Otto matrimoni e un funerale

Liz Taylor sarà seppellita nello stesso cimitero di Michael Jackson, Farrah Fawcett, Dean Martin, Truman Capote e possibilmente vicino a Marylin Monroe.
Si dice che i suoi occhi non fossero proprio viola, ma so che da giovane era uno schianto di donna. Si dice che molte delle sue battaglie civili, non ultima quella contro l’Aids, fossero ispirate da motivi personali, ma non mi risulta che un’esperienza diretta vada a detrimento dell’impegno a fin di bene. Si dice che nonostante i sette mariti (sposò Richard Burton due volte) negli ultimi anni trovasse compagnia in un cagnolino di nome Sugar, ma sappiamo come gli animali sappiano essere degni supplenti degli esseri umani.
Si dice che fosse l’ultimo mito di Hollywood, ma ci piace credere che i miti non muoiono mai, anche se per diventare davvero miti hanno bisogno di morire.

Il lieto fine


C’è qualcosa di meravigliosamente tragico nella morte di Sandra Mondaini. E nulla che abbia a che fare col palcoscenico, con l’arte, con la messa in scena di un sentimento.
E’ l’epilogo che ogni marito defunto sogna dall’alto dei cieli, o chissà da dove, e che non avrà mai il coraggio di confessare vita natural durante: che la sua metà lo segua al più presto, senza la devastazione di un gesto estremo e senza che la tragedia si amplifichi troppo.
Noi maschi viventi, sentendoci altruisti e aperti al mondo, rassicuriamo spesso le nostre mogli: “Dopo che me ne sarò andato sarò felice di saperti felice”.
Felici un corno, diciamocelo.
Se da un balcone, o molto più probabilmente da un tornante dell’aldilà io mi affacciassi e vedessi mia moglie che se la spassa, non so quanto potrei saltare di gioia.
Però mai e poi mai mi batterei per farle lasciare la vita che ancora le spetta.
La fortuna massima di un amore è che sia incantevole anche nel suo atto finale.
Per questo la morte di Sandra Mondaini è meravigliosamente tragica: perché è annunciata e tenera, naturale e consolante.
E’ uno straziante, indimenticabile, felice lieto fine.

Roulette russa

Le lettere-testamento recapitate ieri alle quattro principali autorità dello Stato, Francesco Cossiga le scrisse nel settembre del 2007. L’unica che è andata a segno è quella al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano che già allora era al Quirinale.
Le altre, ironia della sorte, sono finite agli antipodi. Quella scritta mentre il premier in carica era Romano Prodi è stata consegnata a Silvio Berlusconi. Quella per il presidente del Senato, anziché trovare Franco Marini ha beccato Renato Schifani. Quella per il presidente della Camera è stata ricevuta da Gianfranco Fini anziché da Fausto Bertinotti.
Non so perché, ma piuttosto che agli incroci del destino in questi casi mi viene da pensare alla roulette russa.

Rettifica: è morto

de La Contessa

Viene da rimpiangere l’ipocrisia democristiana. O le allusioni maliziose di Cossiga, che per fortuna sta un po’ meglio.

Aldo Cazzullo sul Corriere (e sul corriere.it ancora oggi).

Se cade un Petruni

E’ accaduto ieri.  In tutti i collegamenti in diretta e con compulsività patologica, Susanna Petruni nella sua trivalente veste di inviata a Siena, di vicedirettore del Tg1, di berlusconista osservante (e purtroppo praticante), ci ha ricordato come la tragica morte del turista francese alla vigilia del Palio non sia la conseguenza di qualche magagna umana, dell’incuria pubblica o di un cedimento strutturale, ma di una strana maledizione.
Va bene la nota di colore, va meno bene l’inseguire la superstizione sino a farla diventare elemento fondante della cronaca.
Il male che viene dall’alto (anche se sotto forma di pezzo di cornicione) nella logica della trivalente Petruni, ha ragioni che vanno cercate nella cabala, nei colori dei gonfaloni, o chissà nei fondi di caffé.
Non c’è mai una ragione razionale, a certe latitudini di ragionamento, per le sventure di noi umani. Del resto il partito dell’amore, nei cui confronti la Petruni non nasconde devozione, ha vietato ogni legame di casualità con quel che normalmente accade. Se viene giù un palazzo o il mibtel, ci sarà un motivo: odio o sfiga. Mai una responsabilità personale.

