Un buon motivo per mettere Gasparri alla porta

Gasparri tweetNon sarà per un’eventuale bega giudiziaria, poiché il garantismo impone prudenze che sono spesso digeribili come le pietre. Non sarà per incapacità tecnicamente manifesta, poiché ai parlamentari non viene richiesta alcuna perizia. Non sarà nemmeno per capriccio, poiché la democrazia non è un sentimento (pur suscitandone molti, drammaticamente diversi).
Potrebbe essere per Twitter, sì.
Se si cercasse un buon motivo, universalmente valido, per mettere alla porta il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri, lo si troverebbe nelle sue scorribande sul popolare social network. Il tweet su Greta e Vanessa in cui l’incauto politico mescola il peggio del ciarpame internettiano col meglio della sua lungimiranza politica, che com’è noto è pari alla sua purezza intellettuale, è un’occasione preziosa per le forze democratiche di questo Paese per depurarsi.
Sapevamo che per governare, come per svolgere molti lavori, occorre sporcarsi le mani. Ciò che non sapevamo, sino all’avvenuto decollo del Gasparri pensiero, è che a certuni il fango stimola, eccita, accende.  Però in Italia abbiamo bisogno di politica, non di mud wrestling.

Portate un caffè all’amico

Lilli_Carati morta

Appena ho saputo che Lilli Carati era morta ho inviato un sms a un amico. Nel frattempo un altro amico mi cercava al telefono di casa, ma io ero impegnato a scrivere una mail a un altro amico e a rispondere all’sms di un altro amico ancora.
Lilli Carati, pace all’anima sua, per un ristretto gruppo di attuali cinquantenni, ex giovani degli anni ’80, è un catalizzatore di ricordi. Anzi per noi di un ricordo preciso.
Cinema Embassy, sala A, (come mi ricorda il caro Totò) dicembre ’88. In fuga da una dura giornata di lavoro al giornale, io e un manipolo di scapestrati colleghi decidiamo di concederci un eccesso che a quei tempi era molto in voga. Niente droghe, né alcol, né abusi alimentari. Pizza, birra e gran casino al cinema a luci rosse. Lo facevamo un paio di volte al mese. La gita al cinema hard core – di solito guidata da un altro mio amico, Ciccio, che conosceva personalmente persino le maschere e il bigliettaio – era un classico della serata da mal di pancia. Mal di pancia dalle risate, si intende.
In quella sera di dicembre dell’88 eravamo una decina. Ultimo spettacolo, tutto esaurito ad eccezione di qualche posto in prima e seconda fila. Il film era l’esordio di Lilli Carati nel mondo dell’hard. Titolo: “Una moglie particolarmente infedele”. Trama: una moglie particolarmente infedele fa la moglie particolarmente infedele.
Prendemmo posto in una sala in cui non si assisteva a una proiezione, ma si faceva il tifo come all’ippodromo: dai, forza, veloce! Appena c’era un accenno di dialogo tra gli attori, la platea rumoreggiava: “E che siamo venuti qui per sentirvi parlare?”.
A un certo punto, mentre la Carati, sempre pace all’anima sua, offriva una prospettiva di sé ostentatamente inedita rispetto alla sua filmografia, dalla fila dietro la nostra (la terza) crebbe un rumore. Forte e sempre più forte. Era un tale che, stremato dal lavoro o molto più probabilmente dal “dopolavoro” da cinefilo, si era addormentato e russava come un disperato.
Sul grande schermo passarono scene più trash che hard, un porno becero ed esilarante accese mille battute che avremmo ripetuto per anni. L’audio al minimo e l’aria irrespirabile di mille sigarette rendeva l’atmosfera lunare. Lilli passava da un amplesso all’altro senza sorridere, un lavoro come un altro, forse più faticoso di un altro, o magari noioso. Che ne sapevamo noi che ridevamo felici, felici di una gioventù analogica, vera, di relazione?
Lilli Carati, pace all’anima sua, era una moglie particolarmente infedele nella nostra serata particolarmente esilarante. Anche perché sul finire del film, quando un tripudio di amplessi disegnò sullo schermo geometrie per quei tempi ardite, il tale che russava si risvegliò con un grugnito da surround, drizzandosi sulla poltrona come Linda Blair ne “L’esorcista”.
Dal fondo della sala, una voce: “E portate un caffè all’amico!”.

Tutti noi, reduci della sala A dell’Embassy di Palermo, ridiamo ancora.

