono che intende dare alla serata, la prevalenza del “materiale” umano e mangereccio che ha a disposizione. Sarà tale prevalenza a definire lo spirito dell’evento. Chiamando in soccorso una punta di snobismo necessario (che confina con la ragionevolezza e le migliori intenzioni), sceglierà dunque di riunire vecchi compagni di scuola dalla battuta grassa con nuovi amici capaci di reggere botta. Chi ha una scorta di caviale varierà il menù con un’aggiunta di ostriche, mentre chi si ritrova con pane e olive si butterà sulla bruschetta e il vino corposo. Certo, nulla impedisce di mettere alla stessa tavola fois gras e broccoli, preti e mignotte, ma solo se si ha in animo di vivacizzare la riunione. Il contrasto dovrebbe essere supportato dalla consapevolezza dell’effetto che si vuole ottenere: altrimenti fa rima con disastro, e – parlando del cerimoniere – con impiastro. Il contrasto voluto e ricercato può essere una forma d’arte. Quello che ci sfugge di mano, invece, porta a un pessimo risultato: stridore, imbarazzo generale. Le affinità elettive in minoranza sprofonderanno nella costernazione. Quelle in maggioranza si chiuderanno a riccio. E l’ospitalità offerta dal padrone di casa sarà a dir poco ricordata  come goffa. Inopportuna. E’ la sensazione che ho provato ieri sera quando sul palco di Sanremo sono saliti i musicisti della Pfm a rimescolare le carte ammuffite della “kermesse” canora. Un piatto di caviale tra vassoi di ceci bolliti e bucce di fave, accolto da un applauso in piedi, che mi è sembrato quasi liberatorio, speranzoso, persino rabbioso, e che per un istante ha denudato il festival di Sanremo mostrandone lo stato di salute, l’assoluta ignoranza delle proprie condizioni. La storia di un minuto ha fatto sfigurare ore, anni di brutto spettacolo.  Un pugno di musicisti ha annichilito un’accozzaglia di ugole allo sbando. I cerimonieri l’hanno scambiato per un trionfo. Si sbagliano. E’ stata una zappata sui piedi.

Biglietti a turno, signori

L’attimino fuggente

di Giacomo Cacciatore

Avevo già saputo da qualcuno tutta la faccenda, ma non ci volevo credere. Ieri ho visto e toccato con mano. La nuova attività degli abusivi palermitani è fare il turno alle poste. “Fare” non nel senso ampio del termine (leggasi: attendere, mettersi a, procedere nel turno). Ma farlo, crearlo. E cederlo. Mi spiego meglio. Se vi capiterà di andare in un qualsiasi ufficio postale in questi giorni, dopo un blitz contro i posteggiatori abusivi, scoprirete un’anomalia nei numeri del turno elettronico. Preso dal distributore il vostro biglietto che segna, che so, il numero 525, volgendo lo sguardo attorno a voi vi capiterà di constatare il seguente paradosso: solo due, tre, o al massimo una decina di utenti in attesa allo sportello. Un’occhiata al display che regola la coda, e la sorpresa, lo sconcerto, lo smarrimento aumentano: il numero luminoso sarà un 200, 225 al massimo. Ricapitolando: il biglietto che avete in mano dice 525, il display indica 200, ma in sala c’è un numero di persone che non giustifica questo buco nella fila numerica, nemmeno se ci fosse stata una migrazione di massa di utenti verso il bar più vicino. Che è accaduto? E’ entrato Silvan? David Copperfield?
Niente di tutto questo. Uscendo dalle poste, smarriti, noterete di sicuro un omuncolo che vi saluta sommessamente, con un malloppo cartaceo sospetto raccolto in una mano. Guardando meglio, saprete che si tratta di un mucchio di biglietti del turno automatico. Quest’uomo provvede a raccogliergli di buonora, per poi piazzarsi davanti alle poste e distribuirli agli ultimi arrivati. Il numero del turno è a scelta. Un benefattore? No. E’ accertato che, per avere un piazzamento vantaggioso nella fila che non ti sei curato di fare, si va dall’uno ai due euro di obolo. Arrivi bello fresco, compri il numero che ti fa sbrigare prima e sei allo sportello. Ovviamente quelli che come me e voi cercheranno di fare un turno regolare, dovranno sopportare la perdita di tempo dell’impiegato che chiama una quantità imprevedibile di numeri a vuoto, per vedersi poi sopravanzare da un furbo che è giunto all’ultimo momento con la sua monetina da un euro o due. Senza contare che tutti i tempi di previsione per l’attesa ne risultano falsati. Pare che sia una specie di epidemia: nessun ufficio postale esente. Si può anche ridere dell’arte di arrangiarsi. Noi ci riusciamo benissimo. Sempre. Troppo.

