Faceva l’amore non la guerra

la guerra dei vent'anni ruby berlusconi

Quindi la “Guerra dei vent’anni” era tutta una questione di sesso. Almeno così sembra, a dar retta all’imbarazzante ricostruzione fatta ieri da Canale 5 dei disastri giudiziari di Silvio Berlusconi.
Il programma di un irriconoscibile Andrea Pamparana ha infatti presentato uno spaccato molto personalizzato delle vicende giudiziarie dell’ex premier: accuse e accusatori inconsistenti (si attendeva una rivelazione sui calzini della Boccassini), telecamere ammesse nei luoghi eleganti delle cene eleganti, Ghedini sbrodolante, Ruby monastica, Silvio consolante.
L’alibi era solido (quello della rete, non quello dell’imputato): Canale 5 è privato quindi non scassateci la minchia e cambiate canale se non vi va. Come se il conflitto di interessi e la questione delle concentrazioni editoriali fossero acqua fresca.
“La guerra dei vent’anni” ci ha raccontato una fiction travestita da cronaca, perché è facile ricostruire la realtà con l’audio originale delle deposizioni in un’aula di giustizia: basta saper lavorare di forbice e di montaggio.
Per il resto, un concentrato di omissioni, ammiccamenti, falsità che spero finiranno in un dossier dell’ordine dei giornalisti. Mai un intervistatore che non fosse genuflesso, mai un accenno alla singolarità di un procedimento in cui l’imputato stipendia regolarmente i testimoni, mai un riferimento ai famosi vent’anni del titolo (la corruzione, l’ombra della mafia, i fondi neri, eccetera). A un certo punto la giornalista che reggeva il gioco a Ruby ha abbozzato una domanda premettendo: “Scusa se te lo chiedo…”. E lì si è capito tutto: brutta cosa quando per portare a casa uno stipendio si sceglie di vendersi.

Comunisti

Dal suo lupanare dorato, Silvio Berlusconi torna a indicare la sua pubblica priorità (di quelle private sappiamo tutto a memoria): la lotta contro i comunisti.
Questa fissazione nel combattere un nemico che non esiste più ricorda l’esperienza di quel soldato giapponese che rimase nascosto per 28 anni nella giungla credendo che la guerra non fosse mai finita. Solo che lì c’era un misto di ingenuità, senso della patria e strane convergenze astrali. Nel nostro caso c’è tutto l’opposto, furbizia, egoismo, premeditazione.
Per fortuna la ruota gira e oggi Berlusconi può esercitarsi come vuole nel teatrino della politica. Magari dopodomani lo vedremo giocare in una delle sue tenute col fucile a tappi di sughero e le sagome cartonate di Bertinotti e Occhetto. E sarà il momento in cui verificheremo il nostro livello di attenzione: neanche in quel momento si dovrà essere tentati di sottovalutarlo.

Party e parti (lese)

Ci pensavo ieri mentre correvo (penso sempre quando corro, infatti mia moglie dice che dovrei correre ancora di più): questa storia delle ragazze di Arcore considerate dai giudici come “parti lese” è abbastanza ridicola.
Tralasciando le argomentazioni più trite – dalla partecipazione volontaria alle feste, alla remunerazione  – mi è venuto in mente un collegamento ideale con l’ormai celebre passaggio parlamentare in cui si sanciva che Ruby era la nipote di Mubarak.
Due cazzate simili e opposte non si annullano a vicenda, ma possono fornire nuovi orizzonti.
Se è possibile che un’aula di deputati imponga alla nazione una ricostruzione cialtronesca, è legittimo che un’aula di giustizia suggerisca alla stessa nazione una ricostruzione grottesca. Tutto logico, idealmente conseguenziale.
Basta sterilizzare tutto con una risata.

Igiene dentale e igiene mentale

Nella ormai celebre intervista di Nicole Minetti pubblicata da Diva e Donna, a parte il lirismo di una citazione iniziale da parte dell’articolista di Cristina D’Avena, colpisce il gusto per il paradosso o, a seconda dei punti di vista, lo sprezzo della coerenza.
La consigliera regionale, travestita per l’occasione da ragazza acqua e sapone/casa e chiesa/famiglia e lavoro, dichiara:

Se fossi al suo posto (di un’ipotetica coetanea qualunque, ndr) anch’io forse penserei male della Minetti.

E’ l’unico rigurgito di realismo in righe e righe vergate con la melassa al posto dell’inchiostro.

Avrò il mio riscatto quando riuscirò a realizzare un progetto importante in politica.

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Le colpe dei padri

Barbara Guerra

Se è vero che le colpe dei padri non possono ricadere sui figli, è anche vero che spesso le colpe dei padri plasmano i figli. L’harem di Arcore è in tal senso una miniera di storie che andrebbero analizzate da psicologi e psichiatri, ancor prima che dai magistrati.
Ecco due esempi di rapporto tra genitori e figli nell’Italia berlusconiana (perché qui l’elemento Berlusconi, come vedrete, è determinante).

Il padre di Barbara Guerra, perfettamente al corrente delle serate della figlia col premier, le chiede se può far sapere a Berlusconi che lui sarebbe in grado di piazzare delle cimici nella sede milanese di Futuro e Libertà. La figlia si lamenta perché non riesce a parlare con Berlusconi, impegnato in “sta cazzo di riunione”, ma poi riferisce al padre che è meglio che non se ne faccia niente.
Riassumiamo: un padre sa che la figlia anima a pagamento le notti di un uomo che ha 41 anni più di lei e anziché imbufalirsi (come farebbe qualsiasi padre non degenere del pianeta) si offre per compiere un reato mettendo a rischio il proprio posto di lavoro.