De Fanis, basta la parola

de fanis

Nel sito dell’ormai noto assessore abruzzese Luigi De Fanis, arrestato per tangenti e accusato di aver stipulato un contratto sessuale con la segretaria, c’è molto di quel nulla che solitamente avvolge personaggi di questo genere. Ad esempio, nella pagina dedicata alla biografia del de cuius è interessante intravedere la spocchia del politico, che non deve rispondere di niente a nessuno come se fosse un semidio.
Chi sono, c’è scritto nel sito.
Bene, chi è tale De Fanis?
E’ assessore alle Politiche culturali, veterinaria, sicurezza alimentare e prevenzione collettiva. Tanto basta. Non serve dire cosa ha studiato, dove è nato, com’è arrivato alla politica. No, De Fanis è talmente convinto di essere tutto quel che un politico deve essere da non scrivere nemmeno di quale ente è assessore, in quale parte del mondo.
Perché è inutile stare lì a sottilizzare, tra curriculum e incarichi pregressi. Chi sono?  De Fanis, basta la parola. Come un celebre confetto…

L’organo che serve

Ieri al supermercato mi sono imbattuto in questa confezione di preservativi che non avevo mai visto prima.

foto copia 2

Mi sono chiesto quanto deve essere dura (senza allusione alcuna) occuparsi del packaging e della pubblicità di un profilattico. Certo, non ci vuole un genio della comunicazione per mettere sulla confezione un piccolo organo sessuale maschile sorridente. Ma ci vuole molto impegno per curare la pagina facebook: lì il vero organo che serve non è erettile e si chiama fegato.

Faceva l’amore non la guerra

la guerra dei vent'anni ruby berlusconi

Quindi la “Guerra dei vent’anni” era tutta una questione di sesso. Almeno così sembra, a dar retta all’imbarazzante ricostruzione fatta ieri da Canale 5 dei disastri giudiziari di Silvio Berlusconi.
Il programma di un irriconoscibile Andrea Pamparana ha infatti presentato uno spaccato molto personalizzato delle vicende giudiziarie dell’ex premier: accuse e accusatori inconsistenti (si attendeva una rivelazione sui calzini della Boccassini), telecamere ammesse nei luoghi eleganti delle cene eleganti, Ghedini sbrodolante, Ruby monastica, Silvio consolante.
L’alibi era solido (quello della rete, non quello dell’imputato): Canale 5 è privato quindi non scassateci la minchia e cambiate canale se non vi va. Come se il conflitto di interessi e la questione delle concentrazioni editoriali fossero acqua fresca.
“La guerra dei vent’anni” ci ha raccontato una fiction travestita da cronaca, perché è facile ricostruire la realtà con l’audio originale delle deposizioni in un’aula di giustizia: basta saper lavorare di forbice e di montaggio.
Per il resto, un concentrato di omissioni, ammiccamenti, falsità che spero finiranno in un dossier dell’ordine dei giornalisti. Mai un intervistatore che non fosse genuflesso, mai un accenno alla singolarità di un procedimento in cui l’imputato stipendia regolarmente i testimoni, mai un riferimento ai famosi vent’anni del titolo (la corruzione, l’ombra della mafia, i fondi neri, eccetera). A un certo punto la giornalista che reggeva il gioco a Ruby ha abbozzato una domanda premettendo: “Scusa se te lo chiedo…”. E lì si è capito tutto: brutta cosa quando per portare a casa uno stipendio si sceglie di vendersi.

