Annamaria

“Dietro ogni uomo di successo, ci sono una moglie fiera e una suocera sorpresa”.
Harry Truman

Se mai avessi avuto successo avrei avuto una moglie fiera e una suocera divertitissima. Perché Annamaria, mia suocera, era così: interessata, avida di storie, curiosa. Quindi divertente e divertita.
Mai stata una suocera suocera. Nel senso che mai nel corso dei naufragi della mia vita – almeno quelli che lei ha vissuto di ruolo, per gli altri la sua vividezza mentale le dava il tormento perché non sopportava che ci fossero cose di me di cui non si potesse discutere davanti a una tavola imbandita – si è mostrata col ditino alzato pronta a difendere tesi precostituite.
Annamaria era elegante e solitaria. Ma di un’eleganza d’animo ancor prima che esteriore, sebbene anche nella vecchiaia curasse attentamente il suo aspetto guardandosi bene dall’inciampare in quegli anacronismi estetici che fanno di tante vecchie grotteschi fenomeni da baraccone. Annamaria, a dispetto dell’età, non era vecchia. E mai lo sarebbe stata, nemmeno a 150 anni.
Era di un solitario maniacale: coltivava la sua indipendenza centellinando le sue sortite e camuffando da discrezione una sua innata pigrizia. Usciva poco perché le scocciava separarsi dal suo mondo fatto di romanzi, vissuti e letti. Perché Annamaria era, oltre a una divoratrice di storie (e lì riuscivo a convincerla a venire a cena da noi, massimo tre persone, buon vino che aveva scoperto in tarda età e pane fatto in casa) anche una gran raccontatrice.
Aveva i cassetti pieni di sogni e gli armadi privi di scheletri. Insomma sapeva bene dove stivare i sentimenti. Per questo mi piaceva. Perché leggeva più di me; perché riusciva a essere trasversale nella sua visione ottocentesca della vita; perché era una donna buona nonostante esercitasse senza esitazioni la facoltà del non perdono; perché non sapeva cucinare ma era una buona forchetta; perché era femmina nel gestire i segreti come rospi non sputati.
Ebbe una vita con risvolti incredibili e me ne narrò un bel pezzo. Negli anni ho preso un bel po’ di appunti per un libro o per una sceneggiatura e vi assicuro che ho in mano una storia bella, umana, divertente e malinconica. Come lei.
Solo che adesso non mi va più di raccontarla.
Fai buon viaggio Annamaria, in un’altra vita t’insegnerò a fare il pane in casa. E tu mi insegnerai a condividerlo con le persone che davvero valgono.

La suocera nell’immondizia: è vero scandalo?

Rap suoceraUn estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.

Buttate un sacchetto di immondizia per terra e quasi nessuno si indignerà pubblicamente. Provate a mettere un po’ di pacchiana ironia su un manifesto pubblicitario e succederà il finimondo.
Perché Palermo ha un callo per tutto, fuorché per la cartellonistica. L’ultimo caso è quello della campagna pubblicitaria della Rap in cui si raffigura una specie di suocera legata a un rifiuto ingombrante da smaltire. Il mondo della politica cittadina si è scatenato: “Messaggio inquietante”, ha tuonato la consigliera del Pd Antonella Monastra, scegliendo lo stesso aggettivo che aveva usato per le minacce al pm Di Matteo; “Mai vista una campagna pubblicitaria più pericolosa di questa”, ha ammonito il capogruppo Idv al Comune Filippo Occhipinti.
Ma come è possibile che la vecchia cara suocera, da sempre primo ingrediente di barzellette (…) e luoghi comuni, sia diventata all’improvviso simbolo del decadimento dei costumi? La risposta breve è: colpa di una pubblicità che non è affatto sessista, ma semplicemente brutta. La risposta extended version parte invece da lontano. Dal 1973 e dalla bizzarra crociata di un pretore palermitano, Vincenzo Salmeri, che s’indignò per gli hot pants della Jesus, anzi a voler esser precisi per il contenuto di quei jeans, e decise di far oscurare i manifesti. E arriva sino ai giorni nostri quando si scatena un movimento di “puristi dell’arte” a difesa della Cattedrale di Palermo inguainata dai teloni pubblicitari non per abuso ma per necessità, dato che i soldi degli sponsor servono al restauro. Insomma manifesti come pietre dello scandalo, cartelloni come macigni sul ventre del sentire comune. Ciò che è affisso colpisce, il resto scorre e passa via. Vuoi vedere che il famigerato collante sociale non è altro che semplice colla?

