Non c’è discografia da citare, non c’è neanche un esempio da fare. Di David Bowie ognuno di noi ha un ricordo unico e singolare. Non esiste, a mia memoria, artista più variopinto e meravigliosamente indecifrabile. Era rock, era pop, era soul, era punk, era attore, era pittore, era mimo, era tossico, era extraterrestre, era manipolatore dei media, era libero, era schiavo della popolarità, era avanti, era unico nella moltitudine, era eterno ancora prima che morisse.
Non ha avuto fans, ma adepti. Perché Bowie ti includeva nella sua musica come se dovessi aderire a una setta: ogni giorno un miracolo, ogni album un sortilegio, ogni ricordo una colonna sonora. Il suono asciutto dei suoi dischi – chiamiamoli ancora così nonostante cambi il formato, erano e rimarranno dischi – si riconosceva sin dall’attacco del primo ascolto. Sentivi un giro di basso, i primi due colpi di rullante, il graffio di una chitarra elettrica e dicevi: “Cazzo, questo è Bowie”.
Per molti era un trasformista, per tutti gli altri era il dio di una trasformazione che ti portava a credere che anche negli inferi c’è un angolo di paradiso. Dove il rock sgretola i confini tra bene e male, tra bianco e nero, tra vita e morte.
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