La madre di Elisa Toti parla al telefono con la figlia che le dice di essere reduce da una settimana ad Arcore e di essere stremata. L’unico argomento sul quale la signora batte è il compenso: seimila euro.
Riassumiamo: una mamma non chiede cosa è successo né si mostra preoccupata per la sorte di una figlia che ha trascorso sette giorni con un uomo che potrebbe essere suo nonno. No, si preoccupa solo di sapere quanto ha guadagnato esentasse la figliola.

Le due storie ci dicono molto della spregiudicatezza tramandata di genitore in figlio e ci dimostrano che il sistema dei valori ha radici familiari. La Guerra e la Toti credono di vivere nel migliore dei mondi possibili perché probabilmente hanno avuto trasmesso un imprinting secondo il quale è quello il migliore dei mondi possibili. Il mondo in cui tutto ha un prezzo, in cui il merito non conta, in cui la gavetta è roba da sfigati, in cui il primo motore immobile ha un nome, cognome e codice Iban.

Il berretto rosso

Ieri sera, ad Annozero, mi ha colpito un’immagine. Era nella copertina dedicata agli scontri tra polizia e manifestanti ad Arcore. C’era un anziano alla testa del corteo, con un berretto rosso e le mani alzate. Si muoveva tra gli agenti, che – mi dispiace scriverlo – sembravano ringhiare come cani rabbiosi al guinzaglio di un padrone aizzante, e le persone che protestavano.
Sempre con le mani alzate, si è preso certe mazzate da brivido. A un certo punto l’ho perso di vista, le immagini erano confuse con gli obiettivi che sciabolavano tra manganelli e visi stravolti. Ma lui invece era sempre lì, con le mani alzate e coi manganelli addosso. Solo che non aveva più il berretto rosso.
Io quell’uomo lo abbraccio virtualmente, adesso.

Lasciate stare Sara Tommasi

«Il mio lavoro mi porta a contatto con un certo ambiente e con personaggi del calibro di Berlusconi, Gheddafi, Putin. Non mi pento di niente, cosa avrei dovuto fare? Non lavorare nello spettacolo?».
Corriere, 9 febbraio

«Il mio problema è un impulso insopprimibile a fare sesso. Ma non sono una prostituta. È che mi sciolgono la droga nei bicchieri… Certo, se un ministro mi offrisse 15mila euro… ma è solo un’ipotesi».
Novella 2000 di questa settimana

“Riprendi subito Ron (Ronaldinho, ndr) nella tua squadra di m… o ti faccio escludere da Obama dai Grandi del mondo”.
Sms inviato a Berlusconi il 15 gennaio 2011

Le tre frasi appartengono alla starlette Sara Tommasi, una che in un qualsiasi altro Paese sarebbe rimasta a fare l’aspirante velina, modella, attrice, miss, in attesa di un momento buono, di un’ispirazione o chissà di una immancabile spintarella da parte del produttore bavoso e maneggione, e che invece è diventata un elemento chiave dell’iniziativa giudiziaria contro Silvio Berlusconi.
Nelle intercettazioni della signorina Tommasi c’è tutto e l’abbozzo di tutto, come del resto nelle sue impervie dichiarazioni alla stampa. Il suo sms su Obama e Ronaldinho passerà alla storia come la cazzata più solenne della storia moderna, dopo il voto della Camera su “Ruby nipote di Mubarak”. Una di quelle frasi che gli scrittori vorrebbero mettere nei libri se il pudore di dover tramandare qualcosa ad anime innocenti non fosse un’umana barriera contro l’imbarbarimento dei tempi da narrare.
Perché Sara Tommasi è – diciamolo – una testimone impresentabile. Una che cita il presidente degli Usa e un calciatore famoso con la stessa disinvoltura con la quale manda a fare in culo un premier che, probabilmente, non l’ha mai calcolata più di quel che gli serviva. Una che si credeva al centro di un mondo che non la comprendeva. Una che probabilmente ha perso la luce della logica nel buio della personale delusione.
La Tommasi non è e non potrà mai essere una vera teste d’accusa contro Berlusconi, ma al contrario sarà l’appiglio ideale per i suoi difensori: disordinata, incoerente, pacchiana, esagerata. Una di quelle che sa le cose perché gliele ha dette suo cuggino… E che si vanta di amicizie tanto fantasmagoriche quanto ridicole. Sara Tommasi si sente una first lady tradita, e sembra non aver contezza di non essere first, di non essere lady e di non essere nemmeno tradita (il tradimento si riserva alle persone che hanno un peso oggettivo).
Se fossi un magistrato non mi sognerei nemmeno di valutare i verbali di una persona con un simile disordine interiore. Al limite girerei tutto al suo medico curante.

Grazie alla Contessa.

The Arcore’s nights

Piccolo suggerimento: chiudete lo spot pubblicitario per leggere i sottotitoli.

Grazie a Giuseppe Giglio.

Dice Calderoli

“Noemi? Ha due difetti: è bruttina e napoletana. Silvio basta con Napoli, torna ad Arcore”. Ci voleva un ministro alla Semplificazione per rendere la magica essenzialità di un concetto così denso di contenuti.