Gli operai di Kabul

para morti kabul

Tra gli effetti collaterali, sommersi a malapena dall’onda (spesso anomala) di dolore che scaturisce da un attentato come quello di Kabul, c’è la “dietrologia bilaterale lancinante”: uno stato patologico sopito (che colpisce a destra come a sinistra, per questo bilaterale) che si risveglia quando, purtroppo, arriva la notizia della perdita di vite umane dei nostri contingenti nelle zone calde del pianeta.
Il sintomo più grave è la richiesta compulsiva dell’immediato ritiro delle truppe e l’azzeramento della missione: tutti a casa presto, prima che succeda qualche altra tragedia.
Come se si ignorasse il motivo per cui queste persone, militari di professione, hanno scelto di andare a combattere.
Sì, a combattere.
Perché questa banalità, che ha tutti i connotati dell’oltraggio alla pubblica intelligenza, della missione di pace con gli angioletti che svolazzano sulle code dei diavoli cercando di far proseliti a forza di preghierine dovrà estinguersi, prima o poi.
Quando uno Stato manda le sue truppe armate a presidiare il territorio di un altro Stato compie un atto di forza almeno contro una quota degli abitanti di quella nazione. Non discuto la liceità dell’operazione – nella maggior parte dei casi l’atto di forza è indirizzato contro dei criminali – rimango alla realtà galleggiante dei fatti.
I nostri militari in Afghanistan, nello specifico, sono in assetto di combattimento: non girano scalzi con la bibbia in mano. Sono professionisti addestrati e il potere politico che li ha inviati laggiù li paga (comunque troppo poco) per svolgere la loro professione. Che è quella di proteggere e di proteggersi con le armi, cioè potenzialmente di fare vittime.
Non voglio prendere la questione con i guanti, ma non voglio essere frainteso: non sto, in alcun modo, giustificando l’orribile atto dei kamikaze né sminuendo la difficoltà del ruolo dei nostri militari.
Però credo che bisogna avere il coraggio di chiamare le cose col loro nome, nel rispetto di tutti. Una morte in battaglia per un militare è un incidente di lavoro.
Se non ci sono negligenze, speculazioni o trasversalismi non si chiudono i cantieri navali quando quattro operai muoiono tragicamente nella cisterna di una nave.

Sparate

giornale

Oggi il Giornale del solito Feltri, a parte pubblicare in prima pagina la foto di un soldato italiano dilaniato, ha un’idea (o due?) geniale su come muoversi in Afghanistan: organizzare presto una strage nella compagine nemica oppure darsela a gambe.

Il miglior modo di andarsene

mike bongiorno

L’innovatore infelice

michael-jackson

Ora qualcuno vi rimbambirà con la storia della rockstar maledetta, sfruttata e incompresa. Chi invece con Michael Jackson è nato, cresciuto e invecchiato sa bene che le cose sono andate diversamente.
Jacko era un genio della musica, calcolatore e furbo. Un uomo forte della sua debolezza e delle sue debolezze. Un artista incapace di piegarsi alle ragioni dell’umana convivenza: il culto della parte proibita di sé, la distanza da un aspetto fisico legittimo, la droga della solitudine.
Jackson ha suonato, cantato e arrangiato pop, R&B, funk, soul, disco, dance. Ed è stato il più bravo. Prima che le classifiche musicali fossero monopolizzate dai grandi circuiti radiofonici, ha piazzato i suoi album ai vertici e ha costretto la storia ad occuparsi di lui, almeno come recordman (Thriller è ancora l’album più venduto di tutti i tempi).
Non è stato incompreso, ha voluto essere incomprensibile per tutto ciò che stava fuori dalla sua musica. Tanto lineari erano le sue architetture armoniche, tanto aggrovigliate apparivano le sue vicende personali.
Michael Jackson era, per sua stessa scelta, un innovatore infelice, un folletto deluso dalla propria bizzarria. Nei suoi piani – ne sono certo – non c’era la felicità, ma l’invenzione.
Forse se n’è andato troppo tardi.

“Mandaci una cartolina”

ironia

di Cinzia Zerbini

Tutti siamo convinti che certe cose accadano solo nel luogo in cui viviamo. Abitudini, manie, vizi, colpi di genio contribuiscono a farci sembrare unica la nostra terra. Magari non è così, però sfido chiunque a trovare fuori dalla Sicilia un necrologio che annunci la morte di un uomo e che si concluda con: “Mannaci ‘na cattulina” (mandaci una cartolina). L’ha scritto Carmen Consoli ed è stato pubblicato su La Sicilia di Catania, qualche giorno fa.
Giuseppe Consoli, deceduto a 72 anni, era suo padre.
Così ho pensato a quanto sia rara la capacità di affrontare con ironia la tragedia della morte.
Ho pensato che se la Consoli non dimentica mai la città dalla quale proviene, lo deve proprio a ciò che le hanno insegnato.
Ho pensato a quei papà che ti insegnano a vivere con il sorriso e che nel momento del dolore ti raccontano l’amore. Per molti di noi, i padri sono speciali perché hanno gli occhi dei principi delle favole e l’armatura dei cavalieri: è forse quest’immagine che ci induce, da grandi, a dir loro le bugie per sembrare migliori.
Infine ho pensato che forse una risata non cura il dolore e che l’ironia è solo un cerotto per le ferite. Però se in una prossima (fantomatica?) riforma della scuola mettessero anche una buona mezz’ora di “apprendimento dei principi di base per l’arte di prendersi in giro” il mondo ne guadagnerebbe.