Una tv da leggere

Ho visto “Vieni via con me” e mi è sembrata una bella trasmissione, ben scritta. Forse troppo. Nel senso che si capisce che è una trasmissione scritta, quindi da leggere più che da vedere.
Però la bontà del prodotto sta nell’accoppiamento tra il rigore ingessato di Roberto Saviano e l’arte debordante di Roberto Benigni, tra la solennità imbarazzata di Claudio Abbado e la felice tempistica di Fabio Fazio.
In tempi di vacche magre, anzi di vacche e basta, per una tv di raccomandati, di urlatori, di opinionisti improvvisati e di talenti in esilio, un programma in  cui ci sono artisti in grado di svolgere il loro mestiere in modo canonico è un evento da festeggiare.
Viva!

Servizietto pubblico

Un tempo i grandi temi della cronaca erano esaminati e raccontati in tv da signori giornalisti come Sergio Zavoli o Enzo Biagi. Oggi i grandi temi della cronaca sono trattati da intellettuali raffinati come Mara Venier, Barbara D’Urso e Massimo Giletti. Ogni pomeriggio, specialmente la domenica, questi signori raccontano i capitoli della storia del Paese porgendo domande da divanetto a ospiti adeguati per indecenza televisiva e ignoranza. Uno come Sgarbi, in questi consessi, svetta per civiltà e garbo. Infatti di mestiere fa l’ospite fisso.
C’è una crescente confusione tra servizio e servizietto pubblico. Sarà l’aria che tira.

Lo show del peggio

Ho un’avversione ideologica nei confronti dei reality show. Ritengo che gran parte dello schifo nel quale annegano i nostri costumi e la nostra curiosità sia l’effetto del dilagare di questi programmi.
Il Grande Fratello di quest’anno è, secondo Aldo Grasso, ancora più volgare e trash di quello precedente. Non ne ho mai visto una puntata, quindi ci credo a scatola chiusa.
Il problema, secondo me, sta proprio nel concetto di reality show.
C’è una categoria di persone, alla quale mi iscrivo, secondo la quale la realtà può essere raccontata, fotografata, ignorata, presa in prestito o dimenticata. Lo spettacolo delle peggiori vite qualunque ci può anche stare a patto che serva a qualcosa: a imparare, a distinguersi, a confrontarsi, a piangere o a ridere cinicamente. L’unica cosa che, secondo me, non si dovrebbe fare è lo “show del peggio”. E il Grande Fratello va ancora più giù: è lo show del peggio che diventa opinione, termine di confronto.
Al mio paese il peggio oggettivo (perché deve ancora nascere qualcuno che dimostri che nel GF non c’è il peggio) è destinato all’oblio o alle pagine della cronaca. Se il figlio di un camorrista vuole andare in tv può farlo tranquillamente, a patto che il suo legame di sangue non diventi un titolo di merito, un elemento da curriculum che lo ha promosso a discapito del figlio di un qualunque incensurato.
Davanti al Grande Fratello una parte di Italia, colpevolmente lobotomizzata, perde il gusto della critica e la critica del gusto.
Diventa correa del peggio celebrato come il meglio del peggio.

Combattere contro se stessi

Una rete della televisione italiana, la terza, quella che fa ancora trasmissioni guardabili, mette in cantiere un programma guardabile e tira su un progetto dove ci sono campioni di ascolto dai meriti indiscutibili, come Roberto Saviano, Fabio Fazio, Roberto Benigni, Paolo Rossi e Antonio Albanese, (una roba che potrebbe fare record di denari) che però non sono simpatici al premier – che è anche proprietario delle reti concorrenti – e che vengono ostacolati in tutti i modi per far sì che la trasmissione guardabile diventi inguardabile, in quanto irrealizzata, in ossequio al principio secondo il quale la Rai ha l’obbligo di combattere col coltello tra i denti contro il nemico più agguerrito: se stessa.

La cultura di Morgan

Morgan (…) si è esercitato in una serie di imbarazzanti (per lui) contumelie. (…) È ridicolo che uno che si riempie la bocca della parola «cultura» non riesca a fare un discorso di senso compiuto.

Aldo Grasso usa le stesse parole e richiama gli stessi concetti che il sottoscritto ha sommessamente espresso qualche settimana fa a proposito del “talento” di Morgan. Ora, siccome io non sono più esperto, intelligente, furbo, colto di Grasso, evidentemente la realtà è quella che è. Basta prendersi la briga di osservarla.

Grazie alla Contessa.

Guardare Minzolini per Fede


Ieri sera mi sono reso conto di un fenomeno imbarazzante che mi riguarda. Da qualche tempo alle 20 vado automaticamente su Raiuno, per vedere il Tg di Minzolini.
Per anni, anche a causa del mestiere, a quell’ora ho guardato in contemporanea il Tg5 e il Tg1 con la curiosità di mettere a confronto le due versioni.
Ora non è più così.
In quegli anni di zapping forsennato ho seguito compulsivamente anche il telegiornale di Emilio Fede, quasi ogni sera per almeno una decina di minuti: la massima dose consentita dal mio fisico. Oggi so che ero attratto dalla sua capacità di sorprendere con giochi di prestigio e cronache fantascientifiche.
Ecco, adesso guardo il Tg1 come ieri guardavo il Tg4. Solo che ieri ci ridevo su.