Cercasi Obama

La vignetta è di Gianni Allegra
La vignetta è di Gianni Allegra
L’attimino fuggente

di Giacomo Cacciatore

Dario Fo, invitato a dire la sua sulla recente e attuale situazione italiana (ovvero sui massimi sistemi), su come sono gli altri e come dovremmo essere noi, dichiara sul Corriere online: “A poche ore dall’investitura, Obama ha già messo a segno precise direttive: promozione di energie alternative, apertura al mondo musulmano, salvaguardia dei diritti umani. Pagherei per vedere arrivare uno come lui. Ma meglio di no. Litigiosi e autodistruttivi come siamo saremmo in grado di affondarlo”. Non ho mai considerato oro colato le parole e gli spettacoli di Fo (se a un uomo di teatro italiano doveva andare il premio Nobel, io lo avrei consegnato, postumo, a Eduardo De Filippo) ma lo ringrazio per il mistero buffo che mi ha scatenato nella testa stamattina.
Premessa: originali come siamo diventati, prima o poi anche noi vorremo il nostro Obama. Ossia l’uomo della sterzata. Il puro, il dinamico, il colto, l’elegante, il sensato. Il presidente con le palle, insomma. Diamo per scontato che non sarà Veltroni: ci ha provato, vorrebbe tanto, ma è ormai chiaro pure ai sassi che sarebbe solo una pallida (mi si passi la berlusconata) versione del neo presidente americano. Diamo per scontato (ma senza troppe certezze) che non sarà Berlusconi: il suo narcisismo gli può anche consentire di camminare sulle acque, ma di trasformarsi in afroitaliano colto e impeccabile, questo mai. C’è un limite anche ai miracoli italiani. Diamo per superscontato (me lo auguro) che non sarà la Brambilla  e, ovviamente, neppure la Carfagna (insomma, l’ala “giovane”, in verità vecchissima, del vivaio liberista del presidente operaio).
Chi ci resta? Da dove cavare l’eventuale e presto agognato Obama tricolore? Ci si spingerà al referendum, con tanto di schede facebook consegnate dallo scrutatore, insieme alla matita indelebile? Si richiederà la consulenza di Santoro? Di Lucherini e Spinola? Metteremo al lavoro la segreteria di “Chi l’ha visto”? Congetture a parte, e tanto per giocare: vi chiedo di fare i nomi. Di ipotizzare il vostro/nostro possibile Barack Obama. Io non ne ho idea, ahimé. Spero solo che, con tutta la simpatia del mondo, non salti fuori Vladimir Luxuria.

Saggia apostrofe a tutti i caccianti

Illustrazione di Gianni Allegra
Illustrazione di Gianni Allegra
Storie minime

di Roberto Puglisi

“Fermi! Tanto non farete mai centro.
La Bestia che cercate voi,
voi ci siete dentro”.

Giorgio Caproni

Una giovane modella è stata divorata da un organismo nemico. Le hanno amputato piedi e mani. La morte è arrivata dopo l’assalto al castello. Parabola ghiotta e morale del nostro essere infinitesimali e finibili, tra le braccia di una sorte imperscrutabile. Io conosco un’altra storia un po’ così. Solo che alla fine nessuno muore, o chissà.
Lui si chiamava Enzo e suonava il pianoforte da Dio allo Zen. Un Dio misericordioso si accorse di quel talento fiorito tra i padiglioni e si fece vivo nella persona di un munifico mecenate che volle sostenere gli studi musicali di Enzo, pagandogli il conservatorio. Il metronomo cominciò a segnare tempi diversi, giornate finalmente accordate. Lo spartito cancellò la sinfonia dello spaccio e la sostituì col quartetto di un’ignota felicità.
C’è sempre una stonatura, un organismo nemico che riporta la gioia alla sua evidenza di cenere mortale. Enzo si stancò delle dita abbandonate sulla strada dei tasti. Tornò alla droga, tornò in carcere. Lasciò il piano in cantina. Sarebbe facile dire che lo lasciò nel buio con tutti i suoi sogni. Chissà se fu davvero mai così. Ora, Enzo – così mi dicono – è uno che si sta facendo avanti allo Zen, un grosso nome. Non ha rimpianti apparenti. Forse è il nostro romanticismo inguaribile che ci spinge a condire tutto con la nostalgia. Sei sempre tu ciò che ti mangia.