La più marocchina di tutte le egiziane

Ruby Rubacuori protesta a Milano

Riassumendo. C’era una ragazza marocchina che la sera del 27 maggio 2010 era stata accompagnata in questura in quanto sospettata di furto e senza documenti addosso. La ragazza era minorenne e abitava a casa di una prostituta brasiliana, la quale quella sera pensò bene di chiamare l’allora presidente del consiglio per avvertirlo dell’increscioso contrattempo. Questi non esitò un attimo, una minorenne che vive con una prostituta va aiutata comunque, specie se – come lui stesso disse – si tratta della nipote di Mubarak, e telefonò subito al capo di gabinetto della questura per chiedere che la ragazza fosse affidata a una consigliera regionale anziché, come prevede la legge, a una comunità per minorenni. Così avvenne e la giovane sfortunata finì tra le braccia della premurosa esponente politica.
Sette mesi dopo l’ex presidente del consiglio finì indagato dalla procura di Milano per concussione, per aver approfittato della sua carica di premier per esercitare una pressione indebita sui funzionari della questura al fine di coprire il reato di prostituzione minorile: la ragazza sfortunata infatti non era sconosciuta all’allora premier poiché avrebbe partecipato, con l’esponente politica premurosa, ai festini che si svolgevano nella famosa villa dell’illustre politico. Non gratis, s’intende.
Il 15 febbraio del 2011 l’ex premier venne rinviato a giudizio. Se esistesse il reato di eccesso di panzane sarebbe stato costretto a dichiararsi colpevole, ma siccome proprio quel reato nei codici non c’è, il premier pochi mesi dopo fece approvare alla Camera e al Senato un conflitto di attribuzione in cui si sanciva che la ragazza sfortunata era la nipote di Mubarak pur non essendolo e pur essendo marocchina e non egiziana.
Il 3 ottobre 2011 nello stesso filone di inchiesta vennero rinviati a giudizio la caritatevole consigliera regionale, il direttore del TG4 e un importante talent scout. La accuse: induzione e favoreggiamento della prostituzione minorile.
Riassumendo, ieri la sfortunata ragazza marocchina – sospettata di furto, favorita da un premier, indicata dai magistrati come prostituta, partecipante a notti magiche non a titolo gratuito, oggi animatrice di serate in discoteca non a titolo gratuito e personaggio di copertina non a titolo gratuito – ha inscenato una protesta davanti al palazzo di giustizia di Milano prendendosela coi giudici e con la stampa che la violenta. Probabilmente perché non pagano.

Il dito

Per smascherare il Cavaliere e il suo presunto handicap visivo basta ricorrere a un antico detto: occhio che non vede, cuore che non duole.
Ergo, non fu dito ma questione sentimentale. Vedrete, alla fine si scoprirà che non è corruzione, ma polluzione.

Mignotte

Le liste del Pdl mi fanno venire i conati di vomito, Berlusconi ha ricandidato i soliti, con operazioni incomprensibili come mettere la Polverini nel Lazio. Non siamo mica nati ieri e sappiamo che ha candidato di nuovo delle mignotte. È cambiato troppo poco rispetto alle aspettative, la serietà delle persone è importante. Un censimento è difficile e vedendo le liste, volando basso, mi sono saltati agli occhi i nomi di una decina di mignotte, intese come persone che si adattano a fare qualsiasi cosa, che fanno quegli esercizi che non sono titolo di merito. Non è che se io faccio una scopata allora merito un aumento di stipendio.

Non lo dice Beppe Grillo. Né lo scrive Marco Travaglio. Non lo afferma Gianfranco Fini. Né lo manda a dire Antonio Ingroia.
Lo dice Vittorio Feltri, che dalla famiglia Berlusconi riceve un lauto stipendio.

Kant, l’Ilva e la quinta di reggiseno

Alla fine, quello che sta emergendo è che c’era questo illuminato signore, miliardario e potente, con un Paese sulle spalle e una tremenda voglia di fare e distribuire.
Costui organizzava serate con decine di giovani belle e pettorute che avevano una sola pulsione: sapere, apprendere, imparare.
Si parlava di filosofia, in questo cenacolo di intellettuali: lui, Lele Mora, Emilio Fede.
E’ tutto scritto nei verbali di un processo ingiusto, orchestrato da chi vorrebbe mettere alla forca questo benefattore. Perché lui solo bene faceva, ci aveva pure costruito su un progetto politico: ricordate il partito dell’amore?
Assisteva giovani sbandate che dimenticavano le mutandine a casa, dava una mano a povere modelle senza fortuna, pagava gli studi a ex gieffine, assumeva soubrette disoccupate (senza tuttavia dar loro la pena di lavorare). C’era per tutte, a qualsiasi ora del giorno e della notte.
E’ un peccato che non si sia trovato nessuno all’Ilva con una quinta di reggiseno e con un briciolo di passione per Kant.

Non è una mosca

Viviamo tempi in cui non si distingue l’ottusità dalla lungimiranza. C’è chi fa finta di mollare tutto per scelta, quando invece il suo passo indietro nasconde una precisa volontà di fuga, e chi cerca di ricostruirsi una verginità senza aver memoria di una verginità.
In questi casi, quando cioè chi vive in modo angusto la realtà vuole spacciarsi per uno che pensa in grande, vale sempre la massima di Alexander Pope: “Perché l’uomo non ha una visione microscopica? Per questa semplice ragione, non è una mosca”.