Sviste mondiali

Suocerando

di Abbattiamo i termosifoni

Durante Italia-Nuova Zelanda, una telecamera Rai inquadra un uomo con una testa fitta di capelli bianchi, un paio d’occhiali, un mezzobusto vestito di color porpora.
Mia suocera chiede: “Ma che ci fa il papa allo stadio?”.
Era Marcello Lippi.

Sorridi, sei su Franca’s camera!

Suocera

di Abbattiamo i termosifoni

Qualche giorno fa, a casa di mia suocera Franca è arrivata una badante rumena. Quasi del tutto senza denti, poverina.
Poco dopo, l’immarcescibile vecchietta ha commentato così: “E’ simpatica, allegra… e che bel sorriso!”.

L’highlander al fast food

Suocerando

di Abbattiamo i termosifoni

Man mano che il tempo passa, mia suocera ringiovanisce. E’ una specie di highlander femmina. L’ultima sua trovata è in stile Happy Days: con un paio di fuseaux, i calzini corti e un foulard al collo, proprio come le ragazze che nel telefilm americano frequentavano il mitico Arnold’s, questa indomabile ottantenne ha preso l’abitudine di fare due pellegrinaggi bisettimanali. Non, come farebbero tante pie vecchiette, a San Giovanni Rotondo o – per restare in zona – al santuario di Santa Rosalia. Lei da qualche mese va da Mac Donald’s. Dove non era mai stata prima.
Alla sua età ha scoperto il fast food. Con la badante al seguito, si accomoda ai tavolini, beata tra bambini che schiamazzano lanciandosi patatine fritte, musica a palla e puzza di grassi non meglio identificati, e ordina. Rigorosamente un Happy meal. Quello o nient’altro: e non per il panino che c’è dentro – sul contenuto non ha preferenze, purché sia vagamente commestibile nonostante la sottiletta arancione e tutto il resto – ma perché vuole la sorpresa: orsetti, giraffe, delfini di plastica, robot, peluche. Purché non siano viola. Per carità! E’ superstiziosissima e se pesca un gadget di quel colore, protesta e se lo fa cambiare.
In proposito, proprio oggi mi ha raccontato che giovedì scorso le hanno dato (testuale) “il panino con la giraffa”…
Ho sempre pensato che il ripieno dei prodotti Mac Donald’s fosse di dubbia natura, ma non fino a questo punto.
L’unico problema, la prima volta che mia suocera è stata nel suo nuovo paradiso artificiale (è il caso di dirlo, basta appunto guardare la carne che usano), è stato capire dove avesse imposto alla badante di portarla.
“Francesca, dove hai cenato?”, le ho chiesto.
“Da Marco Macchi”, ha risposto senza esitazione. Io ho pensato che fosse il nome di battesimo di un ristoratore che non conoscevo.
La seconda volta non è andata meglio:
“Sono stata da Macchi Macchi”, ha trillato.
“Ah…”. L’interpretazione, per me, si faceva più complessa.
Poi, un giorno, è tornata con un palloncino in mano. Alcune promotrici del Conad che sta accanto al suo Mac Donald’s preferito avevano regalato ai clienti del fast food palloncini pubblicitari gialli, attaccati a un bastoncino. Sulla plastica, in rosso e con caratteri così grandi da non sfuggire nemmeno alle cataratte più accanite, c’era il nome del supermercato.
Così Mac Donald’s, nel vocabolario di mia suocera, è diventato Conàid. Due giorni dopo riadattato in Conàld.
Quando questa bizzarra donna cena lì, da Marco Macchi o da Conàld che dir si voglia, mangia sempre quello che lei chiama l’“amburgo”.
Mastica di certo molti “amburgo”, ma poco, pochissimo, l’inglese.