Morgan e la democrazia artistica

Scritta dell'home page del sito di Morgan

Ieri sera ho fatto due scoperte. Prima scoperta: su Canale 5 esiste una trasmissione che si chiama Bikini. Seconda scoperta: Morgan non è (più?) in grado di esprimere un concetto elementare a senso compiuto.
Ieri la suddetta trasmissione ha intervistato il suddetto cantante.
Il risultato è stato un pezzo di televisione surreale in cui il personaggio super celebrato non è mai riuscito a trovare la concentrazione per mettere insieme un soggetto, un predicato e un complemento (anche a casaccio, eh!).
Credo che di strada se ne debba ancora fare molta. Per la televisione, per Morgan, per un principio di democrazia artistica: se uno è uno sprovveduto che fa opere che piacciono, non è detto che debba essere interpellato in quanto genio, guru, semidio e sex simbol biforcuto.
Dovrebbe esistere sempre la variante b: “Sa, Morgan, lei ha fatto qualche canzoncina carina. Ora come pensa di convincerci che è anche un artista?”

Il destino ineluttabile del coatto

Come era tristemente prevedibile, Debora e Romina, meglio note come le coatte di Ostia, sono diventate un fenomeno dell’estate.
Se non fosse imbarazzante da pronunciare, la parola che più potrebbe dare un’idea della loro situazione sarebbe: successo.
Le due ragazzine che – ricordiamolo – sono diventate un fenomeno mediatico per aver risposto a domande fesse in modo ancora più fesso (in una lingua che traveste gli strafalcioni da espressione dialettale), adesso hanno addirittura un agente che seleziona per loro proposte televisive, cinematografiche, eccetera.
E’ il destino ineluttabile del coatto che, per fortuna o altro, riesce a guadagnarsi un minuto davanti alle telecamere. Il premio immeritato che non sorprende più nessuno al di fuori del premiato.
In un capovolgimento di mare e cielo, di sapienza e ignoranza, di meraviglioso e orribile, le coatte di Ostia non hanno alcuna colpa se non il compiacersi della propria feconda ignoranza.
Andranno lontano e, quel che è peggio, non smetteranno di parlare quello slang bullesco che – loro non lo sanno – toglie freschezza alla loro giovinezza.
D’altro canto il giorno in cui impareranno la consecutio temporum, sarà la loro fine.

Il calcio privato

Pare che la Lega Calcio, l’organismo più resistente all’evoluzione millenaria dopo gli squali, le tartarughe e una rara specie di lepidottero che vive sul versante sudest della seconda discesa a sinistra della prima porzione orientale della Papuasia, abbia deciso di vietare ogni forma di testimonianza umana delle partite, eccezion fatta per Sky, Rai (“Quelli che il calcio”, cioè la trasmissione che meno si occupa di calcio tra le trasmissioni sportive) ed eventuali network milionari.


Ciò significa che tutte le tv private perderebbero trasmissioni di punta, audience e spunti commerciali.
Sono un abbonato Rai, sono anche abbonato a un network privato: insomma pago tutto quello che c’è da pagare per vedere poche ore di tv all’anno. Per il calcio pago qualcosa in più, anche se io vorrei andare allo stadio, ma mia moglie (tifosa pure lei) ha un debole per la tribuna cuscinata del divano di casa.
Però un campionato senza i salottini delle tv private, senza la passione di telecronisti nostrani che farebbero quel mestiere anche gratis, senza il tifo verace che i media blasonati ci negano, senza il sudore vero che è il contrario di quello che appare prima e dopo il superspot, un campionato così io non me lo immagino.
Quella che la Lega calcio ha in mente è una competizione che si allontana, istante dopo istante, dalla gente, dal substrato del tifoso. E’ un modello che è sempre più Balotelli (un giocatore che se ne infischia del pubblico pagante della sua squadra, cioé di chi gli dà lo stipendio) ed è sempre meno Miccoli (uno che sceglie di rimanere in una piccola società pur di mantenere il piccolo scettro di piccolo re, anche a discapito dei guadagni).
La Lega Calcio è l’organo infetto di un Paese malato, dove neanche il divertimento si discosta per un attimo dalla logica del profitto sempre e comunque, dove la monetizzazione parte col primo applauso dell’ultrà borchiato e termina con l’ultimo sorriso di plastica di Simona Ventura.
Se fossi in campo saprei io contro chi scagliare la pallonata definitiva.

Bella e basta

Per Belen un’estate di nubi. Le vogliono togliere la conduzione di Sanremo, i contratti pubblicitari e il diritto di cittadinanza televisiva in generale. Tutto perché è stata coinvolta nell’inchiesta milanese sulla cocaina.
In tv e sui giornali si discute sulla possibile riabilitazione pubblica, sulla resurrezione dell’immagine di chi ha avuto a che fare con la droga. Speriamo che un giorno si discuta anche del perché una bella ragazza – bella e basta – che parla un italiano goffo con una brutta voce, che non ha idea di cosa sia la recitazione e che in fondo non sa far nulla a parte che mostrarsi, debba presentare il festival di Sanremo, pubblicizzare i prodotti italiani e monopolizzare salotti, divanetti e seggiole di ogni trasmissione televisiva di questo Paese.