Controindicazioni striscianti. Urticanti, fastidiose. Difficili, anzi impossibili da evitare. L’emergenza Coronavirus rafforza in maniera estrema il controllo poliziesco. Se ne discute nel mondo a tutte le latitudini politiche. Il sociologo francese Geoffroy de Lagasnerie ha parlato di una “sottomissione nazionalista”, e c’è andato leggero. Ma, a mio parere, non è tanto la famosa “deriva autoritaria” che dobbiamo temere, poiché in questo caso il sentimento di sottomissione è volontario per la maggior parte dei cittadini, in vista di un obiettivo comune. Una delle conseguenze di questo attutimento dei diritti per causa maggiore è la perdita di smalto delle coscienze critiche. Ci si affievolisce di proposito per smussare gli spigoli in un periodo in cui gli spigoli non hanno diritto di dividere, confinare, ci si attenua nel nome di un interesse nazionale. Ci si autocensura forse, anzi peggio: poiché nella censura c’è sempre una spinta ostinata e contraria che cova. Invece qui si obbedisce e basta, com’è tristemente giusto che sia. Del resto esercitare fiducia nel prossimo è una di quelle cose facilissime da far male, come la frittata e il sesso a tre. Il rafforzamento dei poteri di polizia, le intrusioni psicologicamente violente nelle nostre abitudini più personali, la perdita della cognizione di popolo come terapia di gruppo contro quello che un tempo era il male del secolo, l’incomunicabilità, (ma quale tempo e quale secolo…) sono controindicazioni obbligate, effetti collaterali di una chemioterapia sociale alla quale si crede per fede. E sulla quale non ci si interroga.
Quando tutto sarà finito, tutto comincerà. E dovremo essere pronti a disinfettare le ferite da sottomissione